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Technology and the Diva: Sopranos, Opera, and Media from Romanticism to the Digital Age

A cura di Karen Henson

Cambridge, Cambridge University Press, 2016, 226 pp., £ 67.99
ISBN 978-0-521-19806-6

Dive, miti e tecnologie sono i tre termini di un discorso sulla storia dell’opera che la musicologia affronta con interesse crescente da vent’anni a questa parte. La silloge curata da Karen Henson cerca di tirarne le somme, e di gettare ponti laddove pratiche correnti, quali l’amplificazione in teatro, portano linfa nuova al dibattito, e sostenitori e detrattori continuano (grazie al cielo) a stracciarsi infuriati le vesti. L’ordine dei contributi all’interno del volume è dettato dalla successione cronologica degli argomenti trattati, dai primi decenni dell’Ottocento ai vagiti del XXI secolo. Qui si procederà ad analizzarli in modo diverso, enucleando e seguendo alcune linee essenziali del discorso.

Isabelle Moindrot studia la presenza della figura della diva nella produzione teatrale francese del XIX secolo. L’analisi si concentra sulla parola stampata come medium per la costruzione di immaginari culturali. La studiosa sottolinea come la diva – dai personaggi di Hugo, Scribe, Legouvé e Sardou alle “dive al quadrato” nelle opere di Puccini, Offenbach e Leoncavallo – si faccia metafora del teatro stesso, rappresentandone la ricerca di uno spazio all’interno delle società industrializzate. Con un balzo cronologico ai nostri giorni, in chiusura di volume Clemens Risi discute la “divinizzazione” di Anna Netrebko. Seguendo l’approccio fenomenologico e “auto-etnografico” che informa la sue più recenti riflessioni, Risi sottolinea l’importanza dei media visivi e di logiche promozionali mutuate dal mondo del pop nella costruzione dello status di star per il soprano russo. Il confronto con Edita Gruberová, infine, permette di identificare i meccanismi fondamentali sottesi al divismo lirico, e di determinare come essi siano per lo più slegati dalla dimensione dell’atto performativo live

In tal senso, il contributo di Risi getta retrospettivamente luce sull’intero volume, consentendo di classificare gli altri saggi secondo tre macro-temi. Il primo è quello della voce e del canto come forma di tecnologia, intesa a includere sia i significati base di strumento (tool) e mestiere (craft), sia le tecnologie del sé di derivazione foucaltiana. Sean Parr si occupa di scene di follia, esaminando i casi di Catherine in L' Étoile du Nord (1854) e di Dinorah in Le Pardon de Ploërmel (1859), entrambi opéra comique di Giacomo Mayerbeer. Nella Parigi del Secondo Impero la coloratura diviene, da virtuosismo proprio dell’opera seria italiana, mezzo prescelto per la rappresentazione estremizzata della follia femminile. Interessante poi il legame con le coeve riflessioni sugli stati alterati di coscienza, condotte, ad esempio, nel parigino Hospice de la Salpêtrière: Parr dimostra come tali esperienze trovassero un parziale riscontro sul palcoscenico, dove tuttavia illuminotecnica e recitazione conferivano alla follia tratti di grazia stilizzata. Arman Schwartz discute la complessa allure divistica di Cathy Berberian, basata su una «strategy of fanatical embrace» di ideali specifici (p. 126). In particolare, lo studioso esamina le possibilità vocali offerte da alcune pagine centrali della carriera della cantante: da Aria di John Cage (1959) a Stripsody, che il soprano compose negli anni dell’allontanamento dal marito Luciano Berio e che marca una sorta di divorzio dal mondo delle avanguardie europee.

Il secondo macro-tema è quello della “visione”: del vedere la diva e dei media che le permettono di “mostrarsi” e di “esser mostrata”. Karen Henson indaga il rapporto tra Jules Massenet e il soprano Sibyl Sanderson: dopo averla formata per il ruolo eponimo di Manon, il compositore scrisse per lei le parti di Esclarmonde (1888) e Thaïs (1894), lasciando inoltre una messe documentaria di ampiezza inconsueta. Nel suo contributo, Henson cerca di stabilire un legame metaforico tra la “sinuosità” delle acutissime linee vocali pensate per Sanderson, l’importanza (esacerbata) della componente visiva nel repertorio operistico francese e la progressiva familiarizzazione della cantante con gli stilemi erotizzanti della fotografia pubblicitaria di fine secolo. Il ricorso al motivo ovidiano di Galatea è suggestivo, ma fragile: la studiosa non azzarda più che ulteriori domande che vanno ad aggiungersi al cosiddetto “problema Massenet”. Dalla fotografia all’immagine in movimento: Heather Hadlock lavora su Meeting Venus, film del regista ungherese István Szabó (1991), che ha per soggetto una produzione di Tannhäuser alla fantomatica Opéra Europa. Hadlock analizza separatamente i tre livelli di rimediazione co-presenti nel film: la visione di una performance live (attraverso riprese “dalla platea”); quella di una performance televisiva (attraverso shot dello spettacolo “su monitor”); quella, infine, cinematografica (ossia il livello dello spettatore del film). Le strategie di montaggio di Szabó sottolineano la dimensione iconica del volto della protagonista, impersonata da Glenn Close, e costruiscono la sua dimensione di diva a prescindere dalla performance vocale e, più in generale, dall’atto performativo stesso.

