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Italo Moscati

Dagli sperimentali tv...

Data di pubblicazione su web 21/09/2004
Bekim Fehmiu nell'Odissea di Franco Rossi e Mario Bava (1969)
Non sono un nostalgico, anzi, ma non mi tiro indietro quando qualcuno, sinceramente spinto da un interesse non banale, mi chiede di raccontare una esperienza che appartiene ad una vera e propria storia accaduta, o meglio ad una vera e propria avventura, che mi ha coinvolto con altri. La storia vera, sprofondata nella fiction che non si chiamava ancora fiction e aveva invece il sapore, la curiosità della ricerca della sfuggente realtà, è quella dei Programmi Sperimentali della Rai-Tv in cui mi sono ritrovato con grande felicità insieme a tanti registi, sceneggiatori, autori, tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta: dai giovani Gianni Amelio, Peter Del Monte, Giuseppe Bertolucci, Maurizio Cascavilla, Alessandro Cane, Gianluigi Calderone, a Jean-Luc Godard, Marco Ferreri, Glauber Rocha. Fu un'esperienza che ebbe proprio il valore di un'avventura, dentro e fuori quegli anni della immaginazione al potere, della politica creativa, delle vischiose ideologie novecentesche, del velleitarismo sempre presente, dell'energia profusa soprattutto dai giovani per aprire la strada alla conquista dei diritti civili nella vita sociale e personale. Anni che furono anche quelli dei gruppi e dei gruppettari, dei simpatizzanti dei terroristi, della galassia occulta dei terroristi, della risposta dello Stato, dei manganelli, delle bombe molotov e del sangue sparso.

Un periodo intenso, affannato, esaltante, pericoloso. Lo ricordano a me, e a tutti, i successi di Amelio nei festival (Il ladro di bambini) , e oggi anche nelle sale (Le chiavi di casa), ma anche la calma febbrile, l' intelligente costanza di Paolo Brunatto che, con la veste lunga indiana, da professante buddista qual'era e qual è, non tradisce le vecchie scelte e le propone sempre con dolcezza, come un utile recupero di un passato significativo, un passato non sconfitto, quello della non violenza e del piacere di inventare percorsi della fantasia. Ne ha dato una prova venendomi a trovare in una diretta che conducevo dalla Mostra del cinema di Venezia '61, insieme a tanti amici quasi invisibili ormai: Gianfranco Baruchello, Romano Scavolini, Alberto Grifi, Valentino Zeichen. A questi personaggi, poeti, cineasti, artisti, Brunatto sta dedicando altrettanti ritratti televisivi.

Detto questo, per arrivare agli Sperimentali e comprenderne meglio la vicenda e la realtà di ieri e di oggi, bisogna fare alcune premesse. Mi capita di incontrare per lavoro - nelle cento e passa puntate di Studio Cinema che sto realizzando su incarico di RaiSatCinema - una serie di persone e di fare loro la stessa domanda, chiedendo qual è stato il primo rapporto che hanno avuto con le immagini del cinema. Sono gente del cinema ma anche di spettatori, come dire, illustri: scrittori, artisti, personaggi in vista. Interrogandoli, in poco tempo, mi sono reso conto di una divisione netta tra coloro che si sono seduti, a guardar grandi schermi, nella sala buia, che citava prima Franco Monteleone ricordando un bellissimo libro di Renzo Renzi; e i più giovani che nel salotto domestico, o comunque seduti davanti al televisore, hanno visto Ladri di biciclette o altri capolavori in bianco e nero del passato solo in televisione. È una frattura nettissima, una frattura che fino a questo momento qui non è stata ancora invocata forse perché ci siamo tutti abituati a considerare l'immagine un mondo unico, senza distinzioni, uno specchio o una fonte di specchi in cui il futuro, compreso quello del presente già ingoiato nel domani, che cancella tutto quanto è esistito nel lontano o recente passato.

