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Claudio Vicentini

3. Da Platone a Plutarco. L'emozionalismo nella teoria della recitazione del mondo antico, parr. 7-8

Data di pubblicazione su web 25/03/2005
particolare di cratere attico con attori, dalla Necropoli di Spina, V sec. a.C., Ferrara, Museo Archeologico Nazionale

7. L'impiego dell'emozione.
Al di là di queste differenze stilistiche lo scopo principale di tutto l'apparato espressivo impiegato dall'attore e dall'oratore era comunque identico: riuscire a scatenare negli spettatori passioni ed emozioni. Niente era infatti ritenuto più importante, non solo per strappare l'applauso a teatro ma anche per vincere una causa in tribunale, della capacità di coinvolgere emotivamente il pubblico. «Il convincere è necessario», scriveva Cicerone, «il dilettare è piacevole, il commuovere è vincere». Perché gli uomini «giudicano più in base a odio o amore, desiderio, ira, dolore, gioia, speranza, timore, errore, o per qualche altro modo interiore, piuttosto che in base alla verità, o a una disposizione o una qualche norma giuridica».[1]

L'oratore doveva quindi ricorrere agli effetti emotivi, dosandoli sapientemente nel corso dell'orazione. Li avrebbe impiegati cautamente all'inizio, per poi riprenderli brevemente nella successione del discorso e quindi farli precipitare nel finale, lasciando gli spettatori e i giudici completamente in preda ai sentimenti evocati, proprio come capitava nelle rappresentazioni teatrali: «il teatro», sosteneva Quintiliano, «va commosso appunto quando si è giunti al momento in cui le antiche tragedie e commedie si chiudono, all'"applaudite"».[2]

Tutto questo appunto perché le emozioni accortamente prodotte erano in grado di turbare le facoltà razionali del giudice, non solo orientandone l’opinione, ma addirittura facendogli perdere la capacità di valutare rigorosamente argomenti, fatti e testimonianze: Ammettiamo che le dimostrazioni facciano sì che i giudici ritengono migliore la nostra causa: i sentimenti li inducono addirittura a volere ch'essa risulti tale; ma ciò che vogliono, essi lo credono pure. Quando infatti han preso ad adirarsi, tenere per una parte, provar odio o pietà, ormai pensano che si tratti di una vicenda loro, e come gli innamorati non sanno più giudicare la bellezza, così il giudice preso dai sentimenti, perde completamente la capacità di appurare il vero. Il loro flusso lo trasporta ed egli vi si abbandona come un fiume in piena.[3]

L'impatto emotivo provoca dunque l'identificazione del giudice con una delle parti in causa, fino a indurlo a pensare che si tratti di una vicenda «sua», proprio come uno spettatore simpatizza normalmente con l'eroe di una commedia. E travolgendo tutti i presenti con la piena dei sentimenti l'oratore riesce a far loro smarrire l'esatta percezione della realtà. Esattamente come può capitare sulla scena teatrale, i dati reali perdono i loro contorni oggettivi e si modellano secondo ciò che ognuno prova nel proprio animo. A un'immagine del mondo costruita secondo i rigorosi parametri dell'intelletto e dell'aderenza alla realtà si sostituisce una visione evocata dal sentimento. Ma provocare abilmente le reazioni emotive del pubblico non è semplice. Per riuscirci l'oratore, come l'attore, deve disporre di una serie di strumenti adatti, che riguardano tanto la configurazione del testo da declamare, quanto ciò che in termini teatrali potremmo chiamare la sua messa in scena, e infine tutto quello che concerne le risorse specifiche della recitazione. Per quanto riguarda la configurazione del testo, la storia e le battute di una tragedia sono studiate per sollecitare l'attenzione e i sentimenti degli spettatori. Nello stesso modo, nel discorso preparato dall'oratore, tutte le vicende narrate devono assumere una precisa colorazione emotiva. E in proposito Quintiliano fornisce diversi esempi. Per stimolare nel giudice l'orrore, l'oratore deve far apparire particolarmente odioso il misfatto da condannare. Se si tratta un'aggressione ne sottolineerà l'atrocità, ricordando che la vittima è un vecchio o un ragazzo, o un magistrato, o un uomo onesto. Ricorderà  che il fatto è avvenuto proprio in tempi pericolosi per la sicurezza pubblica, quando «si celebrano soprattutto processi relativi ad atti del genere». Oppure, volendo ricorrere alla compassione, l'oratore si soffermerà sulla condizione della vittima e sul triste destino che attende i suoi figli e i suoi genitori, dipingendo ciò che aspetta chi ha sporto un'accusa di violenze e offese nel caso in cui non attenga giustizia: «dovrà fuggire dalla città, rinunciare ai suoi beni, sopportare fino in fondo qualsiasi angheria da parte del suo nemico», e via dicendo.[4]  

