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Dalla genesi delle opere alla ricezione nel film

A cura di Virgilio Bernardoni e Peter Ross
Studi Pucciniani, vol. 5

Firenze, Olschki, 2018, 290 pp., euro 30,00
ISBN 9788822265722

Un convegno internazionale sul musicista lucchese dell’ormai lontano 2008, anniversario dei centocinquant’anni dalla nascita, fornisce i materiali per questo “Quaderno” edito dal Centro Studi Giacomo Puccini. Quattro autonome sezioni raccolgono le relazioni dedicate ad aspetti musicali, drammaturgici e biografici di Giacomo Puccini. A destare maggiore curiosità sono i rapporti dell’opera pucciniana con il cinema, cui il musicista si rivolse quale musa nascente e seducente.

Le linee d’interesse di questo volume riguardano la «tradizione editoriale delle partiture, gli influssi reciproci tra opera e cinema» (p. 5). Confessando «il desiderio di scoprire “che cosa è quella cosa che Puccini chiama cosa”» (Traiettorie della poetica, p. 10), Francesco Cesari tenta un censimento e una classificazione dei tipi di richieste, indefinite eppure assillanti, che il compositore rivolge usualmente ai suoi librettisti. Ne emerge una ricerca della perfezione estetica insistita e ansiosa, sospesa fra la casualità e l’emozione, nel susseguirsi di divieti e prescrizioni rivolti a tutti i collaboratori. «L’eccesso di letterarietà e, più in generale, di parole, è il difetto dal quale, con maggiore insistenza, Puccini mette in guardia i suoi poeti» (p. 12), con ridondanti indicazioni affidate a termini vaghi quali “logica”, “originalità”, “teatralità”. Spesso il musicista sollecita risposte e soluzioni spinto da intuizioni visive, ambientazioni spaziali, presupposti d’un processo di fecondazione della musica da parte del libretto e viceversa. Esigenze che Cesari riferisce al momento particolare dell’avvento del teatro di regia in Italia, quando ritiene che il musicista sappia ritrovare l’equilibrio nella realtà della «praticità scenica», come gli riesce nell’invenzione della «finestraccia» (o «gran finestrone», p. 30) dietro la quale s’affaccerà Turandot.

Marco Beghelli (Puccini parla dei colleghi) analizza le “risposte” del maestro lucchese “intervistatore di sé stesso”. I giudizi sui colleghi, tratti dalla sua corrispondenza, sono spontanei e incensurati, sinceri fino alla maleducazione, giustificati da tensioni e rivalità quasi da tifoseria sportiva. Critica e autocritica caratterizzano il panorama delle sue vaste attenzioni e delle sue frequentazioni (grazie ai viaggi intrapresi per assistere alle novità dei colleghi, in Italia e all’estero). Puccini si mostra «severo con gli italiani, rispettoso con gli stranieri» (p. 37). I suoi bersagli comprendono Franchetti, Zandonai, Pizzetti, Dallapiccola, Mascagni, Leoncavallo; fra gli europei più famosi: Schönberg, Stravinskij, Debussy, Ravel, Strauss.

Linda B. Fairtile dedica un contributo in inglese alle numerose modifiche operate da Puccini su Edgar, in particolare alle ripetute revisioni dell’atto secondo oggetto delle maggiori perplessità sia da parte del musicista sia dei critici. La storia dell’opera giovanile (tratta da La Coupe et les lèvres di Alfred de Musset), che debuttò nel 1889, mostra il passaggio dai quattro ai tre atti e documenta i vari interventi, insoddisfacenti, sull’Inno “fiammingo” (atto secondo) fino alla versione del 1905. Ragioni drammaturgiche (che coinvolgono il librettista Ferdinando Fontana) e musicali s’inseguono nella ricerca d’una funzionalità sempre appena approssimata, tant’è che l’esecuzione a Buenos Aires dell’ultima versione (1905) venne dall’autore definita una «minestra riscaldata» (p. 77). La Tavola riepilogativa delle fonti musicali (manoscritte e a stampa) dell’opera tanto tormentata (p. 62) riveste notevole interesse filologico.