Un'altra, breve premessa. Queste pagine nascono per un incontro di studio voluto da una facoltà universitaria romana, incontro che si è svolto al cinema Pasquino, a Trastevere. Un motivo di gioia, perché non molto distante dal Pasquino c'era il Filmstudio e c'erano altri cineclub che nascevano sul suo esempio, come pure erano sorti numerosi teatri e teatrini. Grazie a queste iniziative spontanee, a Trastevere si sviluppò un piccolo villaggio romano, sorta di caotico e dialettale insediamento di vite vissute venuto ben prima del village newyorchese (ma il Greenwich Village è poi diventato una leggenda per l'Italia e l'Europa). Qui deflagrò una appassionata voglia di autonomia e di novità, mettendo insieme una folla inquieta di idee ed esigenze che erano nell'aria della contemporaneità in cammino. Il villaggio trasteverino si trasformò in una realtà molto viva, qualcosa che, voltandosi indietro, si può persino paragonare ad un'università popolare, giovanile.

Un'università sui generis, anarchica, libertaria, aperta e contraddittoria. Non erano tollerati docenti, se non quelli che possedevano speciali carisma (un Carmelo Bene ad esempio), se quelli che venivano e praticavano con rabbia e spesso arroganza, presunzione, vanità esperienze artistiche, culturali, politiche minoritarie, svincolate dai poteri istituzionali. Quella strana università fu tale per me come per centinaia e centinaia di giovani che frequentavano poco le aule delle scuole o giungevano carichi di diffidenza dalle bollenti assemblee post-sessantottino, una risorsa rara e importante. Non c'erano ancora le Facoltà di Scienze della Comunicazione che esistono oggi e non c'erano gli altri Dams sorti sul modello bolognese, dove le immagini e le altre forme d'espressione non solo visuale sono state istradate. C'era, attraente, e capace di suscitare un'eccitante illusione di essere del mondo e nel mondo, un luogo nello stesso tempo piccolo e grande, uno spazio minimo ed elastico in cui la voglia di esistere s'intrecciava con la matassa delle immagini del vecchio cinema, del vecchio teatro, della vecchia musica con le immagini del nuovo cinema, del nuovo teatro, della nuova musica.

Era un'università, forse la gloriosa caricatura di un'università , che subiva influenze da varie parti, dai festival particolari con tensioni alternative come la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro o dal Festival internazionale del teatro sperimentale di Nancy o dalla convulsa, spesso anonima, rete di stimoli provenienti da riviste e rivistine, da ispirazioni e modelli venuti o cercati con passione soprattutto nell'America del cinema o del teatro o della musica indipendenti, ma anche nei paesi dell'Est (Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia), con le loro eresie rispetto al soffocante socialismo reale. In questa globalizzazione aurorale e sfuggente persino alla multinazionali che sono interessata a manipolarla, l'esperienza degli Sperimentali tv è diventata fin da principio un'avventura attraverso un viaggio che si è intrecciato con molti altri viaggi. Il cinema stava per "intossicarsi" con la Tv, la Tv scopriva che il '68 non era una semplice festa per ragazzi da conservare nei suoi archivi.

Nato a Milano negli anni in odore di guerra, arrivo a Roma da Bologna nel luglio del 1967 (un anno che ho rievocato nel mio libro che mi permetto di ricordare: 1967 - Tuoni prima del Maggio). Avevo appena lasciato la città dei portici e in particolare del Portico della Morte, così caro a Pier Paolo Pasolini, bolognese e poi friulano; la Bologna dove, da adolescente, mi ero dato da fare come cronista per i giornali locali. Avevo stretto e asciugato la mano sanguinante di un ragazzo colpito da un agente durante una manifestazione. Avevo visto le camerate di ospedale e letto i rapporti sui ricoveri d'urgenza. Avevo visitato, per raccogliere notizie, le stanze della questura con i segni di qualche pestaggio e gli uffici con macchine da scrivere dai tasti logori per le forti pressioni dalle tante dita dei verbalizzanti. Avevo assistito sempre inorridito alle percosse dei giovani bellimbusti bolognesi, nel cuore della notte, scaricate su qualche gay - a Bologna li chiamavano in altro modo, più pesante - sperduto nel centro della città. Avevo pensato al cinema e a Fellini guardando lo spettacolo delle saraghine nei locali notturni, spettacoli d'arte varia: voluminosi seni galleggianti in un piatto di tortellini; o soffrendo per l'umiliazione di un povero scommettitore alle corse dei cavalli che per una minestra e qualche lira si sottoponeva a far da cavia per curiose scommesse: quanto parmigiano si può mangiare in un quarto d'ora?…

