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Pietro de Marco

Rex verminosus. Su Gibson e altro.

Data di pubblicazione su web 03/05/2004
Una scena della Passione di Gibson
Ho visto finalmente The Passion, da comune spettatore. Mi è obbligo testimoniare, cattivo ultimo, che si tratta di opera degnissima quanto alla sostanza religiosa (in contesto di preghiera lo si potrebbe anche "vedere in ginocchio", come si è detto), con momenti di grandezza che a mio parere implicano, inscindibilmente, anche qualità filmiche. Ma bisogna saper leggere l'implicazione Scrittura/Immagine, ovvero sapere e vedere, e così "saper vedere". Le obiezioni stroncatorie, nella stessa critica specializzata (ultimo Roberto Escobar, sul "sole24ore" di domenica 18 aprile), appaiono nella sostanza ideologiche, armi usate contro qualcuno, o meri e irriflessi giudizi di gusto.

Guardiamone alcune, anzitutto ideologiche. Non vi sarebbe, si ripete, nel film senso o prospettiva della salvezza cristiana. L'obiezione oltre che scorretta quanto alla lettera del testo filmico risulta di sorprendente superficialità: la narrazione percorre i Misteri dolorosi ovvero le rispettive stazioni del Rosario, segue l'economia della Via crucis nella sua teologia propria, non fungibile né con la fuga in avanti verso la Gloria, cui la Passione è ordinata ma da cui non è tematicamente annullata; né con la fuga all'indietro (così frequente nelle attuali sensibilità 'teologiche') verso un'ordinaria umanità di Gesù che sarebbe più significativa della sua Passione. La rinuncia, se non la ripugnanza, a contemplare i Misteri del dolore nella loro portata salvifica è in conflitto con la densità del Venerdì santo, affermata e vissuta dalla Tradizione cristiana.

Dom Columba Marmion, maestro benedettino di spiritualità, apriva con un sommario il capitolo Sui passi di Gesù (che il cruento genio di Gibson ci rende nella loro durissima Verità soprannaturale) di un volumetto del 1919, spesso ristampato, Le Christ dans ses mystères, in questi termini: "Perché la contemplazione dei dolori del Verbo incarnato è sovranamente feconda per le anime; nessun dettaglio è senza importanza [n'est négligeable] nella passione di Cristo, Figlio di Dio, oggetto della compiacenza del Padre; Gesù manifesta particolarmente le Sue virtù nel corso della Passione; vivente ancora, produce in noi la perfezione che contempliamo nella sua immolazione." E il capitolo inizia: "La Passione costituisce il "santo dei santi" dei misteri di Gesù". Produce insofferenza, fino all'ira, che si debba spiegare questo ai cristiani contemporanei.

Un altro punto. Si è detto in molti modi e in molte sedi che quell'insistenza sul corpo di Cristo flegellato, reticolo di piaghe e di sangue, è esercizio di sadomasochismo. Vediamo.

Gesù è subito (fino dall'arresto nell'Orto) reso da Gibson irriconoscibile. Genialmente, l'occhio chiuso e il volto tumefatto accompagnano l'intero percorso della Passione. La ragione è precisa. Dall'Inizio della via della Croce Gesù è, infatti, realizzazione del Servo sofferente (Isaia 53, 2-3): "Non est species ei, neque decor; et vidimus eum, et non erat aspectus"; "quasi asconditus vultus eius et despectus [disprezzabile]". Gibson sa, con la tradizione cristiana, che nel suo vir dolorum, sciens infirmitatem, "uomo dei dolori, che conosce la fragilità (o: il patire)", è la realizzazione della profezia di Isaia (richiamato in esergo al film, ove si cita Is. 53, 5). E Isaia è con ciò la chiave di quella totale maschera, ed anzi veste, di sangue del corpo di Gesù. Ma segna tutto il film l'inizio stesso del testo profetico (Is. 1, 6): "A planta pedis usque ad verticem, non est in eo sanitas; vulnus, et livor, et plaga tumens, non est circumligata, nec curata medicamine, neque fota [lenita] oleo" (figure della condizione di Israele).

