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Jean-Louis Barrault

A cura di Vincenzo Mazza
Prefazione di Béatrice Picon-Vallin

Arles, Actes Sud-Papiers, 2020, 122 pp., euro 15,00
ISBN 978-2-330-13449-5

Come la cultura italiana, anche quella teatrale francese lamenta la perdita di memoria relativa alle figure più rappresentative della sua pur gloriosa, e celebrata, storia. Ma poi riaccende la sensibilità per l’opera ritenuta fondamentale di letterati e artisti caduti in oblio e riprende a studiarla nel ricordo ravvivato. Accade ora per Jean-Louis Barrault (1910-1994), attore e regista che, dopo la commemorazione puntuale del centenario dalla nascita, vede pubblicati note, pensieri e documenti prodotti in mezzo secolo di attività. La raccolta è preziosa soprattutto per le nuove generazioni di professionisti e amatori che possono recuperare, nei brani anche inediti proposti, il senso dello spirito visionario, oltre che estetico, del poliedrico artista. 

La materia trattata viene suddivisa in sei capitoli, corrispondenti ai temi tipici dell’autore. In sequenza non cronologica, le riflessioni teoriche, come le definizioni e le esperienze, richiedono qualche sforzo al lettore che voglia seguirle nell’evoluzione del pensiero e del lavoro artistico. Quasi un florilegio dei suoi passi autografi più significativi, però privati della continuità storica dell’avventura umana e creativa di Barrault. I titoli individuano importanti nuclei d’indagine, rispondenti a profonde esigenze del protagonista e possono insieme interessare sia gli specialisti, in cerca di novità negli inediti, sia i neofiti, desiderosi di scoprire l’essenza delle concezioni e del metodo di lavoro dell’artista, ormai lontani da gusti ed evidenze attuali.

Nella Préface, Béatrice Picon-Vallin riconosce quale merito dell’homme de théâtre la disposizione agli incontri e la sua curiosità inesauribile verso disparate occasioni di dialogo ed esperienze esterne al proprio ambiente: «Ce risque-tout sublime et insolent, ce cercheur infatigable, proche d’Artaud, cet ambassadeur de la scène française à l’étranger, ce citoyen du monde, cet esprit attentif à toutes les formes théâtrales qui dirigea (1966-1967) le second Théâtre des Nations – dont il voulait faire “un Cartel international du théâtre”» (p. 7).

La linea programmatica del curatore Vincenzo Mazza si orienta all’ultima importante mostra dedicata allo stesso soggetto, Les théâtres de Jean-Louis Barrault, un périple parisien, coordinata nel 2011 da Noëlle Giret al Pavillon de l’Arsenal di Parigi. In quella documentazione, organizzata con assidua dedizione dalla conservatrice, Mazza nota la peculiarità dell’accoglienza della drammaturgia femminile in repertorio e l’ammirazione per il e il butoh. Nei documenti noti, ma da rivalutare, segnala ad esempio il cahier de mise en scène di Phèdre di Racine (1946), analisi dell’organizzazione preventiva del lavoro registico, sul modello, non scontato, dei Maestri del Cartel (che in altre pagine Barrault giudica con una certa severità). Poi gli appunti sullo studio del mimo, condotto in collaborazione con Étienne Decroux, chiariscono le differenze all’origine dell’incomprensione che causò la fine dell’esperienza comune. Momento di acquisizioni sulla corporeità, permanenti nell’arte dell’attore, applicate per la prima volta nella creazione di Autour d’une mère (1935), spettacolo tratto dal racconto As I lay dying di Faulkner che la memoria critica autobiografica del regista richiamerà fino a mitizzarlo. Il “programma” dello spettacolo risiede in La forme du mimodrame (1935): «C’est en artisan que j’ai travaillé ce sujet. J’ai cherché toujours à eviter l’esthétisme et l’intellectualisme. J’ai fait ce spectacle absolument comme je respirais, comme un primitif» (pp. 36-37). Intervengono anche criteri di scelta estetici, nella consapevolezza di dover comporre un repertorio inteso come un arc-en-ciel, costituito da opere dagli estremi opposti: «L’art dramatique s’étend entre ces deux cas limite. Geste pur - Verbe pur» (p. 46): schema comprensivo degli allestimenti che dalla drammatizzazione di Faulkner giungono a Partage de midi di Claudel (1948).

