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Suso Cecchi d’Amico

Suso a Lele. Lettere (dicembre 1945-marzo 1947)

A cura di Silvia e Masolino d’Amico; introduzione di Cristina Comencini

Milano, Bompiani, 2016, 600 pp., euro 22,00, collana «Overlook»
ISBN 9788845281617

Lettere da una conosciuta

All’epoca lui (Fedele detto Lele) – figlio di Silvio d’Amico e futuro importante musicologo – aveva alle spalle, fra le altre cose, un impiego all’EIAR e, poco dopo, uno alla Lux Film, chiamatovi da un altro musicologo, Guido M. Gatti. Poi, finita la guerra che lo aveva visto in clandestinità quale esponente della Sinistra Cristiana, una brutta forma di tubercolosi lo costringe al ricovero in Svizzera, a Arosa, dove rimarrà per oltre sedici mesi. Lei (Suso) – figlia di Emilio Cecchi e futura sceneggiatrice di gran rango – aveva lavorato al Ministero per il Commercio estero ma quando la corrispondenza con Lele ha inizio sta appena inserendosi nel mondo del cinema dove resterà per almeno sessant’anni. Compito arduo è rendere adeguato conto di queste tante e assai belle lettere che Suso invia pressoché quotidianamente al marito: un diario di quel che accade a lei, ai loro due figli Masolino e Silvia (Caterina, alla quale il volume è dedicato, nascerà nel 1948) e al vasto, variegato e ricco mondo della cultura e delle arti (soprattutto dello spettacolo) che oramai frequenta ogni giorno. E chissà che compito sarebbe stato registrare anche le lettere di risposta di Fedele d’Amico! Lettere che sappiamo essere di quantità minore (anche a causa delle di lui condizioni), finora solo in parte rinvenute dai figli. 

Quando il carteggio ha inizio Suso ha conosciuto il più importante regista con il quale lavorerà per  trent’anni, Luchino Visconti, del quale va a vedere Il Matrimonio di Figaro (1945), recando testimonianze tanto utili quanto sagaci. Ecco un esempio sul backstage: «Da chi l’ha visto alle prove ho saputo che è fatto in un modo piuttosto provocante per il pubblico e cioè con lo stile di recitazione del tempo, saltelli, riverenze, giravolte e saltelli ancora. Ieri sera alla prima prova in costume un’attrice si rifiutava di mettersi la parrucca enorme che secondo lei era da Befana. Luchino le dimostrò ch’era bellissima e che sembrava un Goya. Siccome Goya a quella non glielo aveva detto mai nessuno, non sapendo che significato dargli, incassò e tenne la parrucca. Besozzi (fa il conte) aveva assistito. Più tardi in presenza ad altra gente dice all’attrice “Davvero sembri un Loia. Non sembra anche a voi un Ioia?” (e tutti a pensare “chi sa chi è”)» (pp. 80-81). 

E poi, sullo spettacolo in scena (la lettera è del 19 gennaio 1946): «Il monologo di Figaro de Sica lo viene a fare in platea [e questo ce la dice lunga sull’azzardo di certe soluzioni da parte del “conte rosso”]. Al finale c’è una cincana [sic]. Saranno in più di cinquanta a ballare sul palcoscenico. Lustrini, cappelloni, parrucconi, gendarmi. Ognuno canta il suo couplet. Poi quando la danza si fa più sfrenata pare di sentire da lontano un canto militare (ci siamo ho pensato io, ora la fa grossa). Continua il ballo sempre più sfrenato ed entrano due coppie di ballerini (due donne e due uomini) sfarzosamente vestiti in velluto nero lustrini verdi e piume e tengono nascosta la faccia – continua il ballo, si sente di nuovo il canto dietro le scene, i nuovi arrivati ballano intorno alla coppia del conte e della contessa di un tratto si scoprono il viso e sono quattro teschi. Cala la tela. Bravo Luchino. Che mano leggera. La gente si è annoiata. Il suocerone [Silvio d’Amico] era troppo costernato per fiatare. Non sono andata a salutare il conte perché veramente non sapevo cosa dire. Ma che crede: che Beaumarchais [sic] non si sappia fare capire da sé? Io pensavo continuamente che cosa avresti detto tu. E ora ci dormo sopra. Vorrei avere presto il tuo telegramma amore caro. Comincio a sentire il peso di questi giorni senza notizie recenti. Buona notte ponci caro. Voglimi bene anche se non sono una moglie austera. Un bacio tua S.» (p. 83). 

