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Jean Jourdheuil

Le Théâtre, les nénuphars, les moulins à vent. Articles et interventions


Montreuil, Éditions théâtrales, 2023, 233 pp., euro 20,00
ISBN 978-2-84260-913-9

La raccolta di saggi e interventi, molti dei quali pubblicati in rivista o nati da comunicazioni orali, va dal 1984 al 2010 e s’inserisce nella nuova collana “Méthodes” che tratta della fabbricazione delle opere sceniche e delle loro concezioni creative. Nel Préambule l’autore insiste sul metodo che radicalizza un’idea di critica guidata da criteri rigorosi e vocazione militante. Sottolinea il bisogno d’una revisione costante del brechtismo, a partire dalle applicazioni riscontrate presso il Piccolo Teatro di Milano e il Théâtre de la Cité diretto da Planchon: «Cette ambition de transformation du théâtre m’a conduit à pratiquer, plutôt que la mise en scène, la “dramaturgie” au sens que Lessing donne à ce terme [...]. La démarche de Brecht n’était pas différente. Tel était mon point de départ» (p. 5). Propone così il proprio ruolo di testimone e di responsabile teatrale, anche organizzativo, per fondarne principi e obiettivi e giustificare l’esito degli scritti relativi. Assume il peso dell’artista e dell’intellettuale, secondo riflessioni storiche ed estetiche (suo, Le Théâtre, l’Artiste, l’État, Paris, Hachette, 1979), quando negli anni Ottanta crea “ritratti” di artisti e filosofi, per un teatro del pensiero. 

Uno dei primi interventi, Un théâtre de cour à vocation démocratique (1985), riguardava il teatro pubblico opposto a quello privato, ponendo a premessa una storia dell’istituzione che, partendo dal XVII secolo, chiarisse lo stato attuale attraverso casi concreti, come gli scopi e gli statuti dei maggiori teatri nazionali. Vagliava tempi e modi dell’adozione del modello festivalier, nella programmazione mutevole di tante rassegne, osservando l’affermarsi di un «curieux mixte de de la tradition française et de la tradition allemande en matière de théâtre de cour» (p. 18) nel quale l’ambizione culturale egemonica francese s’enfatizzava. Dallo spartiacque del Sessantotto, segue quello sviluppo problematico fino a conseguenze di marginalizzazione subite da eventi anche rilevanti. Lo deduce dai risultati presso le maggiori compagnie, in termini comunicativi e di scelte ministeriali. Si domanda provocatoriamente: «Les Festivals vivraient donc de la mort de l’art dramatique?» (p. 29) per poi aprire un’alternativa capace di avviare la patria riconosciuta dei festivals al superamento del provincialismo. 

La pratica feconda della traduzione è esaminata in France/Allemagne, traduire / mettre en scène (1992), ove il pensiero s’appunta sul metteur en scène e sul pubblico quali agenti d’uno scambio reciproco dei ruoli e s’interroga sulla condizione del critico drammatico nel contesto europeo. Trae un esempio da Le Temps et la Chambre, allestito da Patrice Chéreau (1991) per mostrare che, per le diverse condizioni di vita, «la pièce de Botho Strauss est donc “réaliste” ou vraisemblable à Berlin et absurde à Paris» (p. 33). Osserva poi come, all’epoca di De Gaulle, l’opera di Racine potesse apparire “politica” mentre si avvertiva “barbara” quella di Shakespeare. Con una scrittura in prima persona, densa per riferimenti sociologici e connotazione politica dei protagonisti, giunge a considerazioni sulla personalità di Heiner Müller e delle sue opere, alla luce delle regie di Peter Stein e di Chéreau. Con la traduzione e l’allestimento di Hamlet-Machine, Quartett e Paysage sous sourveillance, Jourdheuil saggiava le qualità del drammaturgo tedesco prima in Francia che in Germania. 

Nell’inedito Le Théâtre et la guerre (1993) l’autore tenta di circoscrivere la situazione per la quale sia plausibile trattare la complessità dell’argomento e sceglie la triade teatro, guerra e politica per affrontarla. Avvia una lunga storia esplicativa, confortata dall’esperienza delle sue elaborazioni di La Tragédie optimiste (di Vichnievski), La Route des chars (di Müller) per comprendere infine la pièce di Kleist, La Bataille d’Arminius: testi tutti funzionali alla definizione della manovra dell’accerchiamento e della nozione di “nemico”, immancabile in ogni guerra, se pure drammaturgica. In un’alternativa problematica, Théâtre ou spectacle (1994) avanza la domanda retorica per mostrare trasformazioni (forse) irreversibili in un’arte che, inerente ai citoyens, riguarda ormai i citadins, per i quali «le théâtre devient un élément de confort urbain» (p. 63) poiché «le théâtre ne va pas sans spectacle [...] mais tous les spectacles ne sont pas de théâtre» (p. 64). 