Osservavo tutto questo e, intanto, per incarico del giornale, imbottito di film e di libri, oltre che musica (Bologna era la capitale del jazz in Italia e di tanta opera lirica, di tutta la musica), mi stavo costruendo un piccolo presente scrivendo di televisione, di teatro, di cinema. Figure di questo tipo venivano pomposamente chiamate, e le chiamano ancora, così: critici. Aldo Grasso forse non era neanche un teenager. Arrivo a Roma perché mi hanno più volte telefonato per farmi una proposta di lavoro. Forse fu Angelo Guglielmi, bolognese trasmigrato a Roma per lavorare alla Rai, a fare il mio nome. Non so di preciso. So che un dirigente della Rai, Carlo Livi, mi aveva avvicinato ad un convegno, mi disse che aveva letto i miei articoli e che gli avevano parlato di me come della persona giusta. Giusta per cosa? Per entrare in un servizio di programmi sperimentali, un servizio seminuovo, dove era passato Guglielmi, e trasformare progetti scritti - soggetti, sceneggiature, idee - in concrete realizzazioni filmate. Circolava anche voce, ma sommessa, che conoscevo e amavo il New American Cinema e tutte le altre correnti d'avanguardia, comprese quelle della letteratura e del teatro, a cominciare dal Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina. Potevo essere utile.

Rispondo negativamente alla proposta che si ripete. Il mio giornale è in difficoltà, sta per chiudere. Non voglio abbandonare. Non ho dubbi: devo restare con gli altri giornalisti, con i tipografi, con il direttore che ha già capito di dover fare la valige. E' proprio lui, al rinnovarsi della proposta, a dirmi che non ci sono alternative, dunque è meglio andare. Così comincia la storia degli Sperimentali alla Rai, almeno per quanto mi riguarda. Ci vogliono quattro-cinque mesi perché gli Sperimentali facciano i primi passi, ed è subito come frequentare una nuova scuola. Imparo che in Rai bisogna avere pazienza, fino a spaccarsi il fegato. Imparo che le carte fanno lunghi giri di tavolo in tavolo, come per quelle che Totò riempie di timbri nella celebre scena di un suo film. Imparo che gli ostacoli e le diffidenza stanno più dentro che fuori dalla Rai. Imparo soprattutto che la Rai è un'azienda spericolata e conservatrice nello stesso tempo, prima conservatrice e poi spericolata. Spericolata perché, presa com'è dalle sue stesse spire, non sempre ha tempo per meditare e organizzare le proprie scelte: fa per fare, fa per ubbidire al movimento di energie spesso inerziali, fa in particolare per tacitare un profondo senso di inadeguatezza e di incertezza, e quindi non un senso di colpa.

La Rai è sempre stata, da istituzione che ha radici nel primo Novecento, sprovvista di sensi di colpa. Naviga. Ma io ho fretta, la terra mi brucia sotto i piedi. Bruciano anche le urgenze di quel Village cresciuto. Vi passa il cinema che viene chiamato alternativo, antagonista. Cinecittà è distante qualche chilometro ma sembra un altro pianeta, i grandi maestri lasciano le loro ultime opere importanti, i nuovi registi faticano ad emergere, la commedia all'italiana e Totò in compenso vengono riscoperti. Fino a ieri Dino Risi, Luigi Comencini, Mario Monicelli e lo stesso Totò erano al massimo buoni artigiani. Che cosa fare degli Sperimentali? Che cosa potevano fare con poco più di 30 milioni (di vecchie lire) di corredo? Poco o nulla. Segno che la volontà di farli funzionare era scarsa, quasi nulla. Mi domando che strada prendere. Qualche dirigente mi incoraggia a tentare qualche soluzione. Non è facile.

