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Jean-Marie Piemme

Accents toniques. Journal de théâtre (1973-2017)

Avec une Préface de Stanislas Nordey

Bruxelles, Alternatives théâtrales, 2017, pp. 440, euro 12,00
ISBN 978287428-10-68

Inserito nella cultura francofona, ma in contatto anche con quella nederlandese, il belga Jean Marie-Piemme (nato nel 1944) rientra nell’ampio novero degli autori ignorati dai lettori e dai teatranti italiani. Dopo studi teatrali in Francia e sociologici in Belgio, ha collaborato come dramaturg presso l’Ensemble Théâtral Mobile, il Théâtre du Crépuscule e il Théâtre Varia di Bruxelles. Dal 1987 ha scritto e rappresentato decine di pièces e partecipato da protagonista al dibattito critico europeo. Il suo pensiero, applicato ai problemi della scrittura scenica e attento agli aspetti gestionali dei teatri, svolge un’indagine assidua sulla storia contemporanea. In una linea marxista e brechtiana, Piemme parte dalle esigenze del quotidiano per esprimere le diverse potenzialità del linguaggio drammatico.

Il libro è presentato, con una Lettera-Prefazione, da Stanislas Nordey , che si riconosce debitore degli autori belgi, e di Piemme in particolare, per avergli fatto scoprire e amare l’opera di Pier Paolo Pasolini. Il regista e direttore del Théâtre de Strasbourg segnala le peculiarità del volume: «Ce travail à mi-chemin entre le témoin et l’acteur. Oui. Être à la fois acteur et témoin d’une histoire. […] C’est de ce théâtre-là dont tu parles, de ce théâtre qui regarde au-delà des murs du théâtre, de ce théâtre qui est la vie, qui est dans la vie» (pp. 11-13). 

Nella sua miscellanea, Piemme raccoglie tanti appunti diaristici, li riorganizza con uno sguardo volto al presente e li sintetizza spesso in forma di aforismi. Talvolta li amplia in una riflessione approfondita, fino a delineare profili di personaggi o a stabilire giudizi di portata generale. 

La suddivisione in tre periodi (1973-1986; 1987-2000; 2001-2017) mostra la differenza sensibile fra i temi affrontati e la qualità con cui la sua comunicazione si mantiene riconoscibile sia nel tono sia nel rigore espressivo. Poeti e teorici dell’arte teatrale si trovano affiancati e comparati in molteplici considerazioni che, a partire dalla recensione d’uno spettacolo o d’un libro, costituiscono punti discriminanti in un’etica della produzione e della diffusione artistiche. Fra i compiti principali, lo studio della drammaturgia è segnato da uno sguardo internazionale e il metodo di lavoro denuncia la riscrittura quale procedimento ricorrente. Alimenti della propria elaborazione intellettuale e compositiva sono per Piemme l’autobiografia e la notizia di cronaca, stimoli inesauribili di creatività. A “manifesto” della sua metodologia, svolta anche in forma autocritica, sostiene: «Je lis le journal. Mon théâtre commence là», ma subito contesta il reale troppo grezzo e violento e rivendica l’attesa d’un momento di «revanche symbolique. Relance de l’imagination. Remetttre en jeu le réel. Le décomposer. Le recomposer» (p. 188). 

Ne risulta una dialettica tra raziocinio e immaginario, dove anche l’inconscio trova spazio inventivo. Il drammaturgo è conscio di far parte di un settore operativo soggetto a vincoli specifici, con leggi comuni e valide per tutte le arti. «Le malheur du monde est par définition la matière du geste artistique… Je ne suis pas devant les contradictions du monde. Je suis dans les contradictions du monde. L’individu est dans le monde. Il se constitue contradictoirement dans les contradictions du monde. Mon théâtre ne raconte que ça» (p. 191). In formulazioni sintetiche stabilisce le sue asserzioni più incisive: «Le théâtre est un art de la lenteur…Le théâtre est un art de la trace par un biais du texte (dans un temps qui oublie). Le théâtre est un art locale (à l’heure de la mondialisation)» (p. 195). Accogliendo la tesi di McLuhan, afferma: «Le théâtre, art minoritaire. En tant qu’art minoritaire, il exerce une fonction politique» (p. 198).

