Lettere da una conosciuta Allepoca
lui (Fedele detto Lele) – figlio di Silvio dAmico e futuro importante
musicologo – aveva alle spalle, fra le altre cose, un impiego allEIAR e, poco dopo,
uno alla Lux Film, chiamatovi da un altro musicologo, Guido M. Gatti. Poi, finita la guerra che lo aveva visto in
clandestinità quale esponente della Sinistra Cristiana, una brutta forma di
tubercolosi lo costringe al ricovero in Svizzera, a Arosa, dove rimarrà per
oltre sedici mesi. Lei (Suso) –
figlia di Emilio Cecchi e futura
sceneggiatrice di gran rango – aveva lavorato al Ministero per il Commercio
estero ma quando la corrispondenza con Lele ha inizio sta appena inserendosi
nel mondo del cinema dove resterà per almeno sessantanni. Compito arduo è
rendere adeguato conto di queste tante e assai belle lettere che Suso invia
pressoché quotidianamente al marito: un diario di quel che accade a lei, ai
loro due figli Masolino e Silvia (Caterina, alla quale il volume è dedicato,
nascerà nel 1948) e al vasto, variegato e ricco mondo della cultura e delle
arti (soprattutto dello spettacolo) che oramai frequenta ogni giorno. E chissà
che compito sarebbe stato registrare anche le lettere di risposta di Fedele
dAmico! Lettere che sappiamo essere di quantità minore (anche a causa delle di
lui condizioni), finora solo in parte rinvenute dai figli.
Quando
il carteggio ha inizio Suso ha conosciuto il più importante regista con il quale
lavorerà per trentanni, Luchino Visconti, del quale va a vedere
Il Matrimonio di Figaro (1945),
recando testimonianze tanto utili quanto sagaci. Ecco un esempio sul backstage: «Da chi lha visto alle prove
ho saputo che è fatto in un modo piuttosto provocante per il pubblico e cioè
con lo stile di recitazione del tempo, saltelli, riverenze, giravolte e
saltelli ancora. Ieri sera alla prima prova in costume unattrice si rifiutava
di mettersi la parrucca enorme che secondo lei era da Befana. Luchino le
dimostrò chera bellissima e che sembrava un Goya. Siccome Goya a quella non
glielo aveva detto mai nessuno, non sapendo che significato dargli, incassò e
tenne la parrucca. Besozzi (fa il conte) aveva assistito. Più tardi in presenza
ad altra gente dice allattrice “Davvero sembri un Loia. Non sembra anche a voi
un Ioia?” (e tutti a pensare “chi sa chi è”)» (pp. 80-81).
E
poi, sullo spettacolo in scena (la lettera è del 19 gennaio 1946): «Il monologo
di Figaro de Sica lo viene a fare in platea [e questo ce la dice lunga
sullazzardo di certe soluzioni da parte del “conte rosso”]. Al finale cè una
cincana [sic]. Saranno in più di
cinquanta a ballare sul palcoscenico. Lustrini, cappelloni, parrucconi,
gendarmi. Ognuno canta il suo couplet. Poi quando la danza si fa più sfrenata
pare di sentire da lontano un canto militare (ci siamo ho pensato io, ora la fa
grossa). Continua il ballo sempre più sfrenato ed entrano due coppie di
ballerini (due donne e due uomini) sfarzosamente vestiti in velluto nero
lustrini verdi e piume e tengono nascosta la faccia – continua il ballo, si
sente di nuovo il canto dietro le scene, i nuovi arrivati ballano intorno alla
coppia del conte e della contessa di un tratto si scoprono il viso e sono
quattro teschi. Cala la tela. Bravo Luchino. Che mano leggera. La gente si è
annoiata. Il suocerone [Silvio dAmico] era troppo costernato per fiatare. Non
sono andata a salutare il conte perché veramente non sapevo cosa dire. Ma che
crede: che Beaumarchais [sic] non si
sappia fare capire da sé? Io pensavo continuamente che cosa avresti detto tu. E
ora ci dormo sopra. Vorrei avere presto il tuo telegramma amore caro. Comincio
a sentire il peso di questi giorni senza notizie recenti. Buona notte ponci
caro. Voglimi bene anche se non sono una moglie austera. Un bacio tua S.» (p. 83).