Il cinema snobba la tv e la Rai, anche se Dino De Laurentiis ha da poco realizzato per il video a puntate il kolossal Odissea di Franco Rossi con Bekim Fehmiu, Irene Papas, Marina Berti. Che verrà proiettato in versione ridotta nelle sale cinematografiche. Qualche tempo prima, Guglielmi con il produttore Leo Pescarolo aveva offerto a Liliana Cavani l'opportunità di girare il suo primo film, Francesco, con Lou Castel, già protagonista de I pugni in tasca di Marco Bellocchio. Sono i segnali che qualcosa si sta muovendo. In altri settori della Rai, come quello in cui lavora Vittorio Bonicelli, ex critico e sceneggiare, si comincia a pensare che certe barriere debbano cadere. Infatti, qualche anno dopo Bernardo Bertolucci, reduce dalla discussa esperienza di Partner (1968), in pieno tempo di polemica contro la guerra in Vietnam, realizzerà La strategia del ragno (1970), uno dei suoi migliori film. È l'inizio di un'apertura che a poco a poco, gradualmente, porterà ad altre pellicole: ad esempio, Il circo di Federico Fellini (1970), Padre padrone (1977) dei fratelli Taviani, I recuperanti (1970) e L'albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi, Diario di una schizofrenica di Nelo Risi (1970), Diario di un maestro di Vittorio De Seta (1972). Mentre sta per tramontare la serie di tentativi compiuti da Roberto Rossellini con La lotta dell'uomo per la sopravvivenza (1967) e le biografie di grandi personaggi della storia culminati nel bellissimo La presa del potere di Luigi XIV (anch'esso del 1967).

La Rai tenterà con prudenza anche la strada del telefilm occupata dalle produzioni americane, una realtà in passato contrastata solo dagli sceneggiati tradizionali di Sandro Bolchi (I promessi sposi, 1967) o di Anton Giulio Majano come ad esempio Delitto e castigo o da quello più aggiornato di Giacomo Vaccari, Mastro don Gesualdo. A provare con i telefilm è Alfredo Giannetti che viene dal cinema e gira a puntate La famiglia Benvenuti, primo serial nazionale. Per gli Sperimentali, i 32 milioni sono una briciola rispetto ai costi dei film che avanzano. Taglio con le prudenze, incoraggiato da qualche dirigente. Incontro Enzo Doria, produttore de I pugni in tasca e di Grazie zia di Salvatore Samperi, quest'ultimo soddisfacente soprattutto dal punto di vista degli incassi. I giovani sono il suo pane e companatico. Gli dico che ho cominciato a raccogliere idee, soggetti, sceneggiature. Si tratta di proposte di giovani o di giovanissimi, fra cui Gianni Amelio. Li ho cercati nel Villaggio e dovunque era possibile. Avevo discusso con loro, persino litigato per far loro superare prevenzioni e fare accettare lo spiraglio televisivo, uno spiraglio in fondo prezioso in un momento di pesanti ostacoli che gli esordienti dovevano affrontare. Il Centro Sperimentale era praticamente fermo, Roberto Rossellini travolto dalla contestazione aveva accelerato la crisi. Lo Stato finanziava i debuttanti secondo criteri non sempre limpidi: diventerà proverbiale, in senso negativo, l'articolo 28 di una legge vigente sul cinema, accusato di avere autorizzato una sorta di massacro degli innocenti, ovvero la fine di molti di questi debuttanti abbandonati a se stessi, alla cattiva produzione e peggio alla cattiva distribuzione.

Si delinea, dopo l'incontro con Doria e altri giovani produttori, l'ipotesi di realizzare mediometraggi , dai 40 ai 50 minuti, a basso, bassissimo costo: non più di quattro o cinque milioni per film. La scelta di fondo è quella di portare un'innovazione nella forma e nei contenuti. La società italiana è là fuori, fuori dal palazzo di vetro di viale Mazzini. Basta andarla a cercare. Sembra facile. Le complicazioni affiorano subito. Il cinema d'autore, allora vigente attraverso i festival e la mentalità di cinefilia che si sta affermando, è un terreno infido: porta alle discussioni e ai pregiudizi infiniti. Jean-Luc Godard è troppo bravo per essere un modello da copiare ma lo diventa in una ridda di equivoci. Come spesso accade non solo nel cinema, le avanguardie vengono tradite dagli improvvisatori e dai conformisti. In Rai, i giovani, quei giovani registi o attori che entrano a far parte del progetto degli Sperimentali sono visti da molti come il fumo negli occhi. Un giorno un capo usciere viene a chiedermi di ricevere nella portineria di viale Mazzini i capelloni, le ragazze in minigonna, i "diversi" che bussano o sono stati invitati ad entrare attraverso la porta degli Sperimentali. Mi rifiuto con decisione e vinco. Nessuno farà altre obiezioni.

