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Bianco e nero, 587, a. LXXVIII, n. 587, gennaio-aprile 2017
Giallo italiano

A cura di Luca Mazzei e Paola Valentini

152 pp., euro 16,00
ISSN 0394-008X

La rivista festeggia ottant’anni di attività con un bilancio affidato all’Editoriale di Mariapia Comand.

Il fascicolo monografico, a cura di Luca Mazzei e Paola Valentini, è dedicato al giallo italiano: un arcipelago di esperienze eterogeneo che toccò i vertici nei primi anni Settanta e che fu introdotto in Italia almeno un quarantennio prima. Si legga quanto scrivono i due curatori nel contributo di apertura.

Ivo Bloom e Micaela Veronesi si concentrano sui film di e con Mario Guaita Ausonia tra il 1919 e il 1926, prima che la definizione di “giallo” si affermasse nel nostro paese. Il regista-attore, noto soprattutto per aver assunto il ruolo del forzuto in varie produzioni nazionali, prese parte inoltre ad alcune pellicole di genere sceneggiate dalla moglie Renée Felicie Deliot, dense di richiami alla cultura francese: fonte di interesse anche per la ricorrenza di motivi topici, sperimentazioni narrative ed echi intertestuali. Ne è un esempio il recupero dell’iconografia di Fantômas nella vicenda di travestimenti e capovolgimenti di trama in Dans les mansardes de Paris (1916).

Gianni Canova individua negli anni Trenta un «momento-chiave nelle procedure formali, stilistiche e narrative» (p. 31) di questo gusto, nonostante molti studiosi considerino successiva la sua affermazione nel contesto cinematografico italiano. In quel decennio si manifestò un crescente interesse per il giallo che, a partire dalla celebre collana edita da Mondadori con la copertina di quel colore, contagiò gli altri media. Un fertile terreno di sperimentazione e di reinterpretazione in chiave “nostrana” dei caratteri tipici della narrativa internazionale e dei canoni del cinema americano coevo, secondo una tendenza alla “normalizzazione” propria del fascismo.

David Bruni, partendo dal caso di Giallo (Mario Camerini, 1934), prende in esame alcuni film italiani realizzati nei primi quindici anni del periodo sonoro per indagare le contaminazioni tra generi e motivi narrativi, nonché i punti di contatto e di confronto con le produzioni provenienti dagli Stati Uniti che rappresentarono in quel contesto un importante modello di riferimento culturale e sociale cui l’Italia guardava ora con ammirazione ora con biasimo.

Fabio Camilletti approfondisce il ricorrente motivo del «paranormale» nel giallo cine-televisivo italiano, inquadrandolo nel più ampio panorama della cultura popolare animata a partire dagli anni Sessanta da un certo interesse per l’ignoto e per i temi legati all’occulto, come dimostrano specifiche pubblicazioni diventate in breve tempo best-sellers. La parapsicologia è una «possibilità narrativa» (p. 74), come dimostra il cult Profondo rosso (Dario Argento, 1975).

Emiliano Morreale si concentra sulle modalità rappresentative dei meccanismi impenetrabili del potere: dalla narrativa di Sciascia al cinema italiano degli anni Settanta, quando il giallo si tinge di venature politiche. Da Rosi a Petri fino alle produzioni per il cinema e la televisione di Damiani, attraverso la struttura dell’inchiesta e del thriller si offre una lettura della complessità del panorama politico coevo, una realtà opaca le cui “regole del gioco” rimangono nascoste.

Fabrizio Natalini dedica un’analisi comparativa al testo scritto e filmico di Un maledetto imbroglio (Pietro Germi, 1959) a partire dal copione e da altri documenti rinvenuti presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Liberamente ispirato a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda (1957), l’adattamento cinematografico.

Sulla scia di recenti studi fondati sulla metodologia delle neuroscienze (cfr. V. Gallese-M. Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Milano, Raffaello Cortina, 2015), Massimo Locatelli parla del particolare utilizzo dello zoom nei gialli italiani degli anni Sessanta. Se per gli psicologi della percezione tale strumento ha a che fare con l’attenzione, in questo genere filmico si dimostra un mezzo stilistico che esprime una «agitazione» (p. 107) emotiva in grado di aumentare la portata sensoriale delle scene di maggior pathos.

Andreas Ehrenreich, servendosi di fonti riguardanti la distribuzione e la promozione del genere, mira a sconfessare il luogo comune che vede nel giallo una produzione “in minore”, relegata alle sale di terza visione. Analizzando La dama rossa uccide sette volte (Emilio P. Miraglia, 1972), lo studioso evidenzia la popolarità dei thrillers italiani anche nel primo circuito: questo in virtù di strategie di sfruttamento che oltrepassano i confini nazionali e grazie a investimenti pubblicitari ad ampio raggio, tipici della diffusione del western all’italiana soprattutto nel decennio precedente.

L’Appendice ospita il Dossier Giannini che, attraverso specifiche analisi di documenti e materiali d’archivio, talvolta inediti, mira a ricostruire alcuni momenti topici della multiforme carriera dello sceneggiatore Guglielmo Giannini. Victoria Duckett ne approfondisce gli echi intermediali e i motivi ripresi dal cinema americano; Elena Mosconi studia il passaggio di Anonima fratelli Roylott (Raffaello Matarazzo, 1936) dalla commedia alla trasposizione cinematografica fino alla pubblicazione per Mondadori (1954); Raffaele De Berti focalizza l’attenzione sul film Grattacieli (1943) diretto dallo stesso Giannini. Una delle prime commedie poliziesche italiane che riflette nella struttura narrativa e nei motivi la ripresa dei modelli statunitensi, manifestando anche una certa «preoccupazione morale» (p. 141) per il divario tra campagna e città moderna.

Chiude il corposo volume la riproposta di un articolo di Franco Mendico edito da «Bianco e nero» nel marzo 1952 (Il “brivido”). Si inaugura così un nuovo spazio dedicato alla ripubblicazione di contributi d’archivio per celebrare il compleanno della rivista.


di Eleonora Sforzi


La copertina

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