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Claudio Vicentini

Da Platone a Plutarco. L'emozionalismo nella teoria della recitazione del mondo antico

Data di pubblicazione su web 23/03/2005
Raffaello, Scuola di Atene, Platone e Aristotele, 1509-1510, Città del Vaticano, stanza della Segnatura
DA PLATONE  A PLUTARCO. L'EMOZIONALISMO NELLA TEORIA DELLA RECITAZIONE DEL MONDO ANTICO*

1. La possessione divina. Alterazione e contagio.
Per quanto ne sappiamo nella cultura occidentale la teoria della recitazione comincia a svilupparsi in Grecia nel quinto secolo a.C., e la prima opera dedicata all'argomento è un dialogo giovanile di Platone, lo Ione, composto tra la fine del quinto e l’inizio del quarto secolo. A quell’epoca nel mondo greco erano gia state elaborate diverse forme di recitazione, dalla declamazione dei poemi epici affidata ai rapsodi che si esibivano in riunioni private e in cerimonie pubbliche, gareggiando sovente in competizioni ufficiali con tanto di premio al vincitore, fino all’interpretazione delle composizioni liriche e alla recitazione teatrale vera e propria delle tragedie e delle commedie.

Il dialogo di Platone trattava l’argomento adottando una concezione tradizionale nella cultura del tempo, secondo cui la composizione poetica e la recitazione non erano due attività distinte, ma piuttosto due aspetti di un unico processo creativo, direttamente promosso dall’intervento divino. Questa convinzione derivava dall’esperienza della choreia primitiva, una manifestazione collettiva ampiamente diffusa nella Grecia arcaica, generalmente associata al culto religioso, in cui i partecipanti pronunciando parole, versi e formule ritmate, muovendosi insieme secondo figure più o meno prestabilite, potevano giungere a uno stato di esaltazione che permetteva l’espressione comune di sentimenti e passioni, ed era considerato un segno inequivocabile della presenza del dio [1]. Nella forma originaria della choreia si ritrovavano strettamente intrecciati i modi della creazione poetica, del canto e della danza, che da qui, nell’ottica della cultura greca, si sarebbero poi sviluppati come arti particolari. Così nei secoli successivi, e ancora all’epoca di Platone, restava radicata la consapevolezza del legame che univa queste tre arti (parole, gesti, movimenti e intonazioni non erano che elementi di un’unica manifestazione espressiva), e del loro stretto rapporto con l’azione  divina. Tutto ciò doveva orientare a lungo l’atteggiamento nei confronti della recitazione. Comporre una poesia e recitarla apparivano due elementi inseparabili di un’unica operazione, e nello stesso tempo alle parole, alle intonazioni, e ai gesti in cui si realizzava la composizione poetica veniva attribuito un potere magico, in grado di agire sulle le persone circostanti. Gorgia, celebre sofista del quinto secolo a.C., insisteva sulle misteriose capacità delle parole: non per nulla, osservava, alcune hanno il potere di rallegrare chi le ascolta, altre di spaventare, altre ancora di sollecitare il coraggio. E nell'Elogio di Elena sosteneva che proprio per il potere delle parole il pubblico teatrale è scosso dalla pietà, o dal terrore, dall'ammirazione o dalla tristezza e può vivere le vicende dei personaggi come se fossero le proprie.[2]

Sembrava inoltre evidente che solo uno stato di esaltazione o di delirio, inizialmente attribuito al contatto con la divinità, potesse efficacemente innescare il processo della produzione poetica, realizzata in parole gesti e suoni. Platone, nel Fedro, dichiarava che i poeti che si affidano esclusivamente alla propria abilità sono «incompiuti», perché «la poesia degli artisti coscienti e consapevoli «è offuscata da quella dei poeti in delirio».[3] Soltanto chi si trova «fuori di sé» può comporre o recitare efficacemente autentica poesia. E questa opinione permaneva anche nei teorici che all'epoca di Platone separavano ormai l'esperienza poetica dall'intervento divino. Perfino Democrito di Abdera, celebre per la sua concezione materialistica della realtà, sosteneva che nessuno poteva essere poeta e nello stesso tempo «sano di mente», perché è impossibile comporre autentica poesia «senza un'ispirazione al limite dell'esaltazione».[4] L’insieme di queste convinzioni si riflette appunto nel dialogo di Platone, lo Ione, che discute i modi della declamazione dei rapsodi, impegnati a recitare davanti al pubblico le composizioni epiche dedicate alle avventure degli antichi eroi. Secondo il dialogo i rapsodi, quando declamano un testo poetico, non possono ricorrere a una tecnica consapevole, regolata da norme che è utile imparare e poi applicare per ottenere gli effetti desiderati. L’impiego della voce, dei gesti, delle espressioni mimiche sfugge al controllo di chi recita. E ciò è dimostrato da un semplice fatto. Ogni rapsodo, osserva Platone, si specializza in un particolare poeta. Ione, ad esempio, il protagonista del dialogo, è esperto nella declamazione omerica: appena si accosta ai versi del suo autore è mosso da un impulso irresistibile e la sua lingua magicamente «si scioglie». Quando invece recita i componimenti di altri poeti non riesce a concentrarsi e non  può combinare niente di buono. Ora, prosegue Platone, se esistesse una tecnica della declamazione, con regole stabili per ottenere una buona prestazione, ogni artista abile e addestrato potrebbe disporne ed essere così in grado di recitare convenientemente qualsiasi testo.[5]