I primi film che produciamo vanno in onda nel 1970, e sono: La fine del gioco di Gianni Amelio, La stretta di Alessandro Cane, Stefano junior di Maurizio Ponzi, Utopia utopia di Maurizio Cascavilla, AAA bella presenza offresi di Gianluigi Calderone, Dalla parte del manico di Gabriele Turi. L'orario della trasmissione è buono: la prima serata di Rai2, la Rai ha ancora solo due canali, alle 21,15. Gli ascolti risultano eccezionali per programmi sperimentali che cercano inedite mediazioni. Su Rai1, in contemporanea, vengono trasmessi spettacoli che raccolgono decine di milioni di spettatori, varietà e quiz. Una concorrenza impossibile, ma anche un riparo protettivo. Gli Sperimentali arrivano anche a superare i 2 milioni di spettatori. Piace La stretta ma piace anche La fine del gioco che raccoglie un indice di gradimento - allora veniva cercato - notevole: quasi il 60 %. Il film di Gianni Amelio comincia così una lunga carriera che non solo identificherà un curriculum sempre più significativo per il regista, ma che diventerà un riferimento per i giovani autori in cerca modelli a cui ispirarsi.

Che film sono quelli Sperimentali? Sono pellicole che parlano di ragazzi in istituti di correzione, di giovani operai nei quartieri dormitorio, di adolescenti nelle metropoli in sviluppo, di sognatori che aspirano a creare nuove condizioni di vita, di fanciulle che scoprono la realtà dei nuovi regni dei consumi, di persone che amano le armi (nel film-documentario di Turi lo stesso tema di Bowling a Columbine di Michael Moore). Il via per l'inserimento nel palinsesto e quindi per la trasmissione si fa attendere alcuni mesi. I capi dei settori di programmazione non hanno visto i film e sono comunque contrari. Finalmente, l'intervento del direttore generale Ettore Bernabei, sostenuto da Carlo Livi e da qualche altro suo consigliere, risolve il problema. Imparo un'altra cosa. Esistono da sempre in Rai poteri spesso senza volti precisi che fanno argine ad ogni iniziativa che possa anche solo increspare le acque tranquille, almeno in apparenza, dovute ai continui intrecci fra accordi e trame dei quartieri alti, ovvero dal quinto piano in su di viale Mazzini (ora il livello parte già dal primo piano).

Il via viene sulla scia di un interesse dei giornali che nessuno si sarebbe aspettato. Interesse suscitato dalle interviste ai registi e dalle prime proiezioni pubbliche avvenute in diverse sedi, soprattutto piccoli festival. I titoli sono grandi e la Rai riceve un pubblico elogio per avere osato. Ma, altra cosa che si impara, gli elogi possono innescare resistenze interne, obiezioni, persino giudizi a mezza bocca. Ad esempio: se si possono fare film a basso costo, come si possono giustificare produzioni costose, troppo costose, spesso discutibili, di scarsa qualità, a giudicare da ciò che si vede sul piccolo schermo? Si va comunque avanti. In quattro anni, fino al 1974, riesco a produrre più o meno con la stessa cifra annuale a disposizione. Si arriva ad un totale di oltre quaranta film sempre a bassissimo costo e con caratteristiche continuamente aggiornate. Lo spazio delle scelte si è ampliato. Non solo mediometraggi, tra gli altri debutteranno o faranno tra le loro prime esperienze Peter Del Monte con Le parole a venire, Luigi Faccini con Niente meno di più, il fratello di Bernardo, Giuseppe Bertolucci, con Andare e venire, e Gianni Amico con Il vostro amore grande come il mare; ma anche tentativi più impegnativi con registi capaci di suggerire forme inedite di ricerca, e l'allargamento dei piani di lavoro alle nuove tecnologie di ripresa e al teatro, alla musica.