L’analisi del libretto di Gianni Schicchi da parte di Emanuele D’Angelo (All’inferno per amore) mostra l’erudizione e l’aderenza del testo alla funzionalità dell’opera buffa in un atto. Ai passi tratti dalla Commedia dantesca si sommano altre fonti, tra cui Le Testament du Père Leleu di Roger Martin du Gard (1914) e, in un diffuso confronto, Le Légataire universel di Jean-François Regnard (1708). Giovacchino Forzano ne è il poeta-librettista, riconosciuto epigono di Boito qui distintosi per l’uso dei “toscanismi” in funzione comica. L’analisi testuale, stilistica e metrica è condotta col metodo statistico. Del librettista si sottolinea la competenza registica evidenziata nelle didascalie e l’originalità del “sorriso amaro” introdotto nella vicenda a lieto fine.

Alberto Bentoglio ricostruisce l’amicizia che legò Puccini al critico e letterato Renato Simoni, poi coautore di Turandot con Giuseppe Adami. Ricostruite le fitte frequentazioni artistiche milanesi, lo studioso si sofferma sulle conversazioni dei due corrispondenti, nelle quali la passione venatoria (testimoniata in poesie confidenziali) sembra superare l’interesse musicale.

Sulle didascalie di Turandot (assenti nel libretto e aggiunte in partitura) si concentra Peter Ross, sottolineando come Puccini faccia «prevalere il principio della drammaturgia della musica, che nella Turandot agisce in misura maggiore rispetto alle opere precedenti» (p. 123).

Nelle Prospettive critiche, Marco Capra informa su giudizi e pregiudizi della critica pucciniana. Tracciando un ampio panorama storico-critico, lo studioso coglie in certe modalità di approccio “giornalistico” e “musicologico” (p. 135) l’origine di un problema di interpretazione difficile e persistente, affrontato via via da Carlo Lorenzini (Collodi), da Luigi Torchi e Italo Carlo Falbo (1900), da Ildebrando Pizzetti (1911) fino all’intervento decisamente ostile di Fausto Torrefranca in Puccini e l’opera internazionale (Torino, Bocca, 1912). «Il richiamo così insistito alla matrice borghese di Puccini» conclude Capra «quale sostegno al giudizio in gran parte negativo sulla sua opera, doveva costituire la base della sua, seppur parziale, riabilitazione» (p. 139).

La sensibilità e l’apprezzamento dei musicisti tedeschi nei confronti di Puccini sono documentati da Anna Maria Morazzoni, che dà conto delle opinioni di Webern, Berg e Schönberg a partire dalle opere pucciniane presenti nelle loro biblioteche private. L’avversione di Adorno invece risulta subito evidente nella sua recensione di Turandot vista a Francoforte. La posizione dell’italiano nei confronti della cerchia dei “tedeschi” è chiarita nell’attestazione della sua «curiosità verso tutta la musica del suo tempo» (p. 156).

Adriana Guarnieri Corazzol riflette sui contatti fra melodramma e cinema. Le analogie del linguaggio pucciniano con la sintassi cinematografica sono riscontrate soprattutto in Manon Lescaut, oggetto di numerosi adattamenti filmici. La nozione di “fermo fotogramma” è adoperata dalla studiosa per individuare in vari brani della partitura le somiglianze fra i differenti linguaggi. Seguendo le “disposizioni sceniche Ricordi”, ossia i quaderni di regia allegati alle edizioni, la ricerca si estende a La Fanciulla del West. Trova anche giustificazione l’influenza su Butterfly della pièce teatrale omonima di David Belasco.

Tale tema ritorna in Le fortune cinematografiche di Manon Lescaut di Roberto Calabretto, contributo ricco di esempi di utilizzazione di musiche pucciniane e di applicazioni delle teorie sulla funzione della musica nel film muto. Vi sono ricostruite le modalità esecutive di brani musicali preesistenti da parte di solisti o di orchestra a ogni proiezione.

Marco Bellano, in Il maestro muto, s’impegna a inventariare e a misurare il “peso” dei frammenti d’opera pucciniani inseriti nel repertorio Allgemeines Handbuch der Filmmusik (1927) di Hans Erdmann, Giuseppe Becce e Ludvig Brav, il «più complesso sistema di catalogazione emotiva della musica per il cinema muto» (p. 235). In otto pagine è riassunto il contributo, computato e commentato, offerto dalla musica di Puccini alla sonorizzazione estemporanea del cinema.


di Gianni Poli


La copertina

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