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Cesare Molinari

I mille volti di Salomè


Bologna, Cue Press, 2015, 357 pp., euro 22,99
ISBN 88-98442-85-8

Nella sua arguta (ma non perciò meno chiara ed esplicativa) Introduzione, Cesare Molinari gioca con la sua presunta “senilità”, a proposito dell’ansia che lo avrebbe accompagnato nella stesura di questo libro – I mille volti di Salomè – ponderoso come si evince anche dal titolo; ansia relativa a un supposto indebolirsi della “memoria”, con l’età, quando proprio sulla memoria si fonda il suo progetto, che vuol essere «in primo luogo un testo di compilazione, cioè di memoria appunto» (p. 7). Modestia o falsa modestia a parte dell’autore – dal momento che subito dopo egli dichiara il suo fastidio per la «troppa intelligenza di certe analisi critiche» rivelatesi alla fine «poco illuminanti» (ibid.) – ciò che colpisce il lettore e lo cimenta, in primo luogo, a cospetto del libro in questione è proprio l’enorme quantità di memoria che contiene e gestisce, con piena coerenza con «l’enormità del soggetto» (ibid.), esteso per due millenni a coprire tutti i campi della produzione letteraria, teatrale e artistica. Il povero lettore, dunque, si trova a fare i conti con l’inadeguatezza della propria memoria, e anche della propria cultura, imparagonabile con quella sconfinata, alla lettera, dell’autore.

Il volume infatti, nella sua tripartizione architettonica, affronta il tema, le apparizioni della storia e del personaggio di Salomè, prima nella narrativa, nella drammaturgia e nella poesia; poi nelle arti figurative; quindi nelle rappresentazioni teatrali (prosa, opera, danza), con particolare riferimento a quelle della “tragedia” di Oscar Wilde e dell’opera di Richard Strauss, ritenute esemplari; e che costituiscono perciò i due perni dell’intera e multiforme costruzione del libro, anche in rapporto alle apparizioni dell’ambigua figura femminile nel cinema (per cui si può parlare di «trasposizioni dei testi drammatici» [p. 9] solo in termini molto lati). D’altra parte sono “migliaia” le opere narrative, drammatiche, poetiche che hanno trattato la storia e il personaggio di Salomè; altrettante sono le opere d’arte figurativa; né molti di meno sono gli spettacoli che li hanno messi in scena, «muovendo, in maniera più o meno diretta dal testo di Oscar Wilde che risale soltanto al 1893» (p. 161). Forse Molinari non arriva a nominarli tutti, eppure ci comunica l’impressione di conoscerli; e sulla base di quest’enormità di materiali (per citare alcuni nomi a caso: da Mallarmè a Testori, da George Buchanan a Heywood a Eric Walz, da Oscar Panizza, Hermann Sudermann, Max Reinhardt, a Brook, Bene, Kemp) progetta e realizza il proprio itinerario. Per mia pochezza non mi soffermerò sulla parte seconda del libro (Iconografia I, Iconografia II, pp. 104-158, quasi novanta pagine di Immagini), che merita un esperto; mi limiterò a rincorrere la fanciulla, passata da «comprimaria qual era nella narrazione evangelica, a protagonista, e poi a eroina eponima» (p. 24), al di là del suo “lungo cammino” che in fondo è una danza, proprio attraverso le due produzioni artistiche in cui il suo “mito” si stabilizza, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo: periodo in cui Salomè è tornata di moda nella letteratura, nel teatro europei e nelle arti figurative, fino a raggiungere quella nuova esplosione di interesse chiamata salomania.