Per il teatro, d'accordo con Mario Raimondo, produciamo programmi con Jerzy Grotowski, Luca Ronconi, Giorgio Strehler e alcuni registi d'avanguardia; e persino un'opera rock di Tito Schipa, Orfeo 9, con protagonista un giovanissimo Renato Zero. La voce si è sparsa, il cinema e lo spettacolo, una volta riluttante, corregge sempre più velocemente le sue posizioni di diffidenza e di attendismo. Il Villaggio o il Village scompare. Prevale il Villaggio Globale di cui parla Marshall MacLuhan. Il medium fa il messaggio. Cinema e spettacolo, in crisi di identità e di pubblico, cercano il medium. Penso che lo debba cercare lontano dalla Tv o almeno dalla Tv così com'è fatta. Penso che si debba puntare, o sognare, ad uno scambio per portare in Rai la grande scuola del nostro cinema, compresa la parte che riguarda la cosiddetta "commedia all'italiana", e viceversa per offrire al cinema l'occasione di esplorare un pianeta nuovo, quello della Tv.

Alla BBC negli anni Sessanta e Settanta sono attenti, attentissimi agli autori del cinema e del teatro, li vanno a cercare, e offrono loro occasioni preziose di sperimentazione. Fra questi, lo scrittore Joe Orton che per la emittente inglese produsse testi di grande qualità, come era accaduto del resto per la Tv americana con Paddy Chayefsky, autore di notevoli telegrammi e che nel 1976 scriverà per il regista Sidney Lumet Network con Peter Finch (Quinto potere). Del resto, sempre in America, sia Robert Altman con la serie Bonanza sia Steven Spielberg con altri telefilm e soprattutto con il capolavoro Duel (1971) hanno dimostrato che non ci può essere qualità e ricerca senza un rimescolamento delle vecchie carte. Prima di partire per un viaggio di esplorazione e studio in America, avvio la realizzazione di altri film, questa volta con registi italiani e stranieri. I soldi sono di poco aumentati, di pochissimo. Fanno buon viso di fronte agli scarsi mezzi, autori già in parte noti: Liliana Cavani, che firma L'ospite (1971), sugli ospedali psichiatrici in tempi di discussione accese sul loro destino grazie a Franco Basaglia, un medico rivoluzionario che vuole abbattere le mura di queste prigioni; Marco Ferreri, che dirige Perché pagare per essere felici? (1972), sui giovani e i concerti rock, la liberazione sessuale e la protesta psichedelica; Glauber Rocha, di cui faccio acquistare Cancer, opera incompiuta sul '68 a Rio de Janeiro, e caldeggio un altro film a cui il bravo regista brasiliano collabora, Tatu Bola; e, infine, Jean-Luc Godard, che fa Lotte in Italia (1972), ovvero un pamphlet sull'Italia dopo il Sessantotto. Lo scopo è quello di creare un rapporto costante e vivo fra generazioni e personalità interessati alla ricerca.

I film vanno in onda, ma seminati nel tempo. Quello della Cavani viene presentato nel '73, quelli di Ferreri e di Godard solo molti anni dopo, nel '76, all'indomani della riforma della Rai. Lotte in Italia era stato rifiutato, censurato dalla Rai, e ho dovuto impegnarmi a farlo ricomprare e trasmettere dalla Rai quando i vecchi dirigenti erano usciti dall'azienda. Anni furiosi e intensi. Roma era il luogo delle delizie e delle sfide di un cinema giovane e internazionale che si apriva alle idee e alle esperienze. Dietro ogni nome, di quelli appena fatti, c'era un vitalissimo corteo di talenti alla ricerca di spazi, di risorse, di confronti. Misuro la distanza che esiste tra una Rai che opera come un ufficio postale e riceve proposte, lettere, spesso raccomandate, senza offrire un serio momento di verifica e di stimolo; una Rai che, per cambiare o almeno rinverdirsi appena, avrebbe bisogno di tutto questo.