Ma perché una tecnica del genere è impossibile? Perché l’intero processo della manifestazione poetica, dalla composizione originaria dei versi fino alle loro successive  declamazioni nel corso dei secoli ad opera di differenti interpreti, è completamente dominato dall’intervento divino.  All’inizio del processo creativo il poeta non  può neppure cominciare a comporre un verso senza l’ispirazione, che gli viene inviata da un dio. E l’ispirazione provoca una profonda alterazione del suo stato mentale. L’autore, sembra smarrire il proprio intelletto e «uscire di senno». Le sue percezioni si modificano, l'autocontrollo svanisce, ed è letteralmente invaso dal dio che parla e si rivela attraversa la sua bocca e i movimenti del suo corpo. Il poeta insomma parla, canta e danza «fuori di sé», in preda a una «divina follia».[6] A loro volta gli interpreti che riprendono e declamano le poesie composte da altri non possono recitarle in modo efficace se non si trovano in un identico stato di possessione provocato dalla stessa divinità che aveva già investito l'autore. Per la potenza di questo intervento il rapsodo viene «contagiato» dai versi che deve pronunciare, esce a sua volta di senno e si immerge in una sorta di condizione allucinata. Mentre canta le parole di Omero la sua anima crede davvero di trovarsi di fronte alle mura di Troia, vede gli eroi che si scontrano in battaglia, ode il fragore delle armi, osserva il sangue scorrere, intende le suppliche dei feriti e via dicendo. Questa visione si accompagna alle emozioni appropriate, e il rapsodo è irresistibilmente invaso via via dall'ardore della battaglia, dal terrore, dalla pietà. «Quando declamo qualche episodio degno di compassione», spiega Ione, «di lacrime mi si empiono gli occhi; e quando un fatto pauroso e terribile, per lo spavento mi si rizzano i capelli e forte il cuore mi batte».[7] E mentre il rapsodo declama, il contagio emotivo provocato dall'opera poetica si diffonde negli spettatori, che cadono immediatamente  in uno stato di esaltazione e vengono investiti da passioni incontrollabili. «Tutte le volte», prosegue Ione, «dall'alto del palco, li vedo  piangere e tutti insieme minacciosamente guardare e insieme spaventarsi alle mie parole». Insomma, l'azione divina investe originariamente il poeta immergendolo in uno stato di possessione allucinata. Il poeta  pronuncia versi e vede scene e figure immaginarie, proprio come se fossero vere, mentre è percorso da irresistibili emozioni. I suoi versi, una volta composti, creano per contagio il medesimo stato di esaltazione emotiva e di allucinazione in chi li declama, e infine nel pubblico che ascolta, formando una sorta di «catena» di «posseduti dal dio».[8]

