logo drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | I lettori scrivono | Link | Contatti
logo

cerca in vai

Sandro Bernardi

Considerazioni su Dogville e Lars Von Trier

Data di pubblicazione su web 08/02/2004
Nicole Kidman
Sembra davvero una fortuna che ci sia ancora un regista che divide il pubblico in modo così forte e intenso, suscitando amore oppure odio e addirittura disprezzo, mai certo disinteresse, un nome incensato oppure quasi maledetto, dopo l'assimilazione di tutto da parte dell'industria hollywoodiana, che è riuscita a trasformare anche Benigni, il più eversivo dei comici toscani e italiani, o anche europei (chi non ricorda Berlinguer ti voglio bene e le infinite parolacce di cui era corredato il film?) in un "servo di Maria" (o comunque di una Madonnina come la sua Nicoletta Braschi).

Von Trier, fortunatamente, sembra essere più resistente di Benigni, e la sua aggressività nei confronti dell'America non riguarda forse solamente il cinema. Forse è più resistente per via del suo nome, per quel misterioso e così poco credibile "von" che lontanamente lo fa assimilare a un altro grande erotomane e regista maledetto europeo americano, un finto nobile e "fuggiasco da Hollywood", com'ebbe a definirsi lui stesso, ovvero il non mai abbastanza ammirato Stroheim. Il paragone con Stroheim però va controllato.

Anche von Trier forse non è nobile, oggetto di grandi passioni contrastanti, maledetto solo da certuni, quelli che non amano il cinema, ma soltanto la loro idea di cinema, qualunque essa sia, e odiano che le loro idee vengano messe a repentaglio, sfidate o addirittura derise, come fa lui. Se la crudeltà, il sadismo di von Trier sono simili a quelli di Stroheim, il suo erotismo non è meno contraddittorio del grande erotismo stroheimiano. Si tratta di un erotismo vicinissimo al misticismo,un erotismo che mostra la pericolosa vicinanza delle due cose, che chiama in causa Dio, la religione, vista anche come rapporto erotico con il mondo, e le istituzioni, viste come grande nemico (la divisa di Stroheim equivale al potere istituzionale e alla divisione specialistica dei ruoli e delle vite di Trier) e che certamente in tal modo sfida la morale borghese, cioè la nostra, diciamolo, che è caratterizzata apparentemente dalla massima tolleranza ma di fatto tale tolleranza la manifesta nelle forme del disprezzo tollerante. Questa forse è la categoria del pensiero intellettuale moderno messa in luce da Trier, che ci illumina anche sul fatto che egli sia tanto detestato. Che significa "tolleranza"?

Questa idea (così almeno suggerisce o fa pensare Trier) non contiene forse già implicita già una certa sottile, o forse molto poco sottile, idea di "disprezzo"? Quante sono ancora per esempio le persone che si dichiarano "aperte" e "tolleranti" sostenendo che il sesso sia una cosa importante? Ma che abbia direttamente a che fare con la religione, questa è altra cosa, difficile da accettare. Oppure il fatto che gli "idioti" (altro tema di Trier), debbano essere considerati come persone uguali a tutti gli altri. Siamo tutti d'accordo, lo diciamo, ma nei secoli passati non lo diceva nessuno, perché non c'era bisogno di dirlo, era scontato e condiviso che gli idioti facessero parte della comunità. Quindi, prima cosa che Trier ci fa capire, è che i concetti di "tolleranza" e di "uguaglianza" nascono e sono usati dove e quando la tolleranza e l'uguaglianza sono sparite e occorre cercare di ripristinarle. Forse, questa è una delle ragioni per cui Trier viene disprezzato oppure odiato.

Questa intolleranza, mascherata da "tolleranza", è di fatto ancora più retriva di un secolo fa, proprio a causa della esibizione di tolleranza che comporta e su cui è fondata. Trier insomma, mostra come la nostra morale sopporti tutto, purché non si mescolino le varie competenze, la religione è religione, il sesso è sesso, la malattia è malattia, tutto va bene all'interno di questi scomparti, purché tutto rimanga al suo posto, proibito è mescolarli, fare sesso in maniera religiosa e fare atti religiosi in maniera sessuale, oppure essere idioti e simultaneamente fingere di esserlo.

La mescolanza delle vite è quello che accade alla povera Bess di Le onde del destino, che fa sesso parlando con Dio e per volontà di Dio e sotto i suoi occhi o agli idioti veri e finti dell'omonimo film, in cui quello che infastidisce è la simulazione della malattia, altro modo per dire che non c'è nessuna separatezza fra salute e malattia; gli idioti che non si lasciano ospitare nel luogo giusto e che sarebbero ben tollerati e ben curati se andassero nella casa loro riservata, ma hanno una "assurda" pretesa come quella di vivere con gli altri.

