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Théâtre musical (XXe et XXIe siècles). Formes et représentations politiques

A cura di Muriel Plana, Nathalie Vincent-Arnaud, Ludovic Florin, Frédéric Sounac

Besançon, Presses Universitaires de Franche-Comté, 2019, 228 pp., euro 15,00
ISBN ISBN 978-2-84867-664-7

Nello studio delle relazioni fra teatro e musica e, più in generale ormai, fra le arti dello spettacolo e la musica, si inserisce il volume collettivo dell’IRPALL (Institut de Recherche Pluridisciplinaire en Arts, Lettres et Langues dell’Università di Tolosa) dedicato a un largo campione di casi significativi, dal primo Novecento a oggi. Le diverse manifestazioni del teatro musicale vengono qui indagate e definite nei loro aspetti politici oltre che estetici. I curatori rinviano ad alcune probanti ricerche (fra cui quelle del convegno La Relation musique-théâtre, du désir au modèle, 2007) e accolgono in quest’opera nuovi collaboratori per ampliare l’interdisciplinarità dei risultati. Una delle ambizioni dichiarate è quella di verificare l’ipotesi per cui «le théâtre musical, dans la mesure où les deux pôles qui le constituent ne s’instrumentalisent pas mutuellement et ne s’abolissent pas l’un dans l’autre», ammettendo dunque «un dialogisme intrinsèque qui le rend “naturellement” politique» (p. 14). E inoltre, il Teatro Musicale è sempre, per sua natura, “sperimentale” e si manifesta quindi come utopia, come «une exigence, une conception, presque une abstraction ou image, que sa politicité, si transitoire soit-elle, transforme en possibilité» (p. 17).

La décision (La linea di condotta), il lehrestück di Hans Eisler e Bertolt Brecht, è l’oggetto studiato da Karine Saroh per puntualizzare le caratteristiche della musique gestuelle in rapporto alla concezione di Kurt Weill sulla sua funzione narrativa al presente (p. 21). Sono così individuati gli effetti della performance attesa, mediante l’accurata verifica degli intenti e degli strumenti adottati dagli artisti tedeschi: con l’analisi musicologica, spinta ai dettagli tecnici, della partitura raffrontata al testo, si svela l’obiettivo di «changer la réalité» (p. 26). Nello stabilire i parametri capaci di accertare la “politicità”, oltre che la teatralità, delle opere, si sottolineano l’efficacia della collaborazione fra gli artisti, attraverso criteri di peculiarità formali in grado di misurare gli effetti di ricezione e di orientamento ideologico nel pubblico. Gli autori, «ne se contentent pas de véiculer une idée militante mais la problématisent […]. Leur objectif sembre être celui de donner du pouvoir aux spectateurs, mais aussi aux acteurs» e pervengono alla convinzione che «la musique peut contrédire le théâtre» (p. 34).

Un paesaggio più insolito è ricostruito da Pierre Longuenesse, seguendo la storia della scena sperimentale europea, dagli anni Venti ai Quaranta. Fra gli spettacoli-chiave del periodo, lo studioso analizza l’allestimento del balletto The Dance of Death (1934), opera degli inglesi Wystan H. Auden (soggetto poetico), Herbert Murril (musica) e Rupert Doone (coreografia), presso il Groupe Theatre. Le vaste implicazioni comprendono il lavoro di Jacques Copeau e Michel St.-Denis, di Benjamin Britten e la lezione dei Ballets Russes. Le connessioni estetiche e operative mostrano la rete di rispondenze che interessano anche l’Italia, nel momento in cui è molto fervida, pure nell’autarchia, la creatività di autori quali Dallapiccola, Casella, Petrassi e Malipiero, ed è in atto la fondazione della regia teatrale. Dato qui trascurato per volgere l’attenzione ad autori francesi, quali Cocteau, Satie, il Gruppo dei Sei e a loro creazioni, quali Parade e Les mariés de la Tour Eiffel. Pertanto il poème théâtral concepito da Auden conferma l’originalità d’una forma la cui «importance ne fait que témoigner d’une utopie de conciliation entre le lyrisme et le discours critique, en même temps que d’une liberté accordée au dialogue inter-artistique» (pp. 55-56).

