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Italo Moscati

L’attore: miseria creativa e volontà di potenza

Data di pubblicazione su web 31/08/2005
Carmelo Bene
L’attore. Si torna a parlare dell’attore, impetuosamente. La recente scomparsa di Valeria Moriconi ha indirettamente provocato, nei vari interventi che hanno ricordato la sua bravura e la sua incontenibile energia e simpatia, una domanda importante, persino angosciosa: quando se ne andranno i più grandi della nostra scena, che cosa succederà non soltanto alla scena teatrale italiana ma, nel complesso, al cinema e alla televisione?

Senza attori la “macchina” dello spettacolo è destinata al declino (e non sembri inappropriato il paragone con il declino della nostra industria ed economia, di cui si parla in un libro illuminante di Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, 2003).

Senza attori, o con solo gli attori allevati dalle televisioni o tra gli animatori nei villaggi turistici, lo spettacolo non potrà andare molto avanti. Si apre quindi una nuova questione. Ho pensato di affrontarla, per rendere omaggio a Valeria e agli interpreti che se ne sono andati (Vittorio Gassman primo fra tanti), anche usando due parole che, a mio parere, restituiscono con immediatezza il senso di ciò che intendo dire, sviluppando il tema: miseria creativa.

Cominciamo. La miseria creativa me la sono trovata davanti quando negli anni Sessanta e Settanta seguivo il teatro d’avanguardia, a Roma e per il mondo. Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Memè Perlini, Giancarlo Nanni, e tanti altri, a Roma. Il Living Theatre, l’Open Theatre, Jerzy Grotowski, Tadeusz Kantor e tanti altri, a Roma ma anche a Londra, New York, Amburgo, Parigi. Incontrando gli attori e i registi di quella avanguardia, vissuta tutto sommato abbastanza a lungo (fino agli anni Novanta), mi sono imbattuto anche con gli attori e i registi dell’avanguardia del cinema, dal New American Cinema di New York e di Los Angeles alla Cooperativa del Cinema Indipendente italiano, inseguiti nei festival come ad esempio la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e anche in questo caso nelle capitali dello spettacolo, all’Ovest come all’Est, attraverso le ondate successive alla nouvelle vague e alle altre tedesche, brasiliane, spagnole, ungheresi, cecoslovacche…

Miseria creativa intesa come scarsità di mezzi in molti casi, ma anche come sbalorditiva carenza di vitalità e di possibilità di semina, a causa dell’incapacità dei volenterosi imitatori che facevano torto ai loro modelli e anzi li deterioravano, seguendone passivamente l’esempio.

Miseria creativa fatta di centinaia, forse migliaia di corpi in movimento. Corpi spesso senza voce. Non perché non avevano nulla da dire, ma perché il loro silenzio era accettato, o se lo erano fatto imporre. Corpi di vario tipo, preferibilmente nudi, come accadeva proprio in quel teatro e in quel cinema d’avanguardia che, spogliando gli attori, si presentava, o credeva di presentarsi puro, essenziale alla meta. Corpi di attori che seguivano come fedeli in processione la figura e il verbo del capo che si erano scelti. Corpi da militi ignoti, anzi da sonnambuli.

Uno spettacolo potente. Lo spettacolo della fedeltà o addirittura della devozione mi riempì gli occhi soprattutto grazie a Julian Beck del Living Theatre. Un profeta. Chi lo ha visto anche in fotografia, non può più dimenticarne le fattezze e il tono della voce sempre ispirato. I ragazzi lo seguivano, miserabili della creatività, senza discutere, cedendo ogni istante la libertà personale, la disponibilità, la mente, il sogno.

Non capii subito quello spettacolo che serpeggiava negli spazi più incredibili, ampi o ridottissimi. Forse perché anch’io cercavo la mia miseria creativa, ossia avevo bisogno di esplorare per essere conquistato.

L’ho capito più tardi, quando ho letto alcune pagine di un fantasioso poeta che faceva il sociologo: Christopher Lasch, l’autore del libro La cultura del narcisismo. Julian, dice Lash in questo libro-romanzo di una lunga stagione di sogni e di desideri (uscì in America nel 1979 e due anni dopo in Italia), non sapeva di “volersi” mettere alla testa di una massa di pellegrini e di guidarli ad una sorta di crociata contro la modernità. Julian, il sottile, delicato, carismatico Julian non sapeva -o se lo sapeva, non aveva alcuna importanza- di vivere la sua volontà di potenza e di esaurirsi in essa. Volontà di potenza, beninteso, in senso nietzschiano, ovvero come volontà di esistere, come cieco e sordo bisogno di possedere un sovrappiù di potenza; una potenza totale come impulso fondamentale per sopravvivere. Impeto, diceva ancor prima Schopenhauer, del vivere o del sopravvivere nel gioco della rappresentazione.