Pensiamo ancora a Stroheim. La famosa scena delle mutande che cadono a Kelly (Gloria Swanson) nel film che segnò la rovina del regista, e quella ancora più famosa delle mutande di Norma Desmond (sempre Gloria Swanson ma terribilmente invecchiata) che lui stesso voleva lavare, vestito da maggiordomo, in un'inquadratura del film Viale del tramonto, inquadratura che il grande (grande?) Billy Wilder ebbe paura (sì paura) di girare, sono scene paurose perché mescolano i ruoli e gli spazi. Peraltro, altrove Stroheim usa se stesso per costruire un personaggio odioso, quello dell'uomo che sfrutta sessualità ed erotismo per interessi personali (Mariti ciechi, Femmine folli, La vedova allegra), invece di amare e rispettare l'uno e l'altra. Trier costruisce una figura di regista o di narratore a noi antipatica per la confusione o identificazione fra il sublime e l'indecente, e per il continuo ghigno con cui sembra presentare le sue storie, come se in realtà sapessimo già tutto, e si trattasse solo dello scandalo di vederla questa confusione.

La sessualità ordinaria, e la violenza ordinaria che la caratterizza, violenza consentita dalla cultura borghese, purché sia svolta nei luoghi e nelle maniere opportune, trovano una beffarda rappresentazione in certe immagini di Dogville, un altro apologo del genere La visita della vecchia signora di Dürrenmatt, dove la povera Grace viene sottoposta dal paese a tutte le violenze "per il suo bene", con la tipica ipocrisia della cultura occidentale wasp, ma poi si rivela una della stessa razza, quando al termine della sua educazione alla Justine (Sade infatti non è estraneo a questo raccontino pedagogico), rivela di essere figlia dell'uomo più cattivo di tutti, e solo per farci capire, ennesimo rovesciamento, che invece quest'uomo cattivo, il gangster della tipologia classica del cinema americano, è invece un buon padre bonario, che accontenta sempre la figlia con dolcezza. Dunque, eccoci davanti a dei ruoli che si rovesciano continuamente e sistematicamente per arrivare all'idea che tutti sono uguali a tutti nella cattiveria, e che il mondo è un immenso canile, anzi che il cane è l'unica figura umana, l'unico essere "giusto" in quell'inferno sopra la terra che è una qualunque ridente cittadina americana, l'unico Lot degli di essere salvato in questa pregevolissima Sodoma.

Ma che la sessualità dei bravi cittadini di Dogville non abbia niente a che fare con la sessualità vera, quella religiosa e d erotica, ce lo mostrano vari spunti di volgarità, come la scena in cui vediamo il sedere nudo del coltivatore diretto che violenta la povera Grace (altro che grande Depressione, oppure la Buona terra!), o il collare da cane che viene legato al collo della stessa Grace verso la fine della sua avventura a Dogville, la città modello d'America (ma forse dovremmo dire del mondo?). Ci troviamo dunque di fronte a un regista crudele come Stroheim, e con un erotismo altrettanto sadico e perverso, seppure si manifesti in forme differenti? Dove uno vedeva uniformi l'altro vede solo collari di ferro? L'erotismo di Trier sembra avere una sfumatura comica e grottesca, quando non è deviato dal sado-masochismo.

La città di Dogville, inoltre, è tutta immaginaria, è un interno, ma un "interno di un esterno di un interno" per dirla con Handke, ovvero un interno dove non ci sono interni e tutto è esterno. E' un grande teatro di posa vuoto, in cui il pavimento è stato dipinto di verde (come un prato o come un biliardo) e un pennello bianco ha tracciato alcune strade e i confini di alcune case. Le mura delle case sono invisibili, per indicare metaforicamente la cittadina della provincia del mondo dove tutti sanno tutto di tutti, dove niente sfugge allo sguardo degli altri, che tuttavia fanno sempre finta di non sapere niente e di non avere mai visto niente. In questa città dalle pareti di vetro, tutto è visibile e tutto nello stesso tempo è non visto: tutti fanno finta di non vedere quello che hanno sotto gli occhi.
La sorprendente idea di Trier è stata proprio questa, mi pare, di avere costretto gli attori a recitare su un pavimento-prato-biliardo, in una strada disegnata, fra case che non si vedono, aprendo e chiudendo porte inesistenti, coltivando alberi che non ci sono, litigandosi per cespugli di uvaspina introvabili, lamentando furti di cose che non hanno, seguendo stagioni che non vengono e non passano, e che sono pertanto ridotte solo a cambiamenti di illuminazione (come sempre del resto nel cinema classico), riunendosi in una chiesa che ha solo la punta del campanile, e mimando una reciproca riservatezza, un'indipendenza, un'autonomia che sono dei veri e propri paradossi scenici e nello stesso tempo, anzi proprio per questo diventano grandi verità, grandi drammi umani. Un tavolo da gioco insomma. Play, Spiel, jouer in tutte le lingue significa fare teatro, e la recita è appunto un gioco in cui viene simbolizzato il mondo. L'educazione di Grace è una storia sadiana, come in una moderna Justine, a cui la virtù arreca soltanto una serie infinita di disgrazie. Ma in questo caso la virtù è solo un esperimento, perché Grace non è una povera ragazza sola, è la figlia del gangster, e quando deciderà di ritornare fra le braccia paterne, da cui si è allontanata per odio della violenza, lo farà perché ha scoperto che la violenza paterna è il male minore rispetto all'altra grandissima violenza del mondo. Apologo anche questo sadiano, se alcuno mai, e paradossale, secondo il quale la crudeltà del mondo ci insegna il ritorno alla disprezzata famiglia.