Sono,
brani come questi, fra i molti di un ricchissimo campionario, un modo
essenziale anche per dar conto del fraseggio di Suso, del ricorrente uso di
certi termini affettuosi (“ponci caro”, altrove “cicino”, “piccioncino” o
“pincinucchi padre”), quali anche quelli (a esempio i “cicini” o i “picci” o i
“pisciolini”) con i quali sono nominati i figli («I quali picci sono adorabili
anche se un po invadenti», p. 60). Altrove, nella stessa lettera riesce a
render conto a Lele dei rocamboleschi tentativi di reperire un adeguato abito
da sera e della lettura di America di
Kafka («Bisogna proprio che te lo
mandi», p. 52). Sempre emerge la sua acuta – e spesso non poco sarcastica –
capacità di osservazione, a esempio dei caratteri dei vari artisti con i quali
si intreccia il proprio destino. Già nelle prime lettere, del dicembre 1945, si
snocciolano i primi nomi e sono quelli di Gian
Carlo Menotti e Gabriele Baldini, Ennio Flaiano e Anna Proclemer, Gerardo
Guerrieri e Mario Soldati e Renato Castellani, Luigi
Zampa e Nino Rota, Cesare Brandi e Steno, Elena Croce (in
Craveri) e Paolo Milano (nel cui
appartamento romano gli sposi andarono ad abitare, essendo il critico ancora
negli Stati Uniti). E mille altri seguiranno, rappresentanti i vari settori
delle arti e della cultura (soprattutto letteraria) del tempo.
Da
sceneggiatrice già esperta prima di esserlo davvero e, del resto, da donna
colta, intelligente e spiritosa quale è, Suso descrive con rapidi ma precisi e
incisivi tratti i vari ambienti, con il distacco di chi non prende troppo sul
serio tutto quel che le accade: «Ieri lavoro e la sera andai dopo tante
insistenze di Elena Craveri a una cena al Ritrovo in onore di uno scrittore
inglese che non ho capito assolutamente chi e quale fosse, 225 lire e digiuno.
Mi avevano messo tra un insopportabile francese dellambasciata, tipo elegante
pretenzioso ambasciata intellettualoide. […] Cera una cinquantina di persone.
[…] Moravia – la Carandini [Elena Carandini Albertini] – tutto il
Craveri […] Bassiano [probabilmente Giorgio
Bassani] – i Giolitti – Gabriele [Baldini]. […] E quando ci alzammo da tavola eravamo così esauriti
che ci precipitammo fuori. Mi ero portata anche Dario [Cecchi, il
fratello pittore scrittore costumista] e tornando a casa con lui passammo con
Gabriele e Brancati da una trattoria a Piazza Navona dove cera indetto e
offerto dalla Bussola un simposio incroyable. Credetti di sognare entrando in
una sala dove messe a serpente [disegnino
esplicativo] cerano tutte tavole a cui sedevano fitti fitti tutti gli
intellettuali di I II III e IV ordine italiani. Da Ungaretti Babbo [Emilio Cecchi] Cardarelli […] Bellonci Trompeo [Pietro Paolo, francesista] […] a Zavattini […] e donne da Sibilla
[Aleramo], Gianna [Manzini], De Cespedes a tutte le gradazioni di
mogli e figlie. Tutto ciò in onore della “Fiera Letteraria” […]».
In
quel periodo Flaiano e Castellani (detto Pampero) continuano a essere i
protettori di Suso, la quale del secondo registra le paturnie ma anche la
grande generosità. A sua volta Flaiano – che diversi anni dopo scriverà su Suso
una voce per lEnciclopedia dello
Spettacolo, opera voluta da Silvio dAmico per la quale Lele dirigerà il
settore musicale – si preoccupa di trovare a Suso occasioni di lavoro, anche
attraverso la rivista «Cinelandia» (che tuttavia chiuderà a breve),
condividendo con lei la prima sceneggiatura per un film, Avatar, che poi non si farà.