Su questa sanguinante veste messianica si scatena l'Uomo, portandoGli testimonianza nell'offesa: Rex verminosus! grida il soldato al Coronato di spine. Col salmo: Ego sum vermis et non homo ( Ps. 21, 7).

Certo: nella insistita ferocia dei flagellatori di Gibson (come nel calcolo dei giudici e degli accusatori) vi è l'Umanità secondo il peccato nella sua ribellione al Salvatore. Trascorre Satana alle spalle degli spettatori; è lui il capo dei flagellatori. E mima una contromaternità, l'Anticristo, pronta ad occupare la storia dopo quel fallimento del Figlio che egli attende (l'abiura sotto i tormenti, la croce mancata).

Sempre la tradizione cristiana ha letto universalisticamente, per ogni uomo, i protagonisti della Passione, gli atti dell'uccisione del Figlio-Dio (leggo su www.christianitytoday.com./global/printer. html/…, che Gibson ha detto qualcosa del genere: "Each of us is responsible for Christ's crucifixion"). Dopo aver commentato l'atto (decisivo) con cui dalla croce si attribuiscono maternità e figliolanza a Maria e all'apostolo Giovanni, per cui l'uomo subentra al Figlio nella maternità di Maria, un celebre gesuita, il p. Longhaye, nella Retraite annuelle de huit jours d'après les Exercices de Saint Ignace (1932) scriveva in forma di preghiera: "E' un delitto, un deicidio cui io [io Longhaye, io Uomo] prendo parte, che mi rende nuovamente figlio di Dio. (..) Se io lo voglio, il salario definitivo, eterno di ciò che Gli ho inferto [mon attentat], sarà il Suo amore e il Vostro [di Maria]. Possibile? Sì, perché è vero, è la fede."

È il Christus patiens, cosparso di sangue come lo hilasterion, il propitiatorium dei riti di espiazione del Santuario, che prende il posto dell'arca, luogo della presenza e dell'oracolo di Dio: icona (qui, come nella tradizione dell'arte sacra) del cuore dell'evento redentivo. Intenso e perfetto l'episodio di Maria e Maddalena che ne asciugano (in realtà raccolgono, dono e patrimonio) il sangue dal pavimento della flagellazione.
Maria, dunque. Nei detrattori di Gibson anche la "comprensione" nei confronti della figura di Maria mi pare si riduca a poca cosa. Si sono evocati persino, e scontatamente, la Dea Madre e securizzanti arcaismi. La Maria di Gibson (e della Morgenstern) non è solo nella tenerezza di Madre, così accessibile alla nostra commozione. È anzitutto consapevolezza di essere colei che collabora col Padre nella destinazione del Figlio alla croce (Longhaye). Come risulta dalle voci di diversi forum americani il mondo protestante lo ha colto. Nessun arcaismo, ma mistero trinitario. Da qui la "misura" della condotta di Maria: il sapere sopraffà l'emozione, poiché non vi è per Lei, per dire così, sorpresa dagli eventi. Nella comunicazione Madre-Figlio vi è, secondo le evidenze (Tornielli), la mistica e stigmatizzata austriaca Anna Katharina Emmerick che scrive: "Ella sapeva e sentiva nella sua carne quanto succedeva al suo diletto Figlio e soffriva con lui" (ricordo che Maria ha la certezza della cattura prima della notizia; e un immediato sapere della presenza del Figlio nella cella che è sotto i suoi piedi). Ma in Passion vi è di più: la Madre sa, e sa da sempre (dall'origine), che quella carne è per la Croce.