L’arte italiana è poi recuperata nel discorso di Stefan Keym De l’opéra abstrait à la forme mobile. Il campione è Bruno Maderna, autore di Le Satyricon (1973), posto a confronto con Abstrakte oper Nr. 1 (1953) del tedesco Boris Blacher su testo di Werner Egk. Il saggio, basato sulla valutazione delle partiture, descrive così il fenomeno: «l’opéra abstrait pousse à l’extrème une tendance générale denommée Musikalisierung (“musicalisation“) du théâtre au XX siècle […] tendence accompagnée d’une théâtralisation de la musique» (p. 60). Ancora d’un italiano tratta il contributo di Karine Saroh (De l’utopie esthétique à l’utopie politique: le théâtre musical de Luigi Nono), che documenta con equilibrio la simpatia del giovane Nono per l’ideologia della lotta armata. Molto interessanti le osservazioni sulle virtù stilistiche orientate agli scopi politici e il riscontro della coincidenza notevole della prassi del compositore con la tesi della “relazione dialogica” sviluppata da Muriel Plana (p. 107). La scelta dell’opera emblematica cade su Al gran sole carico d’amore (1975), sintesi culminante dello sperimentalismo engagé dell’artista e della sua epoca, esempio di collaborazione fra il musicista (anche librettista, con Ljubimov), lo scenografo (Borovski) e il direttore musicale (Claudio Abbado).

Un parallelo fra Aperghis e Stockhausen è poi condotto da Olivier Class. Prese a modello le composizioni Machinations, Avis de tempête di Aperghis e Mardi de lumière di Stockhausen, lo studioso mostra «comment la technologie est transformée en personnage» (p. 120). Il lavoro sul materiale vocale è al centro della ricerca di Dieter Schnebel, autore di Maulwerke (1974), opera latrice di principi contestatori dell’ordine vocale costituito e di tecniche intese a “desacralizzare la voce”, secondo Jean-Michel Court. Effetto della Scuola di Darmstadt, che rese possibili proposte e vie finora impensabili, compresa l’ipervalutazione artistica non dell’opera in sé, ma del processo creativo ed esecutivo nel suo insieme.

L’opposizione al potere politico da parte di artisti impegnati è testimoniata in Le théâtre musical politique chilien, rapporto di Paula Espinoza su condizioni mai indagate. Nella produzione cilena del tempo, caratterizzata da una forma ibrida, arricchita dall’apporto d’una forte tradizione folkloristica, lo statuto sociopolitico dei protagonisti si configura soprattutto nell’impegno di “resistenza” alla dittatura. Una ulteriore “novità” è colta da Pierre Longuenesse nelle trasformazioni drammaturgiche concernenti testo, teatralità e performance, riscontrate in due spettacoli allestiti da Simon MacBurney – Shun Kin (2010) e Le Maître et Marguerite (2012) – e in Le dieu Bonheur (2015) di Alexis Forestier.

Più specialistico il contributo sull’uso della lingua dei segni nel quale Lucie Lataste illustra le situazioni affrontate, rese paradossali dalla condizione psicofisica dei protagonisti coinvolti nel difficile scambio educativo e comunicativo mediante il teatro. Nella riflessione finale Muriel Plana offre un sunto di studi e concetti aggiornati: una sorta di rassegna critica e di bibliografia ragionata, con riprese degli ulteriori tentativi di definizione in corso. Rivalutato in prospettiva «l’exemple fondateur du Théâtre musical de Brecht et de Weill» (p. 206), la studiosa approda (considerando anche il passaggio dalla musica di scena al teatro musicale) alla nozione a lei cara di théâtre musical dialogique e ribadisce: «Pour qu’il y ait un théâtre musical aujourd’hui, nous devrons retrouver le dialogisme au sens bakhtinien […]. Qu’est-ce qu’une relation dialogique? J’ai déjà suggeré qu’elle impliquait autonomie des arts dans la relation, égalité des arts dans le relation et effectivité de la relation» (p. 211). Esigenza ambiziosa e utopica, difficile da verificare e da realizzare, per le future generazioni di teatranti e di auspicati “nuovi” spettatori. Elementi bibliografici essenziali integrano le ampie referenze e citazioni del volume.


di Gianni Poli


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