Appassionanti soprattutto quelle pagine in cui l’esperienza personale è attraversata dalla sollecitazione emotiva, equilibrata però dal peso dei limiti riconosciuti. Il mondo, appartato ma umanissimo della scena, è per l’autore appel à l'imagination, nella sua radice liberamente shakespeariana. Quella libertà s’estende: «le théâtre est une voix qui se déploie entre les murs de la scène, une voix qui se projette vers le spectateur» (p. 218), a far sì che i luoghi evocati non compiacciano l’illusione, poiché «ils sont précisés à titre de signes à dechiffrer, ils sont langage avant d’être image» (p. 218). Naturalmente, allora, è inammissibile la ricerca della mimesi («nous sortons de la représentation comme mimesis et lorsque incarnation il y a, celle-ci se donne sur un mode citationnel», p. 394) e necessaria la denuncia del riflusso del naturalismo, soprattutto quello veicolato con l’alibi dell’attore che racconta la diretta “verità” (presunta) di sé stesso (p. 374). 

Piace molto a Piemme, in relazione ai propri testi (sui quali fornisce gustose schede riassuntive), verificare il funzionamento di tante opere celebri di altri autori, da Goethe e Brecht a Müller e Genet. Così continua a cercare, e a trovare, legami rivelatori fra opere e stili, sensibilità ed estetiche, tanto da proporli come altrettante prove della continuità sotterranea, ma evidente, fra il passato e il presente, o quali costanti umane ispiratrici della drammaturgia d’ogni tempo. Pièces che lo hanno impressionato tornano a modello nella memoria critica da consegnare agli eredi. Così Les Nègres di Genet o Le Prince de Hombourg di Kleist. O, ancora, Le Mariage di Gombrowicz visto nell’allestimento di Jorge Lavelli, L'Opera da tre soldi di Brecht diretta da Giorgio Strehler, La Dispute di Marivaux rappresentata da Patrice Chéreau. Riguardo alla collaborazione con Delcuvellerie e il Groupov, «nous parlions la même langue» (p. 278), confessa nel rievocare Rwanda 94, spettacolo che nel 2000 suscitò sensazione per lo scontro originale fra realismo e immaginazione. 

L’attualità sensibile che sanno incarnare i testi di Piemme si riconferma proprio in questi anni di attentati e di violenze: l’autore coglie ad esempio la coincidenza delle imprese ciclistiche di Eddy Merckx e lo sbarco sulla luna e ne tratta, dopo l’attentato al Bataclan, in una pièce intitolata Eddy Merckx a marché sur la lune (2016) allestita nel 2017 in tre teatri di Bruxelles. Il lavoro è nutrito dallo spirito del ’68 e, al tempo stesso, ne sancisce il superamento: «N’est pas le texte d’une trompeuse nostalgie, où l’on ressasserait le bidonnant couplet du “c’était mieux avant”. Ce n’est pas non plus mieux maintenant. Le réel est le réel, c‘est tout»(p. 393). 

In conclusione, mi attira il concetto di écriture infinie («le processus qui unit le spectateur à l’œuvre presentée», p. 367) perché introduce un “disturbo” nel processo tipico della teoria canonica della comunicazione. Se quest’ultima prevede corripondenza fra emissione e ricezione del messaggio, «le processus d’écriture infinie postule au contraire que le spectateur féconde constamment les signes reçus (du texte et/ou du plateau) par les traces de sa propre expérience» (p. 367). Il che forse presuppone una fiducia illimitata e illusoria nel contributo personale dello spettatore. 

Quanto alle ultime pièces, provengono tutte da testimonianze sull’estrema difficoltà della convivenza civile. Nelle Appendici succinte, la precisa Bibliografia offre la misura quantitativa e qualitativa di un’opera tanto vasta nei soggetti quanto originale nelle soluzioni formali.


di Gianni Poli


La copertina

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