Gibson e i suoi sceneggiatori sembrano insomma ispirarsi ad un tema teologico-spirituale che dà la vertigine, e che troviamo nella pagina del Longhaye: "Poco più di trent'anni prima la Vergine aveva firmato, presso il Padre, il contratto di nozze gioioso del Verbo con l'umanità personale di Gesù. Non sottoscriverà ora, presso il Padre, il contratto delle nozze di sangue dell'Uomo-Dio con l'umanità battezzata? (…) Il naturale e comune figlio del Padre e della Vergine è consegnato [alla Passione] dalla comune Volontà del Padre e della Vergine Madre. Il Padre lo sacrifica a noi senza poterne soffrire; la Vergine Madre ce lo sacrifica lacerando il suo cuore. E per parte sua Gesù si offre al Padre e Maria al tempo stesso glielo offre. Ella vuole [che sguardo nel Mistero, in questo "vuole"] la Morte di Gesù in comunanza col Padre che la decreta; la vuole in comunanza con Gesù che liberamente accetta il decreto e lo esegue su se stesso". Altissimo momento, in questo senso, il Cristo di Gibson e di James Caviezel che spende le ultime forze per stendersi da solo sulla croce: Oblatus est quia ipse voluit.

Tale è la Madre, "sacrificatrice col Padre, vittima col Figlio", che agisce in The Passion. La vediamo, nella vigile protezione ch'esercita sulla fedeltà del Figlio al contratto segnato, alla parola data (da Lei), percorrere la salita al calvario in parallelo e antagonismo con Satana, il tentatore del Figlio. Straordinaria intuizione che avrebbe meritato ancor maggiore sottolineatura drammaturgica. L'esclamazione di Maria ai piedi della croce (citazione dalle rivelazioni della Emmerick): "Lascia [cioè: fai] che io muoia con te", è testimonianza della scienza che Maria ha della divinità del Figlio, e della volontà che la Madre ha di ricongiungersi con la Vittima.

The Passion provoca e vuole riflessione religiosa. Niente vi "offusca il messaggio stesso della Passione"; molto vi dichiara che "solo l'amore dà un senso e un indirizzo al dolore" (per citare un luogo del card. Ratzinger usato contro Gibson), ma senza ridurre questo enunciato a inoffensiva metafora, birignao omiletico. E neppure "sangue solo" in The Passion. Né "fondamentalismo" (come invece ancora suggerisce Giovanni De Luna, sulla "Stampa"); piuttosto la dimensione cristiana dell'Occidente (anzi del mondo) vigile e cosciente di sé. In realtà l'opera 'parla' a quanti hanno volontà di guardare con occhi fermi, con o senza lacrime, la Croce, necessaria e fidelis.

Aggiungo. Quell'alleanza "davvero storica tra ebrei e cristiani, in piena attuazione", di cui ha scritto Phyllis Chesler (Foglio del 7 aprile, ove riconosce lealmente che il film "ha una sua maestà e integrità teologica"), non trova un ostacolo nel rischioso fascino di The Passion. La contemplazione aperta del dramma originario che divide eppure lega inseparabilmente, carnalmente, ebrei e cristiani diviene anzi un nuovo (fosse pure traumatico) momento di unità; altri sono i nemici. Valuti la scrittrice quanti critici ostili di Israele vi siano tra i nemici di Passion, e tema piuttosto coloro che non vogliono gli Ebrei capaci di stato e di politica nazionale nella storia mondiale, molto più di coloro che nel crucifige! irrogato al Giusto dall'antica autorità ierocratica del suo popolo vedono l'irruzione della comune Salvezza. Il popolo ebraico non ha più niente da temere dalla Croce, il dulce lignum che ha fatto e fa della vocazione d'Israele il perno spirituale della storia del mondo. Ma, ebrei e cristiani, abbiamo necessità di occhi teologici per intendere, non di 'laica' indisponibilità (penso all'intervento di Wieseltier, Foglio del 2 marzo) di fronte a quel Mistero che fonde la nostra colpa con la nostra salvezza.