A partire da questa scenografia di grado zero, tutto viene interpretato in modo stilizzato e straniato: più che di straniamento brechtiano (rimando per questo alla bella analisi che ne ha fatto su queste pagine Marco Luceri), si tratta di una stilizzazione, in cui tutto avviene su un piano simbolico, e non viene recitato in modo realistico per non essere confuso con la realtà. All'irrealismo di un teatro brechtiano fatto di indizi, di tracce e di gesti o di oggetti mitici, va però aggiunta la frenetica instabilità della cinepresa, che trascina il film nella direzione opposta, quella di una partecipazione angosciata e angosciosa, un occhio che non rimane mai fermo un istante, ma passa da un volto all'altro senza stacchi e con panoramiche così veloci e instabili da far venire spesso il capogiro, come se fossimo lì accanto a loro, mentre altre volte se ne torna in alto, sul soffitto a guardare tutta Dogville, questo grande biliardo-città, dall'alto, da lontano, dal punto di vista classico, a siderale distanza, con la voce fuori campo che sottolinea e rafforza questa lontananza.

Si mettono in gioco i due stili più differenti di cinema come già in Dancer in the Dark: quello dell'inquadratura classica, ferma, stabile, chiara e leggibile, e quello opposto della visione diretta, con la macchina a mano, instabile traballante, inguardabile e illeggibile. Ci sono quindi due atteggiamenti: uno distaccato e tranquillo, un altro presente e stravolto. Ne nasce una visione disturbata, faticosa, come se lo spettatore fosse a volte presente sulla scena, e quindi fortemente coinvolto, altre volte distante, nella posizione lontana e sicura dello spettatore classico. La voce fuori campo del resto serve a fare risparmiare agli attori una recitazione troppo veristica, che in un apologo negativo come questo non sarebbe credibile; da notare che quasi tutte le scene, se recitate interamente, sarebbero piuttosto banali o addirittura noiose, come le discussioni a cui si fa cenno, quelle in chiesa o nelle case, che sarebbero intollerabili in stile realistico, ma così, raccontate e riassunte dal narratore, mentre gli attori fanno pura e semplice mimica, nella distanza creata dall'immaginazione diventano credibili e addirittura drammatiche.

Il testo diviso fra parole e immagini, dove gli attori spesso sono solo icone, figure illustrative, mentre la storia è a carico di un narratore esterno, riporta il cinema ai suoi valori primitivi, quelli visivi, e ricorda i migliori film di Truffaut (Jules e Jim, Le due inglesi) oppure di Kubrick (Barry Lyndon).

La grande invenzione sta tutta qui. La storia, del tutto metaforica, quasi allegorica, viene raccontata solo a parole e recitata sul pavimento di un teatro. Dogville viene rappresentata per dissomiglianza, non per somiglianza: dato che non corrisponde a niente diventa una metafora di tutto il mondo. Diversamente, il film sarebbe stato banale e la storia non avrebbe avuto niente di significativo: una delle tante ragazze violentate che si vendicano, o sognano di farlo, oppure una "visita della vecchia signora" alla Dürrenmatt, come dicevo, in cui la vendetta appare già dietro la tenda, pronta ad arrivare con il deus ex machina.

Ma, visto dalla parte opposta, il film racconta anche il mito classico della donna che da Kore si trasforma direttamente in Proserpina senza passare per Demetra, e trascina tutti i suoi seviziatori nel regno dei morti, regno dal quale peraltro sembra essere appena venuta. Il papà che in fondo è il più buono degli uomini, come in una caratteristica morale familiare, potrebbe essere Plutone: il rovesciamento del rovesciamento ci riporta ai miti e ai valori tradizionali. Un mito vecchio quanto il mondo, insomma. Ma un mito rivisitato con lo stile di un grande inventore, che sa come il cinema sia tutto nella scelta di un luogo invece di un altro. Un luogo vuoto e buio, ovvero un teatro di posa, è la sede più adatta per fare del cinema, come sapeva bene Scott Fitzgerald: chi non ricorda il misterioso Monroe Stahr de Gli ultimi fuochi, il produttore costruito sul modello di Irwing Thalberg, il produttore storico della Metro Goldwyn Mayer, il nemico di Stroheim, appunto? Lui sapeva benissimo che per fare del cinema non occorre niente, basta solo il buio e uno spazio vuoto.

E con questo sono ritornato al mio Stroheim. Ma qui è opportuno che mi fermi. Del resto il vino mi piace, ma non bevo mai troppo, altrimenti potrei ubriacarmi e confondermi con il mio ex-amico Ghezzi.




© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it

 

multimedia Dancer in the Dark

multimedia Lars v. Trier sul set di Dancer in the Dark

multimedia Nicole Kidman in Dogville




 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013