Quel che credevo di avere incontrato, percorrendo le vie frangigene delle molte avanguardie, e cioè le mille e mille scene ubbidienti alle regole e alla sedimentazione delle tecniche o degli stili, mi apparve all’improvviso scomparire per lasciare spazio ad un’altra cosa, ben chiara, ben definita. La accolsi a poco a poco, con diffidenza, dovendo superare una serie infinita di gabbie di prevenzione esterne e interne. Una partenza fulminea per un viaggio che si allungava nel tempo. Mi accorgevo, spettacolo dopo spettacolo, film dopo film, che l’attenzione posta al lavoro del regista o dell’attore da una critica abbagliata dal bisogno del giudizio estetico e dal gioco degli opposti (le avanguardie contro le ufficialità) valeva quasi nulla rispetto a quel che avevo scoperto.

Che cosa avevo o meglio stavo scoprendo? Quel che mi parve un fatto certo e incontestabile, una vera novità dopo anni in cui le avanguardie hanno eroso la base dell’ufficialità e delle strutture d’ogni tipo nel cinema e nel teatro.

Ecco la novità: la fine del dominio della regia, così com’è stato teorizzato e praticato nel Novecento quasi per intero, e l’inizio di una fusione ancora in corso che sta invadendo la stessa Tv, una volta il regno della perfetta divisione dei compiti fra chi lavorava dietro le quinte (gli autori) e chi andava in video (attori, presentatori, cantanti, conduttori…).

La volontà di potenza, distillata e raffinata negli anni, ha saputo fondere in se stessa la figura dell’attore e quella del regista, ovvero dell’autore. Ciò si è verificato, si sta anzi verificando per la consunzione delle grandi idee-guida del Novecento al cui servizio si è messo regolarmente un propagandista di talento: da Sergej Michajlovic Ejzenštejn a Leni Riefenstahl. Giganti al confronto di un Carmelo Bene soltanto per la coincidenza della loro vita e della loro carriera con le fortune di ideologie (o religioni laiche) che hanno messo i loro studi cinematografici al posto delle cattedrali.

Carmelo Bene, come Julian Beck, era ed è l’artista che ha realizzato meglio la fusione indispensabile per sopravvivere nella contemporaneità: far coincidere il corpo con il progetto, la regia con la sua applicazione, l’esibizionismo narcisistico con lo scandalo della sua presenza, della sua proposta.

Carmelo Bene era più vicino a noi, alla nostra situazione generale di paese anziano e in declino, e ne rifletteva tutti i limiti e tutta la sua disperazione, disperazione come sentimento che non cancella, se non altro per contrapposizione, l’idea che possa esistere qualche forma di speranza.

Carmelo si gettava sulla scena o sul set consumando se stesso, e adorava le folle (come dimostrò nei suoi recital nelle piazze) costringendosi ad ignorarle a lungo nei suoi teatrini e nelle sue cantine, accecato e reso folle dal desiderio di possederle. Il Carmelo dell’inizio attaccava ferocemente il pubblico perché lo voleva, perché voleva essere amato senza condizioni. Una manciata di spettatori, al Teatrino di via del Divino Amore nel centro storico di Roma, per lui era il mondo. Chi non c’era aveva torto, e quei quattro gatti valevano le masse adoranti.

Julian Beck e Carmelo Bene sono gli attori totali che sarebbero piaciuti ad Antonin Artaud, il teorico della crudeltà nella rappresentazione, di cui erano peraltro conoscitori e persino seguaci.

Di più, sono i “divi” specialissimi che hanno suggellato e chiuso con la loro morte un periodo di transizione che non è ancora finito e che, come spesso accade, può segnare un passo indietro anziché un passo in avanti, almeno per quanto riguarda il profilo dell’attore nell’era delle inarrestabili conquiste televisive di gran parte del mercato della diffusione e della produzione. E’ a causa di queste conquiste che la miseria creativa si allarga dai cortei degli imitatori dei grandi modelli d’avanguardia, all’incesto mediatico fra i protagonisti dei molti, inarrestabili reality show con gli spettatori che li guardano.