Poi vi sono gli espedienti che riguardano la «messa in scena». Sono espedienti particolarmente vistosi, e concernono le azioni che l'oratore compie esibendo di fronte al pubblico  figure e oggetti, con effetti da teatro dell'orrore: Si vedono gli accusatori esibire spade insanguinate, ossa estratte dalle lacerazioni e vestiti tutti macchiati di sangue; li si vede togliere le fasce alle ferite e scoprire le parti del corpo colpite da percosse … Così la pretesta insanguinata di Cesare, messa davanti al corteo funebre, spinse il popolo a un'ira rabbiosa. Si sapeva che Cesare era stato assassinato, e il suo corpo era infine stato posto sul catafalco; eppure quella veste madida di sangue rievocò la scena del delitto in modo tale da dar l'impressione non che Cesare fosse stato ucciso, ma che venisse ucciso proprio in quel momento.[5] Altri espedienti sfruttano invece le risorse proprie della recitazione, come la capacità di pronunciare le battute articolando sapientemente gli effetti sonori. I ritmi e i suoni sono infatti di per sé capaci di sollecitare i sentimenti di chi ascolta, e non per nulla, osserva Quintiliano, gli strumenti musicali riescono a produrre emozioni senza articolare alcuna parola. Così, cadenzando e sonorizzando abilmente il discorso, l'oratore utilizza una «forza segreta», la stessa che possiedono le melodie e i ritmi della musica, e questa forza agisce sull'animo di tutti quelli che ascoltano, senza che neppure se ne rendano conto.[6]

Infine, per sollecitare la reazione emotiva del pubblico, è utile che l’oratore, nei momenti richiesti, declami il suo discorso come se fosse pronunciato dal suo cliente, proprio come l'attore che assume voce, toni e gesti del personaggio da rappresentare: Solo i nudi fatti commuovono; ma quando fingiamo che siano proprio i clienti a parlare, è anche la persona a dare emozione. Infatti l'impressione non è che il giudice ascolti gente intenta a lamentare guai altrui, bensì che percepisca con l'udito sentimenti e voce di sventurati di cui anche il volto muto muove alle lacrime; e quanto più quelle parole otterrebbero pietà se fossero loro a pronunciarle, tanto più, secondo una certa proporzione, esse risultano efficaci nel commuovere quando sono dette come per bocca loro; avviene lo stesso per gli attori a teatro[7]   

8. L'emozione e l'espressione.
Tutti questi espedienti avrebbero però poco o nessun effetto se l'oratore non sapesse esprimere con la sua voce e i suoi gesti precise ed evidenti emozioni. Questo è il requisito essenziale, a teatro come in tribunale, per agire sui sentimenti del pubblico. Chi ascolta non può provare «dolore, avversione, rancore o timore», spiega Cicerone, se tutti questi stati d'animo «non si mostreranno come impressi a fuoco nello stesso oratore». Per provocare negli altri un sentimento è infatti necessario «dare l'impressione di provare con intensità quello [stesso] sentimento», e assomigliare così «a quelli che lo provano davvero».[8]   

I segni della presenza di una particolare passione devono coinvolgere l'intera espressività fisica dell'oratore, dagli occhi al volto, ai gesti, fino all'estremità delle membra e all'azione delle dita.[9]  E se queste espressioni sono davvero perfette, il loro effetto sarà irresistibile, al punto che perfino gli avversari ne cadranno preda

 e saranno costretti a provare loro malgrado tutte le emozioni che l'oratore vuole scatenare.[10] Ora, le espressioni esteriori di una passione appaiono spontaneamente in tutti noi, nei diversi momenti della nostra vita, quando le proviamo davvero. Si tratta di un processo naturale, che ci consente di capire ciò che gli altri stanno provando nel loro animo: «il gesto si accorda con la voce e obbedisce al sentimento assieme ad essa», e in questo modo «lo stato d'animo si riconosce dall'espressione del viso e dall'andatura». Del resto, osserva Quintiliano, «anche negli esseri privi di linguaggio si riconoscono l'ira, la gioia, le moine dallo sguardo e da certi altri movimenti del corpo».[11] E tanto è spontaneo e naturale il processo che traduce le passioni interiori in segni esteriori, che qualsiasi persona, per quanto rozza e ineducata, acquista un'indubbia efficacia espressiva quando è percorsa da emozioni autentiche e acute: Se gente in lacrime, specie per un dolore recente, sembra riuscire a sfogarsi un po' mostrando notevole efficacia espressiva, e se talvolta l'ira rende eloquenti gli ignoranti, quale altra è la causa, se non che in loro c'è forza emotiva e, appunto, sincerità di sentimenti?[12]
Così, sfruttando l'immediata capacità espressiva che la passione possiede in sé, l'attore e l'oratore, a teatro e in tribunale, possono facilmente atteggiare i gesti e la voce nel modo più convincente ed efficace. Che gli attori utilizzino questo sistema appare del resto evidente. Quando agiscono sulla scena, nota Cicerone, sostengono la loro recitazione con una viva partecipazione emotiva: per rendere il testo del poeta non ricorrono solo all'arte, ma anche ad un'autentica e genuina commozione. E testimonia di aver osservato più volte come a teatro «paressero ardere, dietro la maschera, gli occhi dell'attore che declamava».[13] Quintiliano, dal canto suo, ribadisce di aver notato spesso non solo gli attori tragici ma anche gli attori comici «allontanarsi ancora in lacrime dopo che avevano deposto la maschera al termine di un'azione particolarmente toccante».[14]

