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Marco Martinelli

Drammi al presente. Salmagundi. Rumore di acque

A cura di Gerardo Guccini

Spoleto, Editoria & Spettacolo, 2020, 232 pp., euro 16,00
ISBN 978-88-320-6825-2

Vengono pubblicati, a distanza di un decennio dalla loro prima rappresentazione, due testi significativi nella drammaturgia di Marco Martinelli, autore e animatore del Teatro delle Albe di Ravenna. Documenti della maturazione di un pensiero artistico che, nella messa in scena della propria opera, riscontra una continua inadeguatezza di fronte alla mutevole condizione storica. Gerardo Guccini, curatore del volume, rileva gli slittamenti di senso e di intendimento che quelle pièces subiscono con il passare del tempo: «Una cosa è decifrare nel 2004 l’allegoria sociale di Salmagundi, tutta giocata sulle corrispondenze fra diffusione della stupidità e dilagare epidemico; un’altra è seguire oggi le demenziali strategie del potere politico-scientifico […] avendo sott’occhio comportamenti contraddittori nella gestione del virus» (p. 5). Lo studioso accompagna criticamente testi e spettacoli sia lungo il loro «processo compositivo» (ibid.), sia tentando una valutazione più generale di tutto il lavoro di Martinelli, poeta-guida di attori-interpreti a lui fedeli.

Diversi per linguaggio e significato, per struttura e scopi estetici, i due drammi riescono a mostrare l’identità riconoscibile dell’autore alle prese con temi cari e necessari alla propria espressione, nella dimensione personale e nel coinvolgimento del collettivo che con lui li rappresenta. Salmagundi è azione mimica, oltre che verbale e gestuale, in sintonia con una compagnia bene addestrata a improvvisare con originalità personale e di gruppo. Il copione raccoglie suggestioni surrealiste (dalle commedie di Roger Vitrac), oniriche visioni frequentate da fantasmi, impaginate come “numeri” di varietà, in sequenze grottesche e folli. Quale frutto della drammaturgia europea, presenta caratteri di tradizioni popolari e contadine. L’eco di Jarry dalla matrice di Ubu re si estende ai rapporti fra le classi sociali e ai ruoli famigliari in tante allusioni autarchicamente italiane. La narrazione è affidata più allo sviluppo scenico che agli enunciati dei personaggi, così da suscitare analogie sensibili con una realtà assente o “altra”.

L’effetto di sfasamento fra storia e fantasia è amplificato dalla distanza dell’attuale lettura rispetto al momento della concezione del testo. Se tale effetto è possibile coglierlo alla prima lettura anche da parte di chi non ha assistito allo spettacolo del 2004, meglio lo si verifica nell’Introduzione di Guccini, grazie alle sue «letture fluttuanti» lungo suasive argomentazioni. La pièce originaria descriveva con la metafora dell’epidemia un mutamento antropologico dovuto all’istupidimento dell’individuo sociale, diffuso da un male che mutava le viscere dei contagiati in un “salame cotto” (salmagundi, appunto, in dialetto). Così Guccini: «Nel 2004, l’aspetto più minaccioso dell’allegoria drammatica di Salmagundi consisteva nella sua funzione di annuncio. […] Ora, invece, non c’è alcun bisogno di dispositivi narrativi che collochino in un futuro immanente il compimento del senso allegorico: questo deflagra nel presente corrispondendo fin nei dettagli all’accadere dei fatti reali» (p. 18). Il pericolo della malattia, insomma, denuncia oggi una «nuova normalità allineata al disvalore dell’alienazione consumistica» (p. 13). Il Coro inneggia difatti a una comoda, patriottica identità: «Salmagundi è il mio paese / e ci faccio tutte quante le mie spese» (p. 110).

La coppia Madre-Padre (presenze fantasmatiche, ma potenti) è coartefice dell’apoteosi del figlio Merletto, dopo che lo zio Gustavo ha sbandierato il portentoso contagio che lo ha sconvolto: «Ho il cuore come un salame cotto!» (p. 92), diffondendo la psicosi nell’intero paese. Inoltre sono crudamente illustrati (anche mediante i nomi dei personaggi) il godimento del popolo manipolato che delega il potere alla figura di marionetta di Merletto; o l’efficacia della comunicazione mistificante, che con gli slogans conquista il consenso. Sono così Spurgo e Pozzi Neri a imporre il ritorno della monarchia e a fare eleggere Merletto primo re di Salmagundi. La tragica illusione della guarigione dal virus, coincidente nel rinnovamento della nazione, chiude la rappresentazione della “favola patriottica”, nel genere riesumato e rigenerato dell’avanspettacolo.

Rumore di acque (2010) deriva da Cercatori di tracce, un lavoro su Sofocle avviato nel 2008 a Mazara del Vallo: per l’autore, «una specie di festa tunisina, con la danza del ventre e molto altro» (p. 133). Ma molto più vale per le immagini disturbanti e critiche contro l’acquiescenza dell’informazione sui migranti, vigente all’epoca dei fatti clamorosi. La riflessione drammatica attualizzata suppone altre reazioni e altri sentimenti rafforzati dall’emozione resa più intelligente, a distanza, sulla vicenda di tanti «ragazzi emigrati ancora con un piede in Tunisia e un piede in Sicilia» (p. 134). Il testo partiva dall’ipotesi di rappresentare un Gheddafi protagonista monologante, che poi veniva cambiato in un generale contabile addetto a censire gli innumerevoli naufraghi. La sua affabulazione attraversava i toni dell’accusa, della recriminazione, dell’invettiva e della narrazione. Già alla creazione del 2010, il generale era «ossessionato da quantità numeriche che non corrispondono a nulla se non all’evocazione di un’agghiacciante massa di morti innominati» (p. 9), in un delirio numerico tipico del travisamento e della rimozione della verità.

Si riafferma, dunque, una drammaturgia della “maschera”, prodotto consapevolmente perseguito dal Teatro delle Albe, nella quale il sarcasmo recupera la lingua dei miserabili respinti nel silenzio mortale e ottiene sentimenti di feroce condanna attraverso una comicità senza scampo catartico. Il generale, sostituto immaginario del vero presidente, sta su un’isola e parla con pesci – «squali, pescecani, triglie e tonni e leviatani» (p. 191) – personificati, responsabili della strage che rende i morti irriconoscibili e nemmeno numerabili.

Recitato a New York (2014) e a Mons, dove nel 2015 un coro di ottanta cittadini evocava gli “spiriti” dei naufraghi, il testo s’addensa di compassione per il destino di chi «non ce l’ha fatta», come nel caso di Yusuf, «un ragazzino / pelle nera / Cosa vuoi che capiscano questi qua / Capiscono niente / Pelle nera / E vai a parlar loro di democrazia / Ridicolo» (p. 163). Contributi critici, di lettori e spettatori scelti, accompagnano i testi, a testimonianza puntuale della misura umana e artistica del fenomeno.  


di Gianni Poli


Drammi al presente. Salmagundi. Rumore di acque

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