L’esperienza della creazione poetica e della recitazione veniva in questo modo assimilata a quella della profezia. La divinità, spiegava infatti Platone, investe i poeti e i rapsodi così come i «vati e i divinatori», li usa «come suoi tramiti» e noi sappiamo «che non essi sono coloro che dicono cose di sì alto valore, privi di ogni intelletto, ma è lo stesso dio che le dice, che a noi parla attraverso di loro.»[9]. Lo stato di alterazione in cui cadono il poeta e il rapsodo finiva perciò, nella descrizione platonica, con l’assumere i caratteri che la cultura greca attribuiva alla condizione di trance dei sacerdoti o delle sacerdotesse quando pronunciavano gli oracoli di un dio nel suo santuario, o anche degli officianti e dei fedeli di riti, come quelli dedicati a Dioniso, Attis o Semele, in cui i partecipanti danzavano e cantavano al suono di una musica fortemente ritmata e ossessiva che produceva un effetto contagioso, coinvolgendo tutti i presenti. Nel momento di pronunciare la parola profetica o di celebrare collettivamente la divinità, i soggetti entravano in una sorta di eccitazione, si agitavano, tremavano, si scuotevano e perdendo l'autocontrollo pronunciavano formule e frasi di cui in condizioni normali avrebbero ignorato il significato.[10] E per quanto riguarda in particolare l'esperienza profetica, i modi della creazione poetica e della recitazione descritti da Platone non si discostavano dalle forme del delirio di Cassandra, rappresentato qualche decennio prima sulla scene nell'Agamennone di Eschilo. Di fronte alle porte chiuse della reggia degli Atridi, Cassandra, investita dalla potenza di Apollo, si esalta, geme, percepisce visioni di eventi passati e futuri, e viene percorsa dai terrori, dai fremiti, e dalle emozioni che queste visioni le dettano, scandendo parole ispirate direttamente dal dio.

Poesia, recitazione e profezia sono dunque esperienze che non lasciano alcuno spazio all'iniziativa e al controllo umano: nella produzione e nella recitazione poetica, così come nell'atto della profezia, è il dio che origina e conduce l'intero processo, detta gesti, movimenti, parole, suscita visioni e provoca le emozioni e le sensazioni corrispondenti. E, in questi termini, una tecnica della recitazione fondata sull'abilità e l'esercizio, e consapevolmente controllata dall'artista appare ovviamente impossibile. Ma proprio Platone, nel suo dialogo, mentre nega ripetutamente che il rapsodo possa ricorrere a un’arte consapevole, riconosce che chi recita conserva comunque la piena percezione degli effetti che produce sugli spettatori. Quando declama sul palco, Ione non solo vede gli spettatori che piangono e si spaventano all'evocazione di scene terribili ma, spiega: debbo seguirli con la massima attenzione, perché se li faccio piangere, sarò poi io a ridere per il denaro che prenderò, e se li faccio ridere, sarò io a piangere per i quattrini che ci rimetterò.[11]

Chi recita, insomma, si rende conto di quello che sta facendo, e sia pur nello stato di esaltazione in cui si trova immerso, mentre si esibisce deve comunque osservare attentamente i risultati che ottiene, perché da questi dipende quanto meno il suo benessere economico. Da qui alla possibilità di escogitare espedienti, regole, norme, insomma una tecnica adatta a sollecitare nel modo più efficace le reazioni del pubblico, il passo è ovviamente assai breve.

2. Sviluppo delle forme drammatiche. La recitazione come attività specializzata.
Quando Platone componeva lo Ione si era già sviluppata, nel quinto secolo, la grande stagione del teatro tragico di Eschilo, Sofocle, Euripide e delle commedie di Aristofane. Nella Grecia antica le prime elaborazioni del teatro drammatico riproducevano una forma derivata dalla choreia primitiva, e si presentavano sostanzialmente come combinazioni particolarmente articolate di poesia, musica, danza e canto. La tragedia, secondo tutte le fonti tradizionali, sarebbe nata da un genere di canto corale danzato, il ditirambo. Nel sesto secolo a.C. Tespi avrebbe introdotto nel ditirambo alcuni interventi (un prologo e dei monologhi) affidati a un singola persona separata dal coro. Poi, intorno al 534 a.C., la produzione delle tragedie trovava una collocazione istituzionale nelle feste delle Grandi Dionisie ad Atene, che prevedevano un competizione tra tre diversi poeti tragici. Qualche decennio più tardi Eschilo introduceva un secondo attore che poteva dialogare con il primo e insieme a questo interpretare una vicenda. A Sofocle, infine, si doveva la presenza di una terza persona sulla scena e in questo modo, secondo i commentatori antichi, la tragedia sarebbe giunta alla sua forma compiuta e definitiva.[12]