Sono, brani come questi, fra i molti di un ricchissimo campionario, un modo essenziale anche per dar conto del fraseggio di Suso, del ricorrente uso di certi termini affettuosi (“ponci caro”, altrove “cicino”, “piccioncino” o “pincinucchi padre”), quali anche quelli (a esempio i “cicini” o i “picci” o i “pisciolini”) con i quali sono nominati i figli («I quali picci sono adorabili anche se un po’ invadenti», p. 60). Altrove, nella stessa lettera riesce a render conto a Lele dei rocamboleschi tentativi di reperire un adeguato abito da sera e della lettura di America di Kafka («Bisogna proprio che te lo mandi», p. 52). Sempre emerge la sua acuta – e spesso non poco sarcastica – capacità di osservazione, a esempio dei caratteri dei vari artisti con i quali si intreccia il proprio destino. Già nelle prime lettere, del dicembre 1945, si snocciolano i primi nomi e sono quelli di Gian Carlo Menotti e Gabriele Baldini, Ennio Flaiano e Anna Proclemer, Gerardo Guerrieri e Mario Soldati e Renato Castellani, Luigi Zampa e Nino Rota, Cesare Brandi e Steno, Elena Croce (in Craveri) e Paolo Milano (nel cui appartamento romano gli sposi andarono ad abitare, essendo il critico ancora negli Stati Uniti). E mille altri seguiranno, rappresentanti i vari settori delle arti e della cultura (soprattutto letteraria) del tempo. 

Da sceneggiatrice già esperta prima di esserlo davvero e, del resto, da donna colta, intelligente e spiritosa quale è, Suso descrive con rapidi ma precisi e incisivi tratti i vari ambienti, con il distacco di chi non prende troppo sul serio tutto quel che le accade: «Ieri lavoro e la sera andai dopo tante insistenze di Elena Craveri a una cena al Ritrovo in onore di uno scrittore inglese che non ho capito assolutamente chi e quale fosse, 225 lire e digiuno. Mi avevano messo tra un insopportabile francese dell’ambasciata, tipo elegante pretenzioso ambasciata intellettualoide. […] C’era una cinquantina di persone. […] Moravia – la Carandini [Elena Carandini Albertini] – tutto il Craveri […] Bassiano [probabilmente Giorgio Bassani] – i GiolittiGabriele [Baldini]. […] E quando ci alzammo da tavola eravamo così esauriti che ci precipitammo fuori. Mi ero portata anche Dario [Cecchi, il fratello pittore scrittore costumista] e tornando a casa con lui passammo con Gabriele e Brancati da una trattoria a Piazza Navona dove c’era indetto e offerto dalla Bussola un simposio incroyable. Credetti di sognare entrando in una sala dove messe a serpente [disegnino esplicativo] c’erano tutte tavole a cui sedevano fitti fitti tutti gli intellettuali di I II III e IV ordine italiani. Da Ungaretti Babbo [Emilio Cecchi] Cardarelli […] Bellonci Trompeo [Pietro Paolo, francesista] […] a Zavattini […] e donne da Sibilla [Aleramo], Gianna [Manzini], De Cespedes a tutte le gradazioni di mogli e figlie. Tutto ciò in onore della “Fiera Letteraria” […]». 

In quel periodo Flaiano e Castellani (detto Pampero) continuano a essere i protettori di Suso, la quale del secondo registra le paturnie ma anche la grande generosità. A sua volta Flaiano – che diversi anni dopo scriverà su Suso una voce per l’Enciclopedia dello Spettacolo, opera voluta da Silvio d’Amico per la quale Lele dirigerà il settore musicale – si preoccupa di trovare a Suso occasioni di lavoro, anche attraverso la rivista «Cinelandia» (che tuttavia chiuderà a breve), condividendo con lei la prima sceneggiatura per un film, Avatar, che poi non si farà. 