Julian e Carmelo, erano e sono “divi-antidivi” d’eccellenza, mescolanza di utopia e narcisismo in forme acute. Ristudiarli diventa sempre più indispensabile, come vedremo poi.

Intanto, però, fermiamoci alla parola “divismo”. Il suo uso è diventato nel tempo, da quando è nato il cinema ad oggi, banale, inflazionato, comodo ma soprattutto impreciso, se non addirittura equivoco e ridicolo a causa della Tv e di ciò che le va dietro, inseguendone l’esempio, dai settimanali cosiddetti rosa ai siti online e ai fuggevoli beniamini di una cronaca che vive di piccole mitologie.

Tuttavia, la parola conserva un suo fascino e me ne servo volentieri. C’è sempre bisogno di un Olimpo, piccolo o grande, per capirci meglio e sanzionare la morte dell’utopia nel mare della comunicazione che tutto etichetta e semplifica. Divi sono stati, per citarne alcuni, Rodolfo Valentino, Gloria Swanson, Greta Garbo, Marylin, e lo sono Tom Cruise, Nicole Kidman, Julia Roberts, Brad Pitt; e qui da noi lo sono stati Clara Calamai, Assia Noris, Amedeo Nazzari, poi Gina Lollobrigida, Marcello Mastroianni e Sophia Loren, ma adesso fioriscono nelle aiuole o nelle giungle degli studi Tv.

A proposito delle aiuole o delle giungle, in Italia il bisogno e la ricerca del divo arriva e sorpassa il parossismo. Il cinema prova, con la splendida decana Stefania Sandrelli, a tenere in vita un Olimpo che si è accartocciato su Cinecittà, o con i più giovani Stefano Accorsi e Giovanna Mezzogiorno. Uno sforzo inaudito che non produce grandi risultati. Lo stesso teatro si rifà agli ultimi sopravvissuti di lontane stagioni, come Valeria Moriconi o Giorgio Albertazzi. Ma in tutti i casi il nostro divismo sembra essere una pratica passata definitivamente (?) in archivio. Del resto, gli spettatori italiani hanno già scelto da tempo: il loro sguardo scavalca lo schermo nazionale e assiste all’arrivo costante di nuovi eroi, nuovi volti da Hollywood, e ad essi sembra teneramente avvinto. La globalità è scesa dal grande schermo e vi è entrata, e non c’era bisogno dell’antidivo (?) Woody Allen in La rosa purpurea del Cairo per dimostrarcelo.

In realtà, non si tratta di una morte vera e propria, ma solo una dichiarazione di morte presunta fatta un po’ genericamente da una moltitudine di critici che fanno parte, per abitudine e mentalità, di quel gruppo infinito che Paul Nizan chiamava “cani da guardia”.

Questi “cani da guardia”, per restare in Italia, si sono moltiplicati nella breve stagione del neorealismo e hanno continuato a ringhiare fin quando hanno dovuto cedere alle generazioni più giovani che hanno riscoperto la “commedia all’italiana” o la commedia del cinema in genere, inventando un divismo di conio nuovo, un po’ sdrucito e comunque irresistibile, collocando al posto delle “maggiorate” pettorute (Silvana Pampanini, la Mangano, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, e altre con la stessa misura di reggiseno), i “maggiorati” della comicità, quelli che una volta – anni Quaranta e Cinquanta - erano i “minorati” delle risate, di cui il principe assoluto era il principe Antonio De Curtis detto sulle scene Totò, accompagnato dai divi dell’Italia e del mondo messo surrealisticamente o dadaisticamente in burletta: Macario, Carlo Dapporto, Rascel e altri. Senza il principe e questi moschettieri, ci si può giurare, non ci sarebbero stati né Ugo Tognazzi, né Alberto Sordi, né Nino Manfredi, né il Vittorio Gassman (quel Gassman che dura di più nel tempo, a dispetto della tragedia greca e di Amleto).

Sono sempre in azione i “cani da guardia”, anche nelle nuove generazioni che, pur crescendo nel culto della “commedia all’italiana” e persino dei suoi cascami, si sono qui da noi specializzati nel confermare la sentenza di morte dei divi e del divismo, spesso non accorgendosi che sia gli uni sia gli altri stavano rinascendo da un’altra parte, nella tv del “Grande Fratello” e dell’“Isola dei famosi”.