In America, entro in contatto con i gruppi che sperimentano mezzi leggeri come il video-tape. Le macchinette della tv cominciano ad intaccare il dominio delle macchine per la celluloide. C'è un regista, Robert Kramer, da non confondere con il quasi omonimo produttore-regista che ha diretto L'ultima spiaggia e Vincitori e vinti, al quale si fa riferimento. È protagonista di un cinema militante che realizza i Newsreel, cinegiornali alternativi. Circola l'idea che le piccole telecamere portatili possano essere utili per raccogliere meglio fatti e informazioni. Torno con il proposito di vedere cosa si può fare in questo senso, per darmi coraggio scrivo un libro sulla esperienza compiuta a Los Angeles, New York e Washington intitolato La trasgressione televisiva. Scopro che qualcuno, in Italia, ci aveva pensato. Non uno ma tre registi: Anna Lajolo, Guido Lombardi, Alfredo Leopardi. Vengono da contatti e lavori in comune con gli indipendenti americani. Hanno animato anche la breve stagione della avanguardia italiana, inizi anni 70. Ci troviamo d'accordo nel fare una inchiesta in un'isola in fondo alla Sardegna, dove parlano genovese perché gli emigrati genovesi nel Nord Africa furono espulsi e decisero di stabilirsi nell'isola. Il luogo si chiama Carloforte, la gente è composta quasi esclusivamente da pescatori e da lavoratori per la conservazione del pesce. Giriamo L'isola dell'isola, ovvero un gioco di specchi fra questa gente. A mio avviso, una cosa molto bella. Gira per i festival e va in onda con successo. Ma è tardi.

La Rai sta entrando nel turbine della riforma. La ricerca non interessa, è una conferma. Mi pare ormai tutto chiaro e scelgo di lavorare per Rai 2, come autore, del resto ho cominciato a fare lo sceneggiatore per noti registi e punto alla regia. Le agonie non mi appassionano. Aspetto l'entrata in vigore della riforma e faccio il gran passo. È il 1976. Gli Sperimentali continuano anche dopo la riforma. Producono poco e nell'ombra, segno che cambiamenti e le speranze di nuove rotte non scardinano la resistenza ad affrontare sul serio i problemi centrali di una industria culturale che ha bisogno non soltanto di produrre ma di creare un tessuto di incontri, confronti, scontri. Gli Sperimentali continuano, certo, cambiano dirigenti e denominazione, ma alla fine lentamente scompaiono, sostituiti spesso da volenterosi organismi impacciati dalle scarse risorse e dalla tiepida volontà aziendale. La data del decesso non figura in alcuna storia della tv o del cinema. E il funerale dura negli anni. Eppure. Il cinema e la tv , specie in Italia, avrebbero bisogno di un luogo dove si progetta e si elabora. La strada si divide invece si intrecciarsi. La tv , ripeto quella italiana (anche al di là della Rai, visto che da anni non c'è più il monopolio ma c'è il duopolio), produce quel sappiamo. Il cinema spesso stende la mano per ottenere i finanziamenti delle emittenti. Le quali hanno organizzato società di distribuzione. Si spera che, Sperimentali da resuscitare o no, s'imponga la necessità per la Rai di svegliare l'attenzione sulla innovazione. Le cose, rispetto agli anni 70, sono e profondamente, radicalmente trasformate. Sono cadute illusioni e velleità. Le sovvenzioni dello Stato non bastano a formare registi e sceneggiatori, e attori, tecnici, scenografi, costumisti, direttori della fotografia. La distribuzione dei denari, spesso incomprensibile (o troppo comprensibile), non aiuta, serve al massimo a rendere possibile la realizzazione di alcune decine di film che poi non trovano sale, distribuzione, rapporto con il pubblico. La Rai fa quel che può, ma non so se fa quel che deve. Sembra quasi che questo, questo preciso dilemma, non sia presente, davvero presente, in coloro che dovrebbero organizzare il suo futuro, il suo destino. Fine dell'avventura spezzata.

Ai miei studenti, all'università, che mi chiedono degli Sperimentali d'antan, rispondo che bisogna saper capire in tempo quando si presenta la "fine del gioco"; e così ricordo il bel film di Amelio e gli altri film, e senza nostalgia mi dico che nel "Quinto potere" d'oggi non vale nemmeno più aderire all'incitamento che Peter Finch lancia nella pellicola di Lumet: "Andate alla finestra e urlate: 'sono incazzato'". Non serve. Ma conservo il mio inguaribile ottimismo di ragazzo venuto dalla città del Portico della Morte. Ho tratto qualche conseguenza spendibile dall'avventura spezzata? Una, in particolare: l'idea che la sperimentazione possa essere una vera e propria pratica della falsificazione. La Rai, come altre industrie culturali italiane, non ha mai creduto veramente nella ricerca. Si è dotata di servizi e strutture appositi, ma li ha sfibrati con l'assenza dei finanziamenti e (in Rai più che mai) con un appiattimento sulle richieste dei partiti, la cosiddetta lottizzazione sempre più raffinata nel suo impiego anche dopo la lotta tra i giganti formicolanti di lilipuzziani (i due Poli con i rispettivi partiti aderenti).

