In una società in cui «i generi di vertice del sistema delle
belle arti» erano «il veicolo privilegiato di glorificazione dei due poteri, il
temporale e il sacro, messi al servizio della perpetua ritrasmissione del
principio dautorità […] la pittura di storia veniva considerata depositaria di
asserti che non ammettevano repliche» (p. 279): in questo passo significativo del
suo libro Gerardo Tocchini
sottolinea un aspetto significativo della cultura dei Lumi. Da una parte
laspirazione a unintelligenza razionale del mondo e della sua storia;
dallaltra la difficoltà a superare i freni di una cultura ancorata a molti dogmi santificati dallAntico
regime che neanche la Rivoluzione sarà capace di estirpare.
La sfida alle convenzioni figurative e plastiche lanciata dallIlluminismo,
come il correlato dibattito analitico e storiografico intorno alle fonti (soprattutto
a quelle figurative) costituiscono
gli oggetti principali dello studio pubblicato in questo libro. Lautore si
serve di fonti scritte e iconografiche “primarie”, per discutere una questione di
grande importanza per la comprensione della storia europea. Nellanalizzare il
punto di vista di Diderot intorno all«opera
capillare di travisamento e di mistificazione della morale naturale» (p. 281),
Tocchini sottolinea il peso negativo che per lintellettuale avevano discipline
quali «teatro lirico e di declamazione, letteratura, poesia, belle arti. Tutte
unite nel ritrasmettere formule di educazione a unesistenza sottomessa e servile», destinata in questo modo
a perdere «il gusto degli avvenimenti reali dellesistenza» (ibid.). E come il libro
precisa, non diversamente avveniva nel repertorio dei teatri parigini del tempo
(Opéra e Comédie Française). Proprio nel riverbero che
riesce a individuare fra le formulazioni teoriche dei philosophes e i risultati della produzione figurativa, ma anche
teatrale e letteraria del tempo, consiste uno degli aspetti interessanti di
questo lavoro.
Certamente, la premessa basilare da tenere presente – e che
Tocchini bene sottolinea – è la natura del compito che la cultura dei Lumi
assegnava agli artisti: prima di tutto
«commuovere, certo, ma anche istruire il pubblico, farlo discutere, aiutarlo a
chiarirsi le idee» (p. 287). Dallaltra parte del fronte intellettuale, colui
che è chiamato a interpretare e giudicare lopera – è il caso di Diderot – partirà
«dalla descrizione dei fenomeni per poi preoccuparsi degli effetti […] sullo
spettatore [evitando] il più possibile di astrarre, di enunciare concetti
derivati da grandi sistemi, di assecondare o anche solo di contraddire una norma»
(p. 161). Un principio, questo, che sarà ampiamente disatteso dalla storiografia
artistica destinata a operare nei secoli a venire. Vizio immortale che ancora oggi
ci affatica non poco.
Tocchini sottolinea come «il vero significato storico del
discorso critico di Diderot a proposito dellintero sistema delle arti
dimmaginazione» (p. 163) oltrepassi di
molto la discussione sulle belle arti per toccare e incidere sul tessuto di
immagini, simboli e pregiudizi che sosteneva la cultura di Antico regime.
Tutti, e non solo le élites, potevano
apprezzare e valutare le opere darte: bastava essere – sono parole del
filosofo – «una persona curiosa, amante delle cose belle, per nulla introdotta
ai misteri delle belle arti, rischiarata dai lumi della propria ragione, da un
po di precisione di spirito e nel gusto, frutto delle diverse e piacevoli
impressioni che lanimo avrà ricevuto dalla vista di differenti opere e delle
riflessioni che ne sarebbero seguite» (p. 166). Se questo principio può essere
considerato lanticamera di un
superficiale voyeurismo che ancora
circola tra le parole e le azioni di alcuni critici
darte “militanti” daltro canto questo può anche essere considerato un monito
premonitore nei confronti del gergo endogamico di molti specialisti.
Storicizzando le tesi del filosofo del XVIII
secolo, Tocchini lascia cadere anche qualche fondata allusione al nostro presente:
«Nessun avrebbe dovuto arrendersi di fronte a quel discorso dautorità che nel
giudizio sullarte sovente assumeva laspetto insidioso e umiliante
dellimitazione passiva e dellautocensura, del conformismo alle decisioni
prese dei grandi aristocratici, di ricchi confortati da artisti in palese stato
di soggezione, ma anche di tutti coloro
che passavano per essere esperti» (p. 167, il corsivo è mio). Il valore di
questo libro – così ricco di suggestioni da non potere essere avvilito da
troppe parafrasi del recensore – consiste nello sguardo felicemente “strabico”
fra una cultura storica profondamente radicata nella lettura delle fonti e una
passione critica di non comune intelligenza.
di Siro Ferrone
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