Ma qui conviene, per non smarrire il filo, evitare di perdersi nella contemporaneità che pure ha la sua forza, fare un passo indietro nel tempo e rilanciare una parola magica che oggi ha perduto la magia e langue nei ricordi di chi si ricorda e nei libri impolverati. La parola è “straniamento”.

Chi se la rammenta? La imposero due persone di teatro, Giorgio Strehler e Paolo Grassi, lungo trent’anni e passa di attività del Piccolo di Milano, sede e fucina di una lettura del lavoro dell’attore che attecchì quasi meccanicamente nel diverso, e lontano, ambiente di Cinecittà e soprattutto dintorni.

Che cos’è, che cos’era lo “straniamento”? Era una tenace idea di Bertolt Brecht, autore e direttore del Berliner Ensemble - solenne istituzione teatrale della Germania dell’Est protetta dal Muro.

Brecht, grande drammaturgo, rifiutato da Hollywood e anzi messo sul banco degli accusati per attività antiamericane (ovvero militanza comunista), ispiratore di musical di qualità e soprattutto artista-ideologo, aveva sviluppato la prospettiva di un teatro politico, didattico, epico. Questo teatro aveva e ha, anche se nessuno più ci pensa, i suoi punti di riferimento in una storia dallo svolgimento chiaro e preciso, nella distribuzione di ruoli ad attori il più possibile lontani dalla declamazione e dall’artificio; nell’effetto, ecco la parola, dello “straniamento” come recitazione in terza persona e rottura dell’illusione.

Brecht chiedeva all’attore di non atteggiarsi, di non essere, di aver timore d’essere divo, e quindi di cercare un distacco critico per creare un rapporto nuovo con lo spettatore al quale questo attore non chiede una totale aderenza per ciò che viene rappresentato, ma di valorizzare la sua capacità di riflettere autonomamente sulle cose.

Si può ben capire perché Brecht, comunista, poeta, vissuto nella prima metà del secolo delle rivoluzioni e dei totalitarismi, tenesse a convogliare nel teatro la lezione di maestri che da un lato teorizzavano la figura dell’attore come splendida marionetta e dall’altro volevano arginare sia il teatro e il cinema del nazismo sia i film-spettacolo di Hollywood. Era in gioco una grande partita politica e culturale. Immaginare l’utopia di un attore in grado di scalzare le illusioni e di far comprendere allo spettatore la possibilità di diventare soggetto autonomo, non passivo di fronte alle suggestioni del palcoscenico e del grande schermo.

Era un progetto che abitava in un’epoca di conflitti storici, e comportava scelte di campo politiche, oltre che estetiche; e che, per le sue caratteristiche di efficacia immediata, poteva avere una sua consistenza nel teatro più che nel cinema. E’ ben noto. Nel cinema manca il rapporto diretto attore-spettatore, e il grande schermo “consente” solo ai registi di genio (Murnau, Lang, Dreyer, il primo Bergman, Bresson…) di costruire ardite e severe architetture filmiche anziché di affrontare e risolvere la scommessa insita nel cinema-spettacolo, ossia attrarre, sedurre, forse convincere.

Premesso questo, torniamo a Strehler. Strelher, conquistato da Brecht e dal Berliner, ripropose una versione aggiornata delle teorie brechtiane secondo una sua personale, spesso centrata e quindi capace di creare un piccolo mito italiano d’importazione, proposta di “straniamento”. La proposta vedeva collocato al posto di guida il regista (che doveva essere anche un drammaturgo) e gli attori come strumenti coinvolti in una determinata lettura dei fatti storici e politici. Gli attori, magari bravi, erano - o meglio dovevano essere – subalterni d’eccellenza, convinti della loro missione e del loro dovere di critici dell’illusione.

Ma, vien da chiedersi, quale illusione? Certo, l’illusione o l’illusionismo di quel mondo letto ideologicamente come veniva letto negli anni Venti e Trenta, ovvero come un terreno di scontro fra il totalitarismo di destra, con i suoi Riefenstahl, Veit Harlan e i registi di regime del fascismo italiano, e il totalitarismo di sinistra, con i suoi cantori della rivoluzione sovietica, un totalitarismo di sinistra che seppe allearsi con l’America, patria della “perversa” e “illusionistica” Hollywood.