Il nostro tentativo con gli autori italiani e stranieri, con i film e con le altre forme di ricerca, fu esattamente quello di sovvertire o di sottrarsi ad entrambe le limitazioni, con il basso costo, la chiarezza e l'attendibilità delle scelte, la cura nei rapporti e nella definizione dei progetti. Pura utopia, naturalmente. Andarsene, soprattutto per quanto mi riguarda, fu anche un esplicito modo di manifestare dissenso. Il laboratorio, il luogo dei confronti e delle idee, il centro sperimentale dei rapporti creativi - qual era quello che volevamo fare e rendere duraturo - se ne andava una volta per tutte, aprendo una ferita non ancora sanata. Facciamo dei confronti, nel campo della ricerca in generale. Le università sono state ferme per decenni e solo da poco, grazie anche alla spinta degli studenti e dei professori più illuminati e desiderosi di tenere il passo dei tempi, hanno cominciato a muoversi, dotandosi di mezzi tecnici e cominciando ad accompagnare le varie forme di apprendimento verbale con quelle basate sulla moltiplicazione delle immagini e delle nuove possibilità offerte dai linguaggi elettronici. Si andrà avanti? E come?

Per anni il Centro sperimentale di Cinecittà, oggi Scuola Nazionale di cinema, ha dovuto recuperare il tempo perduto e aggiornarsi, ma non è ancora riuscito ad esprimere il suo potenziale e ad incidere in modo serio e concreto nella creatività e nelle produzione del nostro cinema o del cinema di altri paesi (una volta venivano dall'estero per studiarci). Il finanziamento del cinema dei giovani è passato attraverso mille vicissitudini, grazie a leggi che prima con l'articolo 28 e poi con l'articolo 8 di leggi apposite hanno consentito di realizzare una certa robusta quantità di film ma hanno di continuo stimolato polemiche ancora in corso. I più critici verso queste leggi si domandano come sia stato possibile far produrre qualcosa che si avvicina ad un migliaia di pellicole, dal 1965 ai giorni di nostri, e raccogliere poco da una semina della sopravvivenza del cinema cosiddetto di qualità. Gli stessi critici si chiedono anche come mai i registi migliori siano cresciuti al di là del largo orto delle sovvenzioni: Gianni Amelio, Nanni Moretti, persino Gabriele Muccino, tanto per fare qualche nome nel corso degli ultimi trent'anni; e citano cifre impressionanti sui costi complessivi: centinaia di miliardi buttati, a volte, letteralmente, dalla finestra. I meno critici si accontentano di dire che, senza questo mucchio di soldi, il cinema italiano sarebbe morto. Al massimo si può riconoscere, rispetto al loro giudizio, che si tratta di una semplice respirazione bocca a bocca. Sono temi vecchi sul tappeto da anni, insoluti.

E così via. Si potrebbe continuare a lungo, denunciando politiche volenterose nei propositi e disastrose nei risultati, anche per settori al di là del cinema: si pensi al teatro che non ha più rincalzi alla generazione dei Carmelo Bene, Luca Ronconi, Leo De Berardinis… Un altro punto su cui riflettere, ricavato dall'avventura degli Sperimentali, riguarda il rapporto idee, progetti e tecnologie. Ad ogni novità, in genere, corrisponde un manifesto artistico. Senza andare indietro, alle avanguardie storiche, alla Nouvelle Vague alle correnti cinematografiche nate su questo esempio in America e in Europa, ci si può fermare al manifesto Dogma di Lars von Trier: indicazioni, ordini tassativi per un tipo di cinema nell'epoca del digitale. Tavole di comandamenti che vivono, nei fatti, per essere violate. Era quello che intendevamo fare con gli Sperimentali Tv e che si potrebbe ancora fare. Per questo motivo, ho messo i puntini nel titolo delle mie pagine. Ovvero, "Dagli Sperimentali Tv…" a nuovi progetti che sono possibili.


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