Gli effetti appaiono nelle posizioni reciproche che influiscono funzionalmente sul regista, sul critico e sull’attore. Resta coinvolto anche il pubblico, sollecitato fra “teatro” e “spettacolo”, da cui consegue una mutata percezione dello spazio-tempo caratteristico della relazione. L’interesse s’allarga agli amministratori della Comédie-Française, dalla gestione di Pierre Dux all’avvento di protagonisti quali Vincent, Vitez, Lassalle che instaurano un regime tipico d’uno spazio “demilitarizzato”, sia immaginario sia operativo. Più pressante ancora, il titolo Grandeur et décadence du “service public”, et après: quoi?, nell’indicare le scelte che dal dopoguerra condurranno alla nationalisation delle attività artistiche mediante finanziamenti pubblici. 

L’inverso accade a Nanterre, quando Chéreau alla direzione del Théâtre des Amandiers torna alla privatizzazione, in un confronto fra burocrazia e aspirazioni estetiche che comporta il cambio di statuto del teatro. Oscillazione prolungatasi negli anni Ottanta con i privilegi personali riconosciuti ad artisti eccezionali. L’intreccio indissolubile fra pubblico e privato (la cui storia è finora incompleta) vedeva il regista di Nanterre-Amandiers al centro di imprese creative di portata internazionale, imputabili alla neo-décentralisation, concausa del dibattito aperto sulle funzioni delle Maisons de la Culture (p. 124). Tema ripreso in Le théâtre, la culture, les festivals, l’Europe, et l’euro (2010) e che segnalava un’Europa “inesistente”, dopo la parabola ascendente della cultura «esthétique et artistique de gauche» (p. 103). All’epoca della preminenza dell’idea “nazionale e popolare” del servizio pubblico, seguiva quella che lo concepiva “ricco e popolare”. 

L’archipel de la culture européenne (1999) è uno schema in sette punti e una conclusione, ancora dedicato all’ambito franco-tedesco. Quello che titola il libro si riallaccia alla Déclaration de Villeurbanne del 1968, testimonianza d’un dibattito che avrebbe dovuto programmare e guidare la svolta decisiva nella politica culturale del post Sessantotto. Lo studio parte dalla “topografia” iniziale della contestazione e investe l’operato di Jack Lang e dei successori ministeriali. Cresce allora la tensione polemica, quindi politica, nel denunciare le condizioni vissute dagli artisti rispetto alle istanze del potere. La peculiarità della Déclaration consentiva al critico di manifestare il suo radicalismo per una ortodossia marxista applicata all’Art théâtral, dichiarandosi «maoïste d’obédience althussérienne» (p. 140). A complemento, l’argomentazione sul successo della formula di Antoine Vitez (anni Ottanta) per un teatro élitaire pour tous, con appendice dedicata ai suoi equivoci e pericoli. Chacun pour soi dans les eaux tièdes du management européen (2009) registra gli sbalzi imposti dalla Storia al varco secolare, rispetto a condizionamenti più attuali della sensibilità e dei giudizi indotti nei fruitori d’arte. L’autore riconosce e afferma infatti la déréalisation delle guerre (citate a decine, parrebbero war games) secondo la proliferazione delle loro immagini diffuse, intanto che la «la géopolitique mondiale se recompose et le théâtre ne sait pas que penser» (p. 150). Ritiene Berlino la capitale culturale europea per la qualità della riflessione sulle opere maggiori. 

Ultimo e più lungo saggio, Essai pour élaborer un cadre permettant de penser l’histoire du théâtre contemporain (2010) insiste sul bisogno di inquadrare e confermare, in metodo e scopo, un bilancio che comprenda l’ultima attualità. Testi più corti e sintetici sono riuniti in Épilogue, tutti pregnanti di proposte e soprattutto di conferme di linee-guida già tentate. Con quale profondità di eco e d’intuizione, tocca anche al lettore scoprire. Un parcours fornisce la carriera personale, in tappe e titoli dell’Opera, sempre assiduamente immersa nella Storia attraversata e coraggiosamente interpretata.



di Gianni Poli


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