Non vado oltre. Lo “straniamento” nasceva, e forse moriva, in uno scenario che resta fissato in un calendario ben preciso. L’operazione strehleriana era un salto all’indietro, un recupero di un qualcosa che serviva a tenere desto il ruolo di primato del regista e a livellare quello dell’attore. Altro che divi, l’attore in Italia per trent’anni, almeno in teatro, è stato costretto a diventare una marionetta ma non una supermarionetta nel senso creativo e provocatorio a cui pensavano Gordon Craig e altri come lui. Il vuoto degli attori, oggi, discende “anche” da questa pratica protrattasi troppo a lungo nel tempo, oltre che dalla confusa e quasi disastrosa organizzazione del teatro in Italia.

Affiora adesso una domanda che ci porta a chiudere il cerchio di un’analisi da approfondire: ma il cinema ha sofferto la stessa deriva, lo “straniamento” si è introdotto anche in esso per livellare e rischiare di distruggere la tradizione dell’attore e del divo italiani?

Si può rispondere che no, che lo “straniamento” in senso brechtiano o strehleriano non ha avuto lo stesso peso che ha gravato e grava sul nostro teatro; ma non c’è dubbio che il cinema d’autore si è messo, fin dagli anni Sessanta, nelle mani del regista più che degli attori, se si escludono i già citati interpreti della lunga stagione della “commedia all’italiana”. E’ stata imboccata la strada di un’epica del cinema basata sulla visione e sulle scelte del regista. Un’epica di contenuti e di personalità in lotta contro il mercato, contro i produttori, contro i condizionamenti, contro le censure, tutti bersagli di un cinema che viveva l’utopia della contestazione rigeneratrice del cinema stesso e di una società chiamata universalmente “sistema” in modo spregiativo. Un’epica in cui l’attore diventava anch’esso uno strumento, una pedina di un gioco più alto e ambizioso; e infatti, tranne qualche caso, chi ricorda i nomi di una stagione di cinema importante, come quella degli anni Sessanta e Settanta? L’unico da citare è Gian Maria Volontè, divo-antidivo.

Bernardo Bertolucci, i fratelli Taviani, Marco Bellocchio e un pulviscolo di registi finiti nel dimenticatoio, attivissimi nei vent’anni a cui mi riferisco, hanno saputo prevalere per il loro talento ma soprattutto per i loro rovelli ideologici e psicologici, mettendo in gioco la loro cultura e le loro convinzioni spesso in divenire, esposte alle correnti di una società sempre più liquida e inafferrabile, e lasciando nella pura immagine astratta i loro attori. E se ciò non è accaduto, ad esempio, per Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi o per Burt Lancaster o Robert De Niro in Novecento, era perché si trattava di qualcosa che andava al di là di un semplice soccorso che il cinema italiano chiedeva a Hollywood. Era una anche un’evidente, affascinata, manifestazione di necessità: vistosi atti desideranti per corpi d’attore scomparsi a Cinecittà e dintorni.

Nella società liquida a cui si avviava anche la società italiana, sempre meno dotata di punti di riferimento e di solide sponde soprattutto nella cultura e nello spettacolo (neanche la lirica ce la fa a resistere), si apriva un territorio sconfinato per le “scorribande” geniali di Carmelo Bene e per le trasfusioni di sangue di Julian Beck. Il bisogno di afferrare dei corpi, uscire dallo “straniamento” nostalgico e incapace di registrare i mutamenti e le nuove esigenze, ha prodotto “schegge impazzite” (a mio parere, molto savie e sagge) come Carmelo e Julian che restano nella storia della seconda parte del Novecento, almeno per quanto mi riguarda, i simboli concreti di una sovrapposizione creativa dell’attore e del regista come non era mai accaduto in Italia.

Il Carmelo che viene dalla tradizione e che racchiude in sé, nel suo lavoro, le contraddizioni di un’Italia ancora in preda di incertezza, alla ricerca di un’identità che si precisa lentamente; il Beck che infonde, come può, la sua lezione di rigore e di fantasia in un paese che non è il suo e al quale dà il contributo di un’America sotterranea ma presente, imprescindibile, carica di esperienza umana e artistica, sono i divi, anzi gli anti-divi carichi di un passato che è anche futuro. Le loro utopie non sono legate ad un periodo, non perseguono astratte figure. Carmelo e Julian non si sono sottratti al narcisismo. Anzi, consapevoli, sono i mattatori di un gioco di specchi in cui ci troviamo, guardanti e guardati da troppe fonti di osservazione, e quindi sempre più persuasi di doverne ricavare qualcosa in più di un semplice riflesso.

 


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Saggio di Italo Moscati su Carmelo Bene


Il ritorno dell'attor giovane
di Gianni Cicali





 
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