Altro inedito s’incontra in L’art du théâtre (1945), conferma categorica di una idea: «L’art du théâtre est un art autonome. Il n’a de commun avec les autres arts que la poésie» (p. 35). Gli scambi epistolari con lo storico Léon Chancerel sulla creazione registica, a partire da Phèdre, rivelano le ricerche documentarie, la lettura a tavolino, la motivazione degli attori nei ruoli e le ipotesi interpretative capaci di influenzare la distribuzione. Fino alla partecipazione responsabile in scena, che tutti coinvolge: «Nous ne faison qu’un seul camp. Je me tiens très souvent derrière, tout contre mes camarades et par osmose je les aide à accrocher. Je l’épouse» (p. 53). Una lettera analoga riguarda Soulier de satin (p. 89-90). Sulla concezione del théâtre total (o complet) ritornano brani significativi originati da Le Livre de Christophe Colomb, di Claudel. Concert pour l’homme (1949) progetta l’uso dell’uomo come strumento espressivo, secondo un’analogia musicale. Più volte torna problematica la collocazione della figura umana nello spazio, mentre si afferma la facoltà per cui l’attore è in grado di evocare tutto attraverso l’immaginazione, contando sull’interscambiabilità dell’oggetto scenico e dell’attore. Nouvelle définition de théâtre total (1970) precisa come non si tratti della coincidenza delle arti, ma dell’utilizzazione integrale «des moyens d’expréssion de l’Être humain» (p. 66).

La tendenza che Mazza definisce «l’exaltation de l’éphémère» (p. 22) potrebbe forse sintetizzarsi nell’idea di “teatro totale” come “eclettismo radicale”, per significare la pluralità di apporti ideali e direttrici operative costituenti la tresse (treccia) mai definitiva di occasioni e verifiche, sorte da esigenze d’una vocazione assoluta. Per l’urgenza di fondere il mimo puro nella miscela eterogenea di poesia drammatica, corporeità e tensione ascetica, il dosaggio perfetto pareva irraggiungibile. Il curatore inoltre riconosce centrale il rapporto (a distanza) fra Barrault e Vilar, in un secondo Novecento effettivamente caratterizzato da componenti a contrasto fecondo.

Altrettanto chiaro il rilievo dato al saggio comparativo nel quale Barrault valuta Stanislavskij e Brecht alla luce della propria concezione: «La méthode Stanislavski est séduisante, mais un peu trop illusoire. Celle de Bertolt Brecht renferme hélas! quelques vérités, mais elle n’est pas gaie! Heureusement nous croyons autre chose» (p. 81), convinto del fatto che l’essenza del teatro sia “erotica”. Perciò insiste sui moventi irrinunciabili che guidano l’artista a esprimersi, per rendere conto d’un atto d’amore comparabile all’atto sessuale, nato e mosso dal desiderio. «Le phénomène unique qu’est la représentation théâtrale, est essentiellement la recréation artificielle de l’Acte. Entre la scène et la salle, entre la troupe et le public, il se passe un Acte, dont le symbole même est l’acte sexuel» (p. 80).

Si misura insomma il vitalismo d’una singolare figura d’umanista “atletico”, forse accostabile per la scrittura ad Antoine Vitez e per l’esuberanza a Vittorio Gassmann. Presi seriamente – come furono emessi – certi ammonimenti e certe affermazioni implicherebbero una responsabilità rara, un impegno a una riforma tanto radicale da spaventare l’odierno attore, quello che non soltanto in Italia è dato di vedere all’opera in palcoscenico. 

di Gianni Poli


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