Quegli anni sono difficili e Suso stessa definisce le proprie lettere «piene di pianto e di riso» (pp. 173-174): se da un lato non nasconde al marito le mille difficoltà in cui si trova, dall’altro si rivela piena di fiducia e di speranza che le cose cambino al meglio («Forse ce la faremo a stare allegri e tranquilli», p. 174; «Qualche Santo ci aiuterà – un santo crepuscolare, magari», p. 212). In siffatto contesto costanti note di gioia sono costituite dai complimenti che il grande suo Babbo le rivolge allorché Suso gli fa leggere le prime sceneggiature, nonché dai frequenti soggiorni nella casa di via Cantore 17 del grande amico Nino Rota, l’angelo cherubino (come lo definirà Fellini) ben presto compagno di strada di tante avventure al cinema, cui molti anni dopo Suso dedicherà (con Monicelli) un bellissimo video-ritratto. Suso trova sempre più occasioni, i primi riconoscimenti (il Nastro d’argento nel 1947 per Vivere in pace di Zampa) e maggiori guadagni, che a suo dire potrebbero permettere a Lele, una volta dimesso, di svolgere al meglio il proprio lavoro di musicista (prima ancora che di musicologo). Sempre mantenendo quel che si dice “un bel carattere”, la nostra primadonna della scrittura per il cinema continua nei circa quindici mesi di carteggi a non lesinare frecciate a destra e a manca, a esempio verso Moravia e Zampa, ma anche, con estrema e “profetica” lucidità, verso il cinema e il teatro in Italia. 

A tal riguardo si legge in una lettera significativa di uno degli ultimi mesi della corrispondenza: «C’è un’aria un po’ torbida. Speriamo di non finire disoccupati. È che tutto è sbagliato. Come sono sbagliati gli spettacoli della Compagnia dell’Accademia che infatti va male e anche quelli della Compagnia Visconti (Morelli Stoppa) che va mediocremente. Qui si vuole giocare ai signori. E a parte che giocare ai signori non significa essere signori, oltre a fare quello che non si sa fare e che il pubblico non richiede si manda in rovina il teatro e il cinema. E mi dispiace dire che nel teatro Costa appartiene a questa specie di criminali. Faranno affondare tutto. Evviva Eduardo De Filippo. […] La Vita col padre [regia di Visconti] per esempio è data molto bene. Ma sono state spese diecine e diecine e diecine di migliaia di lire in cose inutili e cafone. I costumi della Morelli sono magnifici ma se fossero stati di gusto senza essere di sete formidabili ne avrebbe guadagnato in intimità lo spettacolo e si sarebbe risparmiato un minimo di 70-80mila lire. […] Così il cinema. Ringalluzziti dal favore del pubblico, hanno perso la testa. […] Pensa che la Magnani ha fatto un contratto con la Lux per 6 milioni a film, mettendo che lei in teatro non va prima delle ore 14 e non lavora che un numero minimo di ore. […] L’Italiano ha fatto delle belle cose sempre quando ha dovuto arrangiarsi. […] Vedi l’esempio di Roma città aperta» (pp. 509-510). 

Giudizi qua e là forse eccessivi ma certo coraggiosi e lucidi (anche a futura e ben più recente memoria). Da un altro lato, del resto, nell’ultima lettera, datata 26 marzo 1947, nell’annunciare a Lele di avere molto lavoro (sta in particolare scrivendo L’onorevole Angelina, che «viene bene per ora e ne son contenta», p. 586) gli dice anche che «aprile lo passerò tra Blasetti e Lattuada e Castellani. I più bei nomi come vedi» (p. 586). Ma, ancora: «ci sono intelligenze come Flaiano ridotte all’orlo della disperazione. E così mille altri; non hanno lavoro e assolutamente insufficiente al costo della vita» (p. 587). 

Infine chiosando con una rinnovata espressione di amore e di profonda tenerezza: «Bucintoro bucintoro simpatico non ti strapazzare arrivami allegro sereno leggero come l’aria. Buona notte amore mio. C’è qui la tenera Silvia che ti abbraccia con me. Tua S.» (p. 588).


Marco Pistoia


La copertina

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