Ora, proprio nel periodo in cui si affermavano le forme drammatiche sembrava emergere in modo evidente l’insufficienza della concezione tradizionale della recitazione, e lo stesso sviluppo delle pratiche teatrali mostrava l’impossibilità di spiegare l’esperienza dell’attore sulla scena nei termini consueti, nei termini insomma in cui lo Ione continuava a presentare l’attività dei rapsodi ancora verso la fine del quinto secolo a.C. Così nel secolo successivo - l’epoca della maturazione del pensiero di Platone e delle grandi elaborazioni filosofiche di Aristotele -  e poi per lungo tempo, il pensiero greco affrontava il problema della recitazione in modo caratteristico. Manteneva in buona parte l’impostazione originaria, ma tentava di mediarne e trasformarne alcuni aspetti per riuscire a comprendere in modo più adeguato la complessità del fenomeno. Innanzi tutto di fronte all’esperienza ormai maturata nella pratica della poesia, della declamazione e degli spettacoli teatrali era difficile sostenere che la recitazione non fosse altro che un momento della creazione poetica, e il suo esercizio non richiedesse capacità e talenti particolari, diversi da quelli necessari per comporre dei versi. La progressiva trasformazione dei modi di mettere in scena le opere drammatiche tra il sesto e il quinto secolo costituiva in effetti un clamoroso esempio in proposito.

Nei primi tempi, quando veniva rappresentata una tragedia, non esisteva alcuna netta distinzione tra la funzione del poeta e quella dell'attore. Tespi recitava lui stesso le proprie opere. E anche Eschilo.  Ma una volta introdotta un seconda persona sulla scena, con cui poteva dialogare il primo personaggio reso dall’autore-attore, nasceva una figura particolare, quella dell'interprete teatrale che assumeva una funzione unica ed esclusiva. Non aveva più alcuna responsabilità nella creazione poetica, ma si limitava, appunto, a recitare. Certo in quei primi momenti l'attore dipendeva strettamente dall'autore. Non solo il poeta era in scena, recitava, si sceglieva il proprio partner e lo dirigeva. Ma curava tutti gli aspetti fondamentali della rappresentazione, addestrava il coro e inventava i movimenti delle danze.[13]  A poco a poco, però, il suo controllo doveva ridursi. Mentre la recitazione assumeva i caratteri di un'attività specializzata, l'istruzione dei coreuti sfuggiva dalle mani del poeta per passare a quelle di veri e propri esperti, e la scelta degli attori veniva assunta dallo stato che organizzava le rappresentazioni tragiche. E diventava evidente che le doti indispensabili per creare un testo e quelle richieste per recitarlo non dovevano necessariamente coincidere.[14] Sofocle, per primo, secondo la tradizione, avrebbe rinunciato a recitare le proprie tragedie perché non possedeva una voce abbastanza potente. Infine, nel 449 a.C., accanto al tradizionale premio per il miglior poeta veniva istituito nelle Grandi Dionisie un premio per il miglior attore: il valore autonomo della recitazione era formalmente riconosciuto. Un secolo dopo Aristotele osservava nella Poetica che gli attori avevano ormai più successo dei poeti.[15] Gli attori del resto si permettevano da tempo di intervenire sul testo delle tragedie da recitare e modificavano secondo le proprie esigenze anche le opere ormai classiche e consacrate, al punto da provocare un'apposita legge che mirava a reprimere questi abusi.[16] In poco più di due secoli, insomma, dai primi esperimenti tentati da Tespi, l'attore era diventato il protagonista della rappresentazione teatrale e alla sua arte, più che a quella del poeta, era ormai affidato il successo dello spettacolo.

All’interno del pensiero greco, tuttavia, non veniva affatto abbandonata la percezione di una sorta di unità profonda che doveva legare la recitazione e la poesia. Le loro qualità e loro virtù, le possibilità di cui era di per sé dotata la parola e quelle proprie della recitazione, se proprio non erano identiche, almeno restavano connesse e si alimentavano a vicenda. Che fosse il potere della poesia a sollecitare e a promuovere la recitazione restava una convinzione radicata e diffusa. La poesia «scatenava» spontaneamente la recitazione. Chi si esprime «sia col canto che con le parole, senza musica», osservava Platone alcuni decenni dopo la stesura dello Ione, è di per sé portato a manifestare con l'espressione fisica ciò che dice, perché «non può mantenere un'assoluta tranquillità delle sue membra».[17] E in un trattato più tardo, che è stato attribuito a un erudito del quarto secolo a.C., si accenna agli accorgimenti stilistici che permettono di comporre i versi in modo che possano «forzare a recitare anche chi non lo vuole».[18]       