Su Vittorio Messori, la lettera, e lo spirito

Prezioso per la nostra riflessione l'accostamento, sul Foglio di sabato, del rabbino sudafricano (ora a Washington) Daniel Lapin e di Giorgio Israel a proposito del film non visto di Mel Gibson e della posizione di Vittorio Messori (Corriere della Sera 17.2.2004). Nel fondo del dissenso che Messori provoca, anzitutto nel mondo cattolico (non conosco amico teologo, per non parlare degli esegeti, che lo ami; credo di essere uno dei rari 'intellettuali' ad apprezzarlo), vi è ciò che Israel sottolinea, la questione del 'realismo' delle cose credute (uso "cose" come la Comedia: "sustanza di cose sperate", substantia sperandarum) che è anche la questione del "reali-smo" della Scrittura.

Non pare però, ma anch'io non conosco tutto Messori, che l'antitesi messoriana cui Israel allude sia quella tra "interpretazioni allegoriche o simboliche della Scrittura" e "lettura assolutamente testuale". Le prime sono parte eminente della tradizione esegetica (i più "sensi" della Scrittura, alla ricerca di un più di realtà non di un meno: mira profunditas) non meno della seconda, che è la lectio historialis, anch'essa canonica. Ciò che è in gioco è il rapporto tra l'assoluto "realismo" dei contenuti di fede (che non è letteralismo biblico) e la natura dell'esegesi scientifica nelle sue conseguenze religiose. La intrinseca variabilità dei risultati e l'incapacità di trascendenza segnano il biblista moderno in quanto tale, proprio per la esclusività historialis del suo metodo; studia il testo come rappresentazione umana, frutto di intenzionalità, contesti, fonti, stili; non come Parola di Dio, propriamente, ma come una Parola (anzi parole, verba) interpretata e trasmessa, creduta ed elaborata. Questo scarto (sia pure per vincolo "metodologico") non implica né allegorismo né simbolismo, anzi. E un altro "realismo", quello dell'agire umano (comunità, redattori, memory and manuscript, secondo il celebre titolo) come esclusiva sustanza delle cose dette e scritte.

Scavare l'uomo come attore della sua propria fede è la grandezza dell'esegesi scientifica. Teologia e spiritualità si specchiano, si cercano, da molti decenni nelle molte e divergenti "teologie" germinali dell'antico Israele e delle prime generazioni cristiane. Ma non può bastare. Non basta alla Teologia, non basta alla Predicazione, soprattutto non basta alla Fede, come mostra il fallimento teologico di Bultmann. Che non possono nutrirsi oltre misura della contemplazione di se stesse, e sia pure dei propri inizi, della propria genealogia. Basterebbe a disincantarle la liturgia: per quanto indebolita resta pur sempre parola sacra come azione e azione come parola sacra, un realissimum scritturale.

Così se un parroco avvertito predica, di fronte ad una pagina dei "segni" di Gesù di Nazareth: "Sarà avvenuto propriamente così? È la teologia dell'evangelista? In fondo non ci importa. Importa che la Parola di Dio afferma (poniamo) il Suo amore ecc.", tale derealizzazione libera la mente dei fedeli dal letteralismo: 'proprio cinque pani? Saranno stati di più…'. Ma la Realtà li attende al varco, quasi subito: la verità della Parola esige Realtà o non può essere neanche predicata. La Parola di un Dio che non è veramente il Cristo narrato, il Cristo narrato che non può essere rappresentato perché forse non accadde così, non può essere "sostanza" di alcunché.

Forse per questo leggiamo nel poeta, Go, go, go, said the bird: human kind/ Cannot bear very much reality (T.S.Eliot, Four Quartets, Burnt Norton, I). La Realtà è teofanica e solo la Realtà lo è; assedia terribilmente i cuori. Go, go, go. Ma guai a perderla, nel sottrarsi alla sua presa, magari superando la dicotomia Cristo della Fede/Cristo della storia col proporre alla fede gli incerti fantasmi gesuani dell'ultima o penultima ipotesi sulla Quelle (alla buona: una simulazione del "nucleo originario" dei vangeli).

