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Revue d’Histoire du Théâtre, 2017, n. 273
L’éclairage au théâtre

144 pp., 12 euro

La drammaturgia da tempo utilizza il “testo materiale”– illuminazione, suono, colore, gestualità ecc. – come canale di comunicazione e portatore di significato. Questo nuovo numero della rivista francese si occupa dell’illuminazione a teatro, mettendo insieme gli studi sulla tecnica con quelli sul linguaggio espressivo. Secondo i due curatori Sabine Chaouche e Jean-Yves Vialleton la luce a teatro non è solo uno strumento ma un vero elemento drammaturgico, ed è perciò importante riflettere sul «rapport entre un art et le dispositifs techniques sur lequel il s’appuie» (p. 7). 

Nella prima parte del fascicolo (Histoire des techniques d’éclairage, pp. 11-56) si esamina la storia dei dispositivi illuminotecnici, dalla candela di sego al moderno “testa mobile”, tenendo presenti quegli elementi – tecnici ma anche sociali e di costume – che ne hanno condizionato l’evoluzione. Nella seconda parte (Naissance et essor d’une penseé de l’éclairage, pp. 57-80) si approfondisce la nascita e lo sviluppo di una teoria estetica dell’illuminazione. Nella terza (La création lumière, pp. 81-104) si affrontano le problematiche del mestiere della progettazione luci. Diverse le competenze degli autori dei saggi: dall’accademico al giornalista, dal lighting designer  fattosi divulgatore fino al conferenziere e al blogger

In Lumières du théâtre, lumières de la ville. L’éclairage au XVIIe et XVIIIe siècle Pauline Lemaigre-Gaffier ripercorre la storia della illuminazione a teatro, dalla originaria “unità” tra palco e sala a un uso più consapevole della luce (benché ancora poco sostenuto dalla tecnica). A metà Seicento si definisce una prima idea di “impianto” luministico, ancora con candele di sego (difficili da gestire, da pulire, maleodoranti e poco pratiche), composto da luci laterali e luci in sospensione sulle herses (le antenate delle odierne “americane”) o disposte sulla rampe in posizione frontale. Si va verso un’enfatizzazione della luce a vantaggio della spettacolarità dell’azione attraverso l’uso di vetri colorati e teli semitrasparenti illuminati in controluce con effetti suggestivi. La svolta avviene nel Settecento con le lampade a olio: nel 1784 fanno il loro ingresso alla Comédie Française, nel 1785 all’Opéra. 

In Les grandes nouveautés de l’âge industriel Patrice Guérin si concentra sul passaggio all’illuminazione a gas e poi all’elettricità. L’uso del gas a teatro arriva nel 1810 in Inghilterra; nel 1819 l’Opéra di Parigi rimane chiusa una settimana per adeguare il vecchio impianto alle nuove tecnologie. Molto efficiente nella resa, il gas si diffonde progressivamente fino al 1887, quando all’Opéra Comique ottantotto persone restano uccise in un incendio. L’anno dopo il Prefetto firma un’ordinanza per convertire i luoghi pubblici all’elettricità. Un nuovo miglioramento si avrà con la luce ossidrica (ossigeno e idrogeno ad alta pressione che rendono incandescente un pezzo di materiale refrattario), tecnica che tuttavia resterà confinata agli “effetti”. 

In L’éclairage électrique et son évolution au XXe siècle Jean Gervais riflette sulle ricerche di fine Ottocento (tra cui quelle di Edison e di Swan) volte a ricavare luce dall’elettricità. Il primo teatro a farlo è il Savoy di Londra nel 1881; nel 1883 le Variétés di Parigi ne fa un’applicazione diffusa, nonostante i problemi relativi alla necessità di utilizzare e regolare il funzionamento di un generatore di grandi dimensioni. In questo periodo, tra coloro che sperimentano le potenzialità estetiche e drammaturgiche dell’elettricità in scena, si può ricordare Appia che teorizza un’illuminazione che capace di valorizzare attori e danzatori. A inizio Novecento compaiono le gelatine, fogli di poliestere o policarbonato colorati da inserire davanti alle lampade. Si sviluppa così il concetto della gradazione dell’intensità luminosa, ottenuta con dimmer a resistenza e proiettori di luce tuttora in uso: PC (con lente piano convessa), sagomatori (provvisti di “coltelli” per sagomare la luce a piacimento), PAR (dispositivo con lampada omonima provvista di un riflettore parabolico interno). Negli anni ’80 del Novecento compaiono anche i protocolli di comunicazione tra apparecchiature e console luci di tipo elettronico, fino ad arrivare all’odierno DMX, i “testa mobile”: apparecchi capaci di rotazioni sia alla base che alla fonte della luce. 