Reciprocamente, alla recitazione veniva riconosciuta la capacità di sostenere, con i mezzi che le erano propri ed esclusivi, l’opera del poeta. Gli effetti che solo la recitazione può produrre, avrebbe osservato Aristotele, sono essenziali a particolari tipi di brani, perché «quando si toglie la recitazione» sembrano «banali».[19] Insomma, creazione poetica e recitazione sono due attività diverse, eppure strettamente legate. La poesia «eccita» e «suscita» la recitazione. Ma la recitazione anima, dal canto suo, con i propri speciali poteri e con le abilità particolari dell’interprete i versi del poeta. Il riconoscimento della recitazione come un’attività distinta dalla creazione poetica, apriva ovviamente la strada allo studio degli effetti che solo la recitazione poteva raggiungere, e degli strumenti più efficaci per realizzarli. Diventava così possibile ammettere, anche in sede teorica, l’utilità di una tecnica che l’attore doveva imparare, perfezionare con l’esercizio e con l’esperienza, e impiegare accortamente sulla scena. Proprio un passo in cui Aristotele osserva come lo studio della recitazione sia giunto tardi, e un altro in cui afferma che l'abilità nella declamazione teatrale dipende più da una «dote» naturale che dalla «tecnica», dimostrano che un simile studio, sia pur in ritardo, era ormai coltivato, e che la tecnica, anche se meno importante delle doti naturali, era comunque necessaria all'attore.[20] E sempre Aristotele ricorda come della recitazione teatrale avesse brevemente scritto un autore, Trasimaco di Calcedonia, di poco più anziano di lui, e proprio al tempo di Aristotele il grande Teodoro, celeberrimo attore, componeva un trattato Sull'arte della voce.[21]

Secondo l’opinione diffusa la voce era infatti l'elemento essenziale della recitazione e Demostene, il più famoso oratore dell’antichità, sosteneva che appunto dalla voce bisognava giudicare gli attori.[22] Del resto la stragrande maggioranza delle osservazioni tecniche che possediamo sulla recitazione greca riguarda la voce, che doveva essere innanzi tutto bella, potente e chiara, e ciò dipendeva in buona parte dalle doti naturali dell'interprete. Ma questo non bastava, perché bisognava poi riuscire a manovrarla accortamente. Era necessario che l'attore sapesse proiettarla a distanza per essere udito da tutto il pubblico, e nello stesso tempo fosse capace di dosarne il volume e modificarne la tonalità per rispettare le convenzioni della scena, che imponevano ad esempio agli attori secondari di non emergere a discapito dell'interprete principale. Inoltre l'attore, benché operasse in un contesto assai poco realistico, con il viso coperto da una maschera, a volte declamando e a volte cantando dei versi, a tratti con il sostegno di un accompagnamento musicale,  doveva dare l'impressione di produrre «una voce naturale» che non apparisse per nulla «artificiale».[23] Con le intonazioni e la cadenza della voce era poi necessario colorare efficacemente il testo del poeta e conferire alle parole le diverse inflessioni del comando, o della preghiera, della narrazione, della minaccia, secondo le esigenze delle battute da recitare.[24] Un'identica parola ripetuta nel medesimo brano, osservava Aristotele, doveva essere pronunciata con le opportune variazioni vocali, per assumere volta per volta sfumature diverse.[25] Nello stesso tempo era necessario regolare ritmo, intonazione e volume per rendere i caratteri della particolare passione che si voleva esprimere.[26] La critica, dal canto suo, era attenta a individuare i difetti nell'impiego della voce, e un lessico del secondo secolo d.C. riporta i termini che diversi trattati sugli esercizi vocali utilizzavano per indicare le insufficienze della recitazione. Distinguevano la voce «echeggiante » e quella «roboante », e ancora quella «cavernosa», o «femminea», o «affettata» o «laringea», e via dicendo.[27]