Che ha a che fare tutto questo con l'ennesima rappresentazione cinematografica della Passione? Passione e Morte (e Resurrezione, senza cui il resto non avrebbe interesse) sono il cuore di ciò che i colti chiamano kèrygma, termine bello e intenso diventato usuale. Passione e Morte possono essere avvenute in modi diversissimi, comunque inattingibili all'istanza di una (una?) ricostruzione certa; creda Messori che sono insufficienti anche le sue quattrocento pagine. Ma sono avvenute. La (anzi: ogni) "realizzazione" figurativa che voglia attingerla, diviene allora una sua epifania per noi. Ogni rappresentazione della Passione è in questo senso sacra.

L'esperienza di realtà che ne deriva è validata da quell'evento originario. Messori, almeno come io lo intendo, ha ragione; nessun dibattito, analisi filologico-critica, congettura, possono privarmi non solo e non tanto dell'emozione di quella visione, ma della sua Verità "cattolica". E quella mimesis, comunque sia, è quanto di più prossimo alla Verità dell'evento io possa conoscere (miracolo della Rappresentazione). Non per la sua plausibilità ricostruttiva. Anche le Crocifissioni gotiche o rinascimentali gremite di armati e gentiluomini in foggia contemporanea (e magari quelle 'populistiche' del Novecento) sono epifanie di quella Verità. È che la Rappresentazione, la mimesis, proclama alla mia struttura d'esperienza la realtà di quella Verità.

Vi è molto in gioco, qui. Il rabbino Daniel Lapin l'ha colto. Prescindendo con intelligenza dalla querelle dell'antisemitismo. La condanna a morte non è colpa, è mistero d'Israele, come la tradizione cristiana sa, su base paolina. La Rappresentazione della Passione di Dio (fortemente doloristica nel film di Gibson, si dice, come nella mirabile tradizione delle mistiche, come della devozione del popolo e di molti santi) è icona del veramente incarnato, certezza della sua non-parvenza attuale, parvenza della sua certezza ultima. Messori ha ragione; questa Passione cinematografica (ma non solo questa) opera per sé come veicolo della trascendenza-tra-noi. Perché non credere che non solo le nostre fedi larvali di cristiani, ma ognuno e "tutto l'ebraismo" , potranno beneficiare dei suoi "effetti spirituali", come spera il rabbino?

All'uomo non interessa granché Gesù "uomo esemplare" (si tratta di un vecchio terreno autoapologetico delle Chiese, onde tranquillizzarsi sulla propria plausibilità) e nemmeno Gesù allegoria dell'Amore cui lo riconducono spesso le guide spirituali; interessano segni e prove dell'Oltre presso di noi e per noi, l'acqua che sgorga dalla roccia, le lacrime di sangue su un'immagine, El Gran Milagro, le parole "ispirate" che vengono alle labbra, Dio che s'incarna e soffre.

In questo senso tutto si tiene; ed è necessario affermare che le Scritture dicono cose Realmente avvenute. Se così non fosse, non sarebbero epifanie del Santo; non sarebbero altro che "letteratura antica". Ma è la Sorgente di quelle epifanie, ciò di cui le Scritture sono "notizia", che conta per me. La reazione negativa di biblisti e paleografi alle tesi di Carsten Thiede (il vangelo di Matteo è opera di un "testimone oculare di Gesù"), qualche anno fa, fu forse ineccepibile ma sospetta nella sua violenza; una vera 'campagna' in difesa di una cultura esegetica e teologica derealizzatrice delle Scritture, e che teme i "testimoni oculari". Certo, era una risposta alla pressione "fondamentalista" (nel senso primo del termine), ma una risposta irragionevole anch'essa. La Fede ha occhi e guarda oltre a sé, oltre alle catene di uomini che la trasmettono, traguarda il testo scritturale cercandone l'Autore e gli Attori, qui davvero carne e sangue. Vuole e accetta l'oltranza dell'eliotiano very much reality. Desiderare di "vedere" mimeticamente l'Evento è per paradosso la traccia più forte di una fides substantia, fondamento, di ciò che si deve sperare. Fede che sa ("argomento delle non parventi") che testimoni oculari vi furono e che anch'essa può essere di loro, testis et spectatrix.
















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