Leditore Pacini Fazzi pubblica, nella “Collana di studi e testi rinascimentali” diretta da Lina Bolzoni, La Rosa di Giulio Cesare Cortese (1621) nelledizione critica a cura di un giovane studioso, Andrea Lazzarini, che ha dedicato gran parte della sua ricerca alla letteratura italiana del Cinque e Seicento. Lopera di Cortese, lintellettuale napoletano dalla biografia finora misteriosa (nellultimo numero della rivista «Studi Secenteschi» un contributo di Vincenzo Palmisciano getta nuova luce sulle vicende biografiche dellautore) oggetto dellattenzione di grandi intellettuali del passato, da Benedetto Croce a Giorgio Fulco, aveva appunto bisogno di una “rispolverata”, tanto più alla luce delle recenti edizioni di altre opere dello stesso periodo (cito, tra tutte, ledizione del Pentamerone di Giambattista Basile a cura di C. Stromboli, Roma, Salerno Editrice, 2013) e delle nuove acquisizioni in materia di autori coevi e – visto che di un testo teatrale si tratta – di attori in ambito partenopeo (si pensi a T. Megale, Tra mare e terra, Roma, Bulzoni, 2017). Si era infatti fermi alledizione critica e traduzione di Enrico Malato, datata 1967, nellimponente veste in due volumi che metteva insieme le Opere poetichedel Cortese e che riportava in appendice anche La tiorba a tacconefirmata da Filippo Sgruttendio, allepoca della pubblicazione riconosciuto, dopo un acceso dibattito, come pseudonimo del Cortese stesso. La Rosa, unica opera dichiaratamente teatrale di Cortese, fu pubblicata per la prima volta nel 1621 allinterno di una raccolta di componimenti già editi dello stesso autore. Disdegnata dalla critica successiva (si veda ad esempio il giudizio negativo di Croce, che nellIntroduzione alledizione del Cunto de li Cunti, 1891, scrive che il Cortese qui «ha i peggiori difetti dei seicentisti», p. LXXIV), fu sicuramente apprezzata dai contemporanei, come testimoniato dalle numerose ristampe. La Rosa è il primo dramma scritto integralmente in dialetto napoletano, distinguendosi in questa scelta dalluso codificato del plurilinguismo e in linea con la poetica cortesiana di riflessione e applicazione letteraria del napoletano. La trama, che consiste in un gioco di travestimenti, equivoci e riconoscimenti finali, è piuttosto tipica, ma bastano le invenzioni linguistiche dellautore a dare al testo una sottile comicità, volgare ma colta. Ledizione di Lazzarini antepone al testo unutilissima introduzione, un vero e proprio saggio che mette ordine negli studi sullo scrittore napoletano, evidenziando alcune caratteristiche fondamentali della sua vicenda artistica. La Rosa offre una prospettiva privilegiata di studio sui rapporti stretti di Cortese con il teatro. Lautore, infatti, attraversa tanto il campo letterario quanto quello teatrale: sono attestati i suoi rapporti con il comico Bartolomeo Zito, che scrisse un testo in difesa del poema eroicomico cortesiano La Vaiasseide (1612) e con alcuni impresari teatrali napoletani. Lazzarini analizza le caratteristiche linguistiche del testo seicentesco e, nel paragrafo in cui elenca fonti e modelli dellopera, traccia unipotetica biblioteca dellautore, nella quale le molteplici influenze dei testi più noti dellepoca, nellambito pastorale e comico, portano allinvenzione di unopera che, già dal titolo, vuole distaccarsi da quelle esistenti. Cortese definisce nel titolo La Rosa come «chélleta posellepesca, che no toscanese decerria “favola boschereccia” o “pastorale”», ascrivendola alla favola boschereccia ma di marca spiccatamente napoletana, essendo ambientata a Posillipo. Rinunciando alla comune dizione di “favola” preferisce quella di “chélleta” ossia “cosa”, termine sicuramente più indefinito che, come spiega lo studioso, è uno scherzoso corrispettivo che esaspera il senso comico del “non detto”. Lazzarini individua alcune provenienze linguistiche e topoi utilizzati nel Pastor Fido (1590), la nota pastorale di Giovan Battista Guarini, ripresa da Cortese in chiave parodica. Inoltre si precisa la derivazione già individuata dalla Cintia di Carlo Noci (1594) con incontestabili raffronti linguistici provenienti dalla versione della stessa ad opera di Giovan Battista Della Porta. Più arditi invece, a mio avviso, i collegamenti con il Marescalco di Pietro Aretino (1533). La puntuale analisi linguistica dellopera cortesiana ne mette in risalto la componente comica e spesso allusiva del linguaggio, che viene messo in relazione con quello utilizzato dai Comici dellArte, sia quando si esaspera la lirica amorosa fino al caricaturale, sia quando le allusioni erotiche sottintendono una (poco) velata volontà comica. Fondamentale, infine, il passaggio dedicato al rapporto tra Cortese e Basile. Si rende dunque giustizia allopera del primo che, sicuramente, ha influenzato lo stile dellamico e collega, come quello di molti autori coevi e immediatamente successivi (estimatore del poeta partenopeo, ad esempio, anche Andrea Perrucci). Il volume registra anche una doverosa nota al testo, frutto di un accurato lavoro di collazione delle diverse edizioni, che comprende unesauriente descrizione degli esemplari a stampa utile allo studioso. La specifica sui criteri di edizione spiega le scelte di trascrizione e traduzione. Lazzarini compone unedizione del testo cortesiano raffrontando i versi in lingua e corredandoli con un efficace apparato di note che si soffermano su significati e scelte linguistiche, ponendo a confronto usi e stile di Cortese con quello di altri autori. Con cura filologica, si tratta la magmatica lingua dello scrittore napoletano con laiuto dei principali vocabolari e delle traduzioni di testi cronologicamente vicini. Loperazione rende universalmente fruibile un testo altrimenti di difficile comprensione. Messo ordine filologico e linguistico, alla contestualizzazione precisa e puntuale del dramma manca solo la risposta a un interrogativo che Lazzarini lascia giustamente aperto per insufficienza di prove documentarie (ma che chi si occupa della materia non può che porsi): chissà se La Rosa cortesiana, con le sue ardite invenzioni linguistiche e, parimenti, con la sua trama un po scontata, è mai stata davvero messa in scena, o piuttosto è rimasta un puro gioco intellettuale e linguistico di uno dei più grandi autori del Seicento napoletano.
di Antonia Liberto
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