Infine, con l’epiteto “assenze” si potrebbe definire al meglio il terzo macro-tema, che intreccia i precedenti e ne sublima alcuni problemi ermeneutici. Corpi da vedere senza poterne ascoltare la voce: è il caso della Carmen di Cecil DeMille, film muto del 1915 che attirò non pochi sguardi severi di censore prima di apparire nelle sale statunitensi. Il paradigma degli studi in materia è quello dei “fantasmi”, delle “lost voices” (M. Grover-Friedlander, Vocal Apparitions: The Attraction of Cinema to Opera, Princeton, Princeton University Press, 2005). Nel suo lavoro sul film di DeMille, invece, Melina Esse insiste sulla “presenza”: la studiosa mostra come la dimensione live fosse pienamente recuperata tramite sonorizzazioni multiformi (dalle musiche di Bizet riarrangiate da Hugo Riesenfeld, agli applausi “come se a scena aperta” degli astanti); soprattutto, identifica nell’assenza della voce di Geraldine Farrar, diva ingaggiata per interpretare la sigaraia, il miglior carburante per magnificarne la presenza fisica. Secondo caso: voci che per essere ascoltate non hanno bisogno di un corpo che le produca (almeno, non “qui e ora”). Lydia Goehr costruisce una storia operistica del medium telefonico, partendo da Wagner fino ad arrivare ai celebri titoli di Gian Carlo Menotti (The Telephone, or L'Amour à trois, 1947) e Francis Poulenc (La voix humaine, 1958). In definitiva, Goehr mostra come le tecnologie di riproduzione e trasmissione del suono abbiano trasformato l’opera, seppure per una breve stagione compresa tra l’introduzione del microfono e l’avvento della televisione, in genere da consumare con le orecchie più che con gli occhi. 

Resta volutamente a parte il contributo di Susan Rutherford, dedicato ancora a Carmen ma con una prospettiva più ampia che include buona parte della storia esecutiva dell’opera, letta attraverso le storie di alcune interpreti di primo piano. La studiosa si muove nel delicato territorio tra produzione e ricezione, tra eventi-persone “reali” (l’inglese actual suonerebbe meglio) e loro mitologizzazioni. Laddove è facile che oggetti e rappresentazioni si confondano, Rutherford riesce a estrarre succhi saporiti e preziosi. Mi pare particolarmente importante l’idea di un processo di “divificazione” che abbia interessato il ruolo stesso di Carmen. Ampliando il discorso della studios, si po trebbe considerare il ruolo come tecnologia: esso è strumento (tool) tramite cui il cantante possa costruire la propria persona, servendosene per rappresentarsi; è poi oggetto di consumo da parte del pubblico secondo forme storicamente e socialmente determinate; infine, è soggetto capace di avere una vita, di “evolversi” proprio grazie alla sua natura di oggetto-strumento – o, per dirla in termini di antropologia dell’arte, grazie alla rete di agencies in cui è calato.

A scanso di qualche ridondanza, il volume offre una ricca messe di spunti, esplorando nuove strade e modalità di scrittura in equilibrio (riuscito) tra ricerca erudita e riflessione teorica. Il risultato più pregnante è un rovesciamento di prospettiva: se il punto di partenza è lo scetticismo tecnologico di Auguste Villiers de l’Isle-Adam nel suo L’Éve future (1886), al traguardo è chiaro come opera e tecnologia siano sostanzialmente inscindibili e, di contro, come la mitopoiesi della diva dipenda solo in parte dalla dimensione performativa live. Nel suo Afterword al volume, Jonathan Sterne afferma che «mediatic technologies form the diva’s conditions of possibility; or, to put it more simply, the history of opera is fundamentally intertwined with media history, as well as with the broader history of technology» (p. 159). Insomma: ai termini tradizionali “opera and technology” (coi suoi scherani “opera nei media” e “media nell’opera”), questo volume affianca l’idea di “opera as technology”, radicando negli studi di settore l’approccio “sociale” alla storia della tecnologia sviluppato da Donald MacKenzie, Wiebe Bijker e altri a partire dagli anni ’80 dello scorso secolo.


di Daniele Palma


La copertina

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