Per migliorare le proprie capacità vocali gli attori si sottoponevano a un intenso allenamento. Sembra che dedicassero agli esercizi le prime ore del mattino, a digiuno, e poi i momenti che precedevano l'entrata in scena.[28] Cicerone nel primo secolo a.C. avrebbe poi descritto in questi termini il modo in cui si esercitavano gli attori tragici: fanno per anni esercizi di declamazione stando seduti e, ogni giorno, prima di recitare in pubblico, si mettono sdraiati e alzano a poco a poco la voce e, dopo aver pronunciato il loro discorso, si mettono seduti e la riportano dal tono più alto a quello più basso e in qualche modo la fanno, per così dire, rientrare in loro stessi.[29] Accanto alla voce anche i gesti e i movimenti erano di essenziale importanza, ma le testimonianze in proposito sono scarse. Certo l'attore, indossando una maschera, non poteva utilizzare alcuna espressione del viso. Ricorreva invece a precisi movimenti del capo che gli consentivano di attribuire all'espressione fissa della maschera sfumature diverse, ed esistevano maschere dipinte in modo da mostrare una duplice espressione (per esempio tranquilla o irritata) in modo che l'attore, assumendo differenti posizioni, potesse mostrare al pubblico l'atteggiamento più appropriato ai sentimenti del personaggio.[30] La maggior parte delle testimonianze disponibili sulla gestualità degli attori riguardano i movimenti delle danze, sia quelle eseguite dai cori nella rappresentazione delle commedie e delle tragedie, sia quelle della pantomima, una rappresentazione simile al balletto che si erano sviluppata in forma indipendente dal dramma. Particolarmente apprezzata era l'abilità mimica dei danzatori che «con il ritmo dei gesti e dei movimenti» riuscivano, come testimonia Aristotele, a rappresentare «caratteri, casi e azioni».[31] Luciano, nel secondo secolo d.C., sosteneva l'importanza, per il danzatore, di raffigurare le passioni, i sentimenti e soprattutto il carattere del personaggio con i propri movimenti, evitando qualsiasi gesto superfluo. Sappiamo inoltre che era particolarmente studiato l'impiego della mani.[32] E sappiamo infine che le posizioni e le figure della danza finirono con il formare una sorta di repertorio che poteva essere codificato.[33]

3. Tensione emotiva ed esaltazione. Persistenza della dottrina di Ione.
Lo sviluppo di un ampio corredo di tecniche particolari e di pratiche perfezionate con lunghi esercizi, non solo configurava la recitazione come un’arte specializzata essenzialmente diversa dall’attività poetica, ma escludeva la possibilità di risolverla in una serie di azioni incontrollabili, compiute dall’attore in uno stato di esaltazione. Di fronte a questo problema il pensiero greco mostrava però una particolare resistenza ad abbandonare la posizione tradizionale, esposta nello Ione, e ancora per diversi secoli la capacità dell'attore di provare e di proiettare i più autentici e laceranti sentimenti nel corso della rappresentazione, giungendo a uno stato di esaltazione estrema, continuava ad essere riconosciuta come una componente ovvia, o per lo meno possibile, delle sue prestazioni sceniche. In proposito venivano tramandati tre celebri episodi. Il primo riguardava Polo, famoso attore del quinto secolo a.C., dotato di una tecnica estremamente raffinata, al punto, si diceva, da superare tutti i suoi colleghi «per la limpidezza e la grazia della gesticolazione e della voce», e noto per recitare «con finezza e con passione» le più famose tragedie. Caduto in preda alla disperazione per la perdita di un figlio particolarmente amato era ritornato sulle scene al termine del periodo di lutto interpretando l'Elettra di Sofocle. In una scena della tragedia Elettra, tenendo fra mani un'urna funeraria che crede contenga le ceneri del fratello Oreste, ne piange la morte. E Polo, secondo il racconto che ancora veniva tramandato dopo sei secoli, avrebbe agito in questo modo:indossato l'abito a lutto di Elettra, prese fuori dal sepolcro le ossa e l'urna del figlio, e abbracciatele, come se fossero quelle di Oreste, riempì ogni cosa non di rappresentazione fittizia e di simulazione, ma di pianto e di lamenti veri e vivi. Pertanto, mentre pareva che si recitasse una tragedia, fu posto sulla scena il dolore vero.[34]

Polo dunque, espertissimo nella tecnica teatrale, appoggia la sua recitazione sulla manifestazione ossessiva di un autentico e personale dolore, proiettandolo «vero e vivo» nello spazio della scena. Un altro aneddoto che riguarda Esopo, famoso attore tragico del primo secolo a.C., testimonia invece lo stato di profonda esaltazione che poteva essere raggiunto dall'interprete durante una rappresentazione. Un giorno stava interpretando in teatro la parte di Atreo. Arrivato al passo in cui il re medita sul modo di vendicarsi di Tieste, la commozione lo portò fuori di sé a un punto tale, che batté con lo scettro uno dei servi, il quale gli passava davanti di corsa, e lo ammazzò.[35] Infine ci è rimasta la descrizione di un danzatore che dovendo recitare sulla scena la furia di Aiace si era esaltato tanto «che qualcuno avrebbe potuto pensare che non stesse recitando la follia, ma che fosse egli stesso folle». Lacerò la veste a un suonatore che batteva i colpi con la suola di ferro e, dopo aver strappato il flauto a uno dei musicisti, lo spezzò sulla testa di Odisseo che se ne stava lì vicino, tutto pieno d’orgoglio per la vittoria. Se il cappello non avesse opposto resistenza assorbendo buona parte del colpo, lo sventurato Odisseo sarebbe morto solo per il fatto di aver incontrato un pantomimo impazzito. Ma il pubblico intero impazzì con Aiace saltando, gridando e lacerandosi le vesti.[36]