In Naissance du contrôle à distance et de l’automatisation des luminaires Olivier Balagna si concentra sui motorizzati, portatori di una nuova estetica della luce nello spettacolo e di un “divorzio” tra modi e tecniche di teatro e show biz. Se nel 1954 appare il primo “testa mobile” con pan (rotazione a 360° della base) e tilt (rotazione di 360° della “testa”), è nel 1964 che il Basler Theatre diviene il primo teatro dotato di un impianto di controllo delle luci a distanza, capace di memorizzare scene ed effetti, grazie al lavoro di Fritz Von Ballmoos. La storia dei “testa mobile” riprende negli anni ’80 nello show biz: nasce il VariLite, programmabile e con effetti di colore; mentre già nel 1970 erano apparsi gli scanner, proiettori a specchio rotante nei quali la luce rimbalza e viene indirizzata da uno specchio mobile interno. Del 1966 è la prima console elettronica prodotta in serie, capace di scene, memorie, «dimmeraggi» ecc. a opera dell’azienda americana Strand Lighting. 

Nella seconda parte, Cristina Grazioli («Peindre avec la lumière […]») analizza le teorie estetiche che, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, prendono le mosse dalla pittura assimilando la scena a un quadro. Si sviluppa così una “poetica” della luce basata in un primo momento sulla ricerca della verosimiglianza (che porta al risolutivo distacco tra sala e scena) e della profondità. Del 1781 è Eidophusikon, il primo spettacolo di sola luce colorata, “dipinta”, che si mischia a una natura in divenire. Nell’Ottocento si fa strada l’idea della metamorfosi dello spazio scenico da “vuoto” a “pieno” grazie alla “materia luminosa”. Saranno i maestri del XX secolo a portare a compimento il concetto di “dipingere con la luce” proponendo differenti soluzioni. Tra costoro spiccano Mariano Fortuny, con la sua Cupole per luce diffusa, e Max Reinhardt, la cui idea di luce come orchestrazione viene talvolta assimilata all’arte di Rembrandt. 

Aladin…ou le lampiste merveilleux è il titolo di un fortunato spettacolo andato in scena all’Académie Royale de Musique nel 1822, ideato per mettere in valore le novità portate dall’illuminazione a gas, come dimostra Noémie Courtès studiando il copione. 

In La plongée du spectateur dans le noir Christine Richier si occupa della drammaturgia del buio a teatro. Il primo buio totale, documentato nel 1876 al Festspielhaus, si dice voluto da Wagner. In realtà fu il frutto di un provvido errore umano. Oggi, con luci di sicurezza e contapassi, si è tornati a un buio relativo. 

Nella terza sezione del fascicolo Véronique Perruchon (Esthétiques de l’éclairage) indaga la luce come bisogno artistico vincolato ai mezzi utilizzati, così che una scelta tecnica diviene anche una scelta estetica. Con l’elettricità si sviluppano due orientamenti: da un lato la ricerca di un’estetica della luce, dall’altro l’idea di un teatro che vuole vedere tutto e bene. Al primo orientamento appartennero Vilar e Pierre Saveron, il primo lighting designer che utilizzò solo luce bianca in modo puntuale e direzionale per orientare sguardo e attenzione; al secondo orientamento appartenne il teatro di (e alla) Brecht. Nel 2004-2005 la novità del LED introdusse un rilevante cambiamento, offrendo più colori e al contempo essendo un sistema più pratico, freddo e diretto. 

Infine Ariane Martinez prende in esame la dialettica tra luce e interprete (Eclairer l’interprète en scène). La luce è un vero e proprio personaggio “creato”  a più mani dal regista, dal lighting designer, dagli attori. Un arte al plurale.


Chiara Benedettini


La copertina

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