Il processo naturale che produce i segni di una passione sul volto e nei gesti di chi la prova, possiede però anche un'altra e più preziosa virtù. Non solo produce immediatamente, senza alcuno sforzo, le espressioni corrispondenti ai diversi stati d'animo, ma le rende particolarmente intense ed efficaci, dotandole di una speciale energia. Per questo gli oratori quando si affidano all'autenticità del proprio sentimento raggiungono effetti che sarebbero altrimenti impossibili. Possono, ad esempio,  scoppiare realmente in lacrime di fronte al pubblico, e addirittura  impallidire.[15] Ma soprattutto le loro espressioni si caricano di una forza irresistibile, che verrebbe meno se si limitassero a fingere sentimenti che non provano. La semplice finzione, operata a freddo, priva infatti le espressioni dell’energia necessaria: gli atteggiamenti dell’oratore appaiono inerti e vuoti, e si rivelano come un’affannosa e scoperta simulazione. Il risultato può essere disastroso, soprattutto quando l’oratore tenta di caricare i toni. Quanto più infatti cerca di riprodurre a freddo i tratti di una passione impetuosa, tanto più rischia di cadere nel ridicolo. Cicerone evoca in proposito la testimonianza del celebre oratore Antonio impegnato in una difesa appassionata, e Quintiliano nel suo trattato ne trae l'opportuna conclusione: Non furono senza lacrime né senza grande dolore il mio lamento e le suppliche rivolte a tutti gli dei, agli uomini, ai concittadini,agli alleati. Se a tutte quelle parole da me allora pronunciate fosse mancato un mio vero sentimento di sofferenza, la mia orazione non solo non sarebbe stata commovente, ma addirittura risibile.[16]   

Talvolta, infatti, l'imitazione di lutto, ira e indignazione arriverà ad essere ridicola, se vi adatteremo soltanto parole ed espressione del viso, ma non l'animo.[17] Perciò, se è possibile cercare di simulare più o meno bene, con i gesti e con la voce, i segni di un sentimento, soltanto chi lo prova davvero può riuscire a trasmetterlo attraverso le proprie espressioni esteriori. E se gli spettatori cadono in preda alle emozioni è perché queste, prima di diffondersi nel pubblico, esistono effettivamente nell'animo dell'attore o dell'oratore. Per influenzare emotivamente chi decide una causa, scrive quindi Quintiliano, le nostre parole dovranno provenire «da un animo tale quale quello che intendiamo forgiare nel giudice».[18]   

  







[1] Cicerone, Orator, 69, trad. cit., p. 49  e De oratore, II, 178, trad. cit., p. 425.
[2] Quintiliano, Institutio oratoria, VI,1,51 e 52, trad, cit., vol. II, p. 1011. Vedi anche IV,2,27 e 28; VI,1,9-10.
[3] Ivi, VI,2,5-6, trad. cit., vol. II, pp. 1015 e 1017. 
[4] Ivi, VI,1,15-19, trad. cit., vol. II, pp. 993 e 995.
[5] Ivi, VI,1,30-31, trad. cit., vol. II, p. 1001.
[6] Ivi, IX,4,10-13. Vedi anche Cicerone, De oratore, III,195-198.
[7] Quintiliano, Istituto oratoria, VI,1,25-26, trad. cit., vol. II, pp. 997-99.
[8] Cicerone, De oratore, II,189 e 190, trad. cit., p. 433; Quintiliano, Institutio oratoria, VI,2,27, trad. cit., vol. II, p. 1027.
[9] Cicerone, De oratore, II,188, trad. cit., p. 433.
[10] Ivi, III, 214, trad. cit., p. 727.
[11] Quintiliano, Institutio oratoria, XI,3,65 e 66, trad. cit., vol. III, p. 1885.
[12] Ivi, VI,2,26, trad. cit., vol. II, 1027.
[13] Cicerone, De oratore, II,193, trad. cit., p.435, e Pro Sestio, 120.
[14] Quintiliano, Institutio oratoria, VI,2,35, trad. cit., vol. II, p. 1033.
[15]  Ivi,  VI,2,36, trad. cit., vol. II, p. 1033.
[16] Cicerone, De oratore, II,196, trad. cit., p. 439.
[17] Quintiliano, Institutio oratoria, VI,2,26, trad. cit., vol. II, p. 1027.
[18] Ivi, VI,2,27, trad. cit., vol. II, p. 1027.











Da Platone a Plutarco. L'emozionalismo
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