Certo recitare insieme a questo genere di attori doveva comportare qualche rischio. Ma, ciò che qui più importa, nella conservazione di questi episodi si può scorgere la tenace persistenza di una percezione arcaica dell'esperienza dell'attore. Nella descrizione di Polo che indossa le vesti a lutto di Elettra, stringe sulla scena l'urna con le ceneri del proprio figlio e lamenta attraverso i versi di Sofocle il proprio «vero» dolore, emerge la visione - all'interno delle forme proprie della rappresentazione teatrale - del primitivo carattere rituale della choreia antica, in cui i partecipanti manifestavano passioni e sentimenti autentici, incanalandoli nei modi di una di una cerimonia di carattere religioso. Mentre nel racconto di Esopo che trucida il servo, e in quello del danzatore che impazza preso dalla furia di Aiace, si ripresenta l'antica convinzione della contiguità della recitazione con uno stato di profonda e incontrollabile alterazione mentale. E compare anche la visione del contagio, che investe gli spettatori eccitati dall'alterazione dell'interprete, scatenando tra loro le forme di un'analoga follia. Naturalmente non possiamo sapere se questi episodi fossero veri o falsi. Ma il solo fatto che venissero conservati e tramandati nel tempo indica la continuità, nella cultura del mondo antico, del modo arcaico di concepire la recitazione associandolo a uno stato di profonda esaltazione emotiva.