Quegli
anni sono difficili e Suso stessa definisce le proprie lettere «piene di pianto e di riso» (pp. 173-174):
se da un lato non nasconde al marito le mille difficoltà in cui si trova,
dallaltro si rivela piena di fiducia e di speranza che le cose cambino al
meglio («Forse ce la faremo a stare allegri e tranquilli», p. 174; «Qualche
Santo ci aiuterà – un santo crepuscolare, magari», p. 212). In siffatto
contesto costanti note di gioia sono costituite dai complimenti che il grande
suo Babbo le rivolge allorché Suso gli fa leggere le prime sceneggiature,
nonché dai frequenti soggiorni nella casa di via Cantore 17 del grande amico
Nino Rota, langelo cherubino (come lo definirà Fellini) ben presto compagno di strada di tante avventure al
cinema, cui molti anni dopo Suso dedicherà (con Monicelli) un bellissimo video-ritratto. Suso trova sempre più
occasioni, i primi riconoscimenti (il Nastro dargento nel 1947 per Vivere in pace di Zampa) e maggiori
guadagni, che a suo dire potrebbero permettere a Lele, una volta dimesso, di
svolgere al meglio il proprio lavoro di musicista (prima ancora che di
musicologo). Sempre mantenendo quel che si dice “un bel carattere”, la nostra
primadonna della scrittura per il cinema continua nei circa quindici mesi di
carteggi a non lesinare frecciate a destra e a manca, a esempio verso Moravia e
Zampa, ma anche, con estrema e “profetica” lucidità, verso il cinema e il
teatro in Italia.
A
tal riguardo si legge in una lettera significativa di uno degli ultimi mesi
della corrispondenza: «Cè unaria un po torbida. Speriamo di non finire
disoccupati. È che tutto è sbagliato. Come sono sbagliati gli spettacoli della
Compagnia dellAccademia che infatti va male e anche quelli della Compagnia
Visconti (Morelli Stoppa) che va mediocremente. Qui si
vuole giocare ai signori. E a parte che giocare ai signori non significa essere
signori, oltre a fare quello che non si sa fare e che il pubblico non richiede
si manda in rovina il teatro e il cinema. E mi dispiace dire che nel teatro Costa appartiene a questa specie di
criminali. Faranno affondare tutto. Evviva Eduardo
De Filippo. […] La Vita col padre [regia
di Visconti] per esempio è data molto bene. Ma sono state spese diecine e
diecine e diecine di migliaia di lire in cose inutili e cafone. I costumi della
Morelli sono magnifici ma se fossero stati di gusto senza essere di sete
formidabili ne avrebbe guadagnato in intimità lo spettacolo e si sarebbe
risparmiato un minimo di 70-80mila lire. […] Così il cinema. Ringalluzziti dal
favore del pubblico, hanno perso la testa. […] Pensa che la Magnani ha fatto un contratto con la
Lux per 6 milioni a film, mettendo che lei in teatro non va prima delle ore 14
e non lavora che un numero minimo di ore. […] LItaliano ha fatto delle belle
cose sempre quando ha dovuto arrangiarsi. […] Vedi lesempio di Roma città aperta» (pp. 509-510).
Giudizi
qua e là forse eccessivi ma certo coraggiosi e lucidi (anche a futura e ben più
recente memoria). Da un altro lato, del resto, nellultima lettera, datata 26
marzo 1947, nellannunciare a Lele di avere molto lavoro (sta in particolare
scrivendo Lonorevole Angelina, che «viene
bene per ora e ne son contenta», p. 586) gli dice anche che «aprile lo passerò tra Blasetti e Lattuada e Castellani. I più bei nomi come vedi» (p. 586). Ma,
ancora: «ci sono intelligenze come
Flaiano ridotte allorlo della disperazione. E così mille altri; non hanno
lavoro e assolutamente insufficiente al costo della vita» (p. 587).
Infine
chiosando con una rinnovata espressione di amore e di profonda tenerezza: «Bucintoro
bucintoro simpatico non ti strapazzare arrivami allegro sereno leggero come laria.
Buona notte amore mio. Cè qui la tenera Silvia che ti abbraccia con me. Tua S.»
(p. 588).
Marco Pistoia
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