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Andrea Valle

Contemporary Music Notation. Semiotic and Aesthetic Aspects


Lucca-Berlino, De Sono-Logos, 2018, 208 pp., 34,00 euro
ISBN 978-383-2544669

A quindici anni dalla pubblicazione originale, l’associazione De Sono propone, in collaborazione con l’editore berlinese Logos, la traduzione inglese di questo importante saggio di Andrea Valle. L’operazione si giustifica giacché l’avvento delle tecnologie digitali ha portato a un rinnovato interesse verso quest’area, rinvigorendo un dibattito che si dava per esaurito negli anni Ottanta del Novecento. L’autore ha deciso di non aggiornare l’opera e di mantenerla fedele in tutto all’edizione del 2003, con la speranza che possa fornire un contributo al dialogo attuale.

Il problema della notazione “esplode” fra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, arco cronologico su cui lo studioso si sofferma. Questo accade per ragioni tanto endogene quanto esogene. Da un lato sono infatti i cambiamenti nelle pratiche musicali a generare l’esigenza di ripensare il sistema notazionale in uso in Occidente da secoli: l’atonalità e l’inclusione di nuovi materiali musicali (ciò che prima era considerato “rumore”), le prassi compositive seriali e post-seriali, la diffusione di happening, improvvisazioni e performance aleatorie. Dall’altro lato si registra l’influenza di aree diverse della cultura coeva: la nuova visualità dell’arte informale e della pop art, lo sperimentalismo di Joyce e Mallarmé, le riflessioni dei filosofi sull’opera aperta e sull’atto della scrittura.

La metodologia che Valle adotta per indagare questi fenomeni interseca semiotica (con particolare riferimento agli insegnamenti di Charles Sanders Peirce) ed estetica (in special modo l’icnologia di Maurizio Ferraris). La notazione è vista anzitutto come “segno”, nella sua dimensione iconica, indessicale e simbolica: racchiudendo sinteticamente un sistema di conoscenza, si definisce in special modo come dispositivo mnemonico che incorpora “memoria” e “progetto”, sintesi del tempo e strumento per l’azione. Non si tratta dunque, semplicisticamente, di una trascrizione di suoni: musica e scrittura vanno considerate nei loro rapporti intersemiotici, come sistemi che intrattengono relazioni non trasparenti. Questo non vuol dire tralasciare la dimensione storica, che al contrario è sempre presente nella trattazione.

Da questa prospettiva si riflette sul proliferare a partire dagli anni Cinquanta di partiture “non convenzionali”, caratterizzate da una concezione geroglifica (non-linguistica) piuttosto che alfabetica (linguistica). Questa propensione si rivela in tre aspetti: predilezione verso una spazialità scenica (il foglio non rappresenta un diagramma spazio-temporale, ma una “scena” su cui i segni vengono disposti); eterogeneità (accanto ai segni convenzionali si introducono parole, numeri, figure di ogni genere); gestualità (i segni usati suggeriscono azioni sonore). Il risultato è una tendenza verso l’oggettualità: le partiture diventano manufatti, si fanno simili a “oggetti visivi” (p. 52).

Alla distinzione fra notazione geroglifica e alfabetica corrisponde quella fra linearità e simultaneità nella rappresentazione del tempo. In questo orizzonte si muove l’indagine su partiture che, insistendo sulla dimensione spaziale della notazione, mettono in discussione i limiti della tradizione occidentale riguardo a tempo e ritmo. La musica del ventesimo secolo, muovendo verso una sempre maggiore complessità metro-ritmica, finisce per stravolgere la scrittura convenzionale di questi parametri, basata su linearità e regolarità. Questo aspetto può manifestarsi nella ricerca di una rappresentazione fluida del tempo, che possa accogliere gli eventi musicali così come si manifestano, senza imbrigliarli nella griglia precostituita della misura; oppure nell’adozione di un ordinamento di base (come la serie) che contraddice la linearità del tempo e dà luogo a partiture “spazializzate”; oppure in un indebolimento delle categorie di “inizio” e “fine” dell’opera che genera scritture circolari, labirintiche, mobili, topografiche.

Allo stesso tempo, con Lotman, si registra in alcune esperienze il passaggio da una concezione della notazione come sistema di regole a sistema di testi, ovvero da meccanismo grammaticale a meccanismo testuale. In questi contesti la scrittura musicale non è più considerata come il risultato dell’applicazione di una procedura, ma si organizza piuttosto sulla base di modelli testuali eterogenei. In ogni caso, nelle partiture si diffondono operazioni di extracodifica, nelle due possibili declinazioni dell’ipocodifica (più frequente nei sistemi testuali) e dell’ipercodifica (più frequente nei sistemi grammaticali). Questa tendenza investe in special modo tre aree: la definizione diastematica delle altezze, la notazione ritmica e la pertinentizzazione degli aspetti timbrici e performativi.

Alcune pratiche mettono in evidenza e portano all’estremo una caratteristica specifica della notazione occidentale: il suo essere un sistema grafico di scrittura. Come tale, la notazione musicale eredita il valore testamentario che all’opera scritta è attribuito dalla cultura romantica: sorpassando la funzione documentaria, la partitura non è più rappresentazione dell’opera, ma la costituisce nella sua totalità. Questa idea trova la sua incarnazione più estrema in partiture ermetiche che sono programmaticamente indecifrabili. Si danno così due opposte visioni della notazione: a una concezione ontologica, che la vede come entità statica garante dell’opera, Valle oppone una concezione gnoseologica, che ne sottolinea gli aspetti dinamici e operativi propri di un dispositivo mnemotecnico.


di Giulia Sarno


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