* Presso la cattedra di Storia del teatro dell'Università di Napoli L'Orientale è in opera la raccolta di un "Catalogo e archivio dei trattati di recitazione" di cui è prevista la messa in rete (tale lavoro fa parte del progetto di ricerca nazionale Actor, sovvenzionato dal Ministero della Ricerca e dell’Università). Lo sviluppo dell'archivio è accompagnato dall'elaborazione di una serie di contributi per una storia della teoria della recitazione in Occidente. Sugli «Annali dell'Università di Napoli L'Orientale. Sezione Romanza» sono apparsi  due di questi studi, intitolati I primi trattati italiani sulla recitazione e dedicato le opere di Giraldi Cintio, De Sommi, Ingegneri, Cecchini e Scala (fascicolo XLV, 1,  2003), e L’orizzonte dell’oratoria.Teoria della recitazione e dottrina dell’eloquenza nella cultura del seicento (facicolo XLVI, 2, 2004). Il presente contributo, condotto sulle testimonianze della teoria della recitazione nel mondo antico, è apparso sull’ultimo numero (9) di  «Culture teatrali».  E' in  preparazione l'analisi dei trattati europei del primo Settecento.
[1] Vedi W. Tatarkiewicz¸ trad. it. a cura di Giampiero Cavaglià, Storia dell'estetica, Torino, Einaudi, 1979, vol. I, pp. 28-30.
[2] Ivi, p. 130.
[3] Fedro, 245a¸ trad. it. di P. Pucci, Opere¸  Bari, Laterza, 1966, vol. I, p. 751.
[4] Secondo la testimonianza di Cicerone, De oratore, II, 194; De divinatione, I, 38, 80.
[5] Ione, 532c, trad. it. di F. Adorno, Opere¸ cit., II, p. 68.
[6] Ione, 534b, trad. cit., vol. II, p. 71.
[7] Ione, 535c, trad. cit., vol. II, p. 72.
[8] Ione, 533d, 536a, trad. cit., vol.II, pp. 70, 73.
[9] Ione, 534d, trad. cit., vol. II p. 71.
[10] Sugli stati di possessione nel mondo greco all'epoca di Platone e nei secoli precedenti  vedi  H. Jeanmaire, Dioniso: religione e cultura in Grecia, trad. it. di G. Glaesser, Torino, Einaudi, 1972, e in particolare sull'analogia tra l'ispirazione del poeta e quella del vate, E.R. Dodds, I greci e l'irrazionale, trad. it., Firenze 1973.
[11] Ione, 535e, trad. cit., II, pp. 72-73.
[12] La testimonianza fondamentale è ovviamente quella di Aristotele, nella Poetica, 1449a; ma vedi anche i passi riportati da A. Pickard-Cambridge, Le feste drammatiche di Atene, trad. it. di A. Blasina, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 183, e  in particolare il passo di Diogene Laerzio (III, 56): «in passato nella tragedia il coro recitava tutto, finché in seguito Tespi inventò l'unico attore per dare una pausa al coro, ed Eschilo il secondo attore; con il terzo attore Sofocle diede alla tragedia la sua forma compiuta».
[13] Eschilo del resto era celebre proprio per la sua abilità in questo campo. Secondo una testimonianza, in verità abbastanza tarda, non solo inventava e introduceva novi passi di danza, ma «assumeva di persona tutta la conduzione della tragedia; così i ruoli della sua opera venivano recitati con la dovuta verità» (Ateneo, Deipnosofisti, I,39,21e).
[14] A. Pickard-Cambridge, trad. cit., p. 126.
[15] Aristotele, Retorica, 1403b, trad. it. di A. Plebe, Bari, Laterza, 1961, p. 168.
[16] Aristotele (Politica, VII,17) parla delle manipolazioni operate dal celebre attore Teodoro. Le disposizioni per porre fine all'alterazione dei testi furono prese verso la fine degli anni trenta del quarto secolo a.C. dall'oratore Licurgo, che sovrintendeva al culto di Dioniso ad Atene. Licurgo fece pubblicare il testo dei tre grandi tragici, Eschilo, Sofocle e Euripide, vietando qualsiasi modifica nella rappresentazione dei loro drammi. Vedi A. Pickard-Cambridge, trad. cit., p. 138.
[17] Platone, Leggi, VII, 816a, trad. it. di A. Zadro, Opere, cit., vol. II, p. 821.  Plutarco nelle Questioni conviviali (IX,15,2) osservava che la poesia e la danza sono legate da un «reciproco bisogno» e che un bravo poeta può sollecitare immediatamente la danza e «tirare le mani e i piedi e anzi tutto il corpo per la forza dei suoi versi, quasi fossero dei fili, e colmarlo di una tensione che gli impedisce di restare tranquillamente in riposo quando i versi vengono recitati o cantati».
[18] Demetrio di Falero, Sullo stile, 194. Ma l'attribuzione a Demetrio di Falero è assai dubbia, così come incerta è la datazione del trattato. Vedi in proposito  l'introduzione di P. Chiron all'edizione critica del testo, Du style, Parigi, Belles Lettres, 1993.
[19] Aristotele, Retorica, 1413b, trad. cit., p. 205. Vedi anche Quintiliano, Institutio oratoria, XI,3,4.
[20] Retorica, 1403b e 1404a, trad. cit., pp. 168 e 169.
[21] Ivi, 1404a.
[22] Secondo la testimonianza di Plutarco. Vedi A. Pickard-Cambridge,  trad.cit., p. 232.
[23] In questo secondo Aristotele si sarebbe distinto il grande Teodoro,  Retorica, 1404b.
[24] Aristotele, Poetica, 1456b. 
[25] Aristotele, Retorica, 1414b.
[26] Ivi, 1403b.
[27] Polluce, Onomasticon, IV,114.
[28] Aristotele, Problemi, XI,22, e Polluce, Onomasticon, IV,88, dove si racconta che Ermone, un attore vissuto nel quinto secolo a.C., una volta avrebbe addirittura mancato il proprio ingresso sulla scena perché era occupato a provare la voce fuori dal teatro.
[29] Cicerone, De oratore, I,251, trad. it. L'oratore, a cura di E. Narducci, Milano, Rizzoli, pp. 291-93.
[30] Quintiliano, Institutio oratoria, XI,3,74.
[31] Aristotele, Poetica, 1446a, trad. cit., pp. 50-51.
[32] Luciano, La danza, 67, 69.
[33] Vedi a ad esempio gli elenchi forniti da Polluce nell'Onomasticon, IV,103-105.
[34] Gellio, Le notti attiche, VI,5, trad. it. a cura di F. Cavazza, Bologna Zanichelli 1988, pp. 43-45.
[35] Plutarco, Vita di Cicerone, trad. it. di C. Carena, Vite parallele Milano, Mondadori, 1974, vol. II, p. 398.
[36] Luciano, La danza¸ 83, trad. it. di M. Nordera, testo a cura di S. Beta, Venezia, Marsilio, 1992,p. 107.














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Da Platone a Plutarco. L'emozionalismo
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