Per questa via, ritorno dunque alla costruzione architettonica del volume: tre parti o piani, ognuno al suo interno organizzato secondo una prospettiva diacronica, ma puntellato da ampie digressioni speculative, di carattere storico-teorico, e terminato da riepiloghi, dai quali salire al piano successivo o, per il terzo, alle conclusioni che, dice l’autore, «non concludono niente» (p. 9); eppure riassumono il percorso dell’inchiesta sulle «diverse fenomenologie dello stesso personaggio» (p. 260) a partire dai Vangeli (e prima ancora da Seneca e da Livio), dai Padri della Chiesa, attraverso le varie epoche che ne connotano le diverse, talora opposte, apparizioni, trasformandone l’azione o il “gesto” – l’esibizione della testa del Battista come dono e ricompensa d’una danza fatale, spettacolo ma anche misterioso rapporto d’amore – in un «simbolo forte e ambiguo» (p. 261) che, appunto, le diverse epoche, culture e i diversi autori hanno interpretato alla luce della propria sensibilità.

Se si osserva la struttura della parte prima, o primo piano, incominciata alla ricerca del nome (di Salomè, che entra stabilmente nei testi drammatici, un oratorio, soltanto verso la fine del Seicento), fin dall’Indice campeggia quello di Wilde a metà percorso come discrimine (Wilde, Dopo Wilde), dal momento che solo nella sua “piccola tragedia” la storia dell’enigmatica fanciulla prende forma; d’altra parte, compare quasi subito accanto ad essa la versione musicale di Richard Strauss, nel 1906 andata in scena per la prima volta a Dresda e destinata (nonostante o forse proprio per l’accoglienza contrastata) a un enorme successo, superiore per numero di riprese a quello stesso del testo wildiano (di cui sono contate cinquantasette soltanto in Europa). Si forma dunque – sul piano della “drammaturgia” – l’asse Wilde-Strauss, portante e ritornante nei piani successivi.

Infatti la visione definitiva della storia di Salomè s’afferma, per Molinari, nel dramma di Wilde e si conferma nella versione operistica di Strauss, precedute sul piano drammaturgico e letterario da due tragedie, Erodiade di Silvio Pellico (1932), La figlia di Erodiade di Joseph Converse Heywood (1862); il melodramma di Massenet e un oratorio; due grandi opere narrative: Herodias di Flaubert (1877) e Salomè di Laforgue. Né deve stupire il binomio madre-figlia, che costituisce fin dal principio un aspetto connotativo dell’ambiguità stessa del personaggio; se di personaggio si può parlare o, invece, ci si deve riferire a un mito. L’autore infatti procede – nella sua ricostruzione storica del percorso millenario del soggetto – solo apparentemente secondo la diacronia; è un grande affabulatore che non si sottrae agli scarti e alle soste, agli squarci di riflessione teorica, là dove il racconto gliene offre il destro: come quando, appunto, dopo l’interrogativa Premessa: un mito? (pp. 10-15), ritorna sul problema a proposito della Salomè wildiana. Ci sono due tipologie di miti, egli dice: quelli che si trovano fissati in una poderosa opera letteraria, come Antigone, Ifigenia, Elettra o Edipo, e quelli invece che vivono nella tradizione orale o nelle favole, come Cenerentola ma anche Ercole o Alessandro Magno. Proprio Salomè fa eccezione: «ha vissuto per secoli sotto traccia nei racconti e nel folklore, quasi cercando a tratti di emergere in opere letterarie che ambivano a proporsi al livello dei grandi classici», senza riuscirvi; infatti «neppure i grandi racconti di Flaubert e Laforgue hanno potuto fissare in modo conclusivo, nell’immaginazione collettiva, il personaggio e la sua storia» (p. 50). Eppure il mito, arricchendosi nel corso dell’Ottocento, si realizza e si stabilizza nella polisemica ma assoluta protagonista del dramma «sperimentale» di Oscar Wilde.

Del resto, basta leggere l’analisi testuale della Salomè di Wilde, contenuta nel capitolo sulla “drammaturgia”, per vedere smentito il proposito “compilativo” e puramente memorialistico del progetto. Proprio indagando i motivi che possono avere determinato la formazione o formalizzazione del mito, Molinari rileva la perfezione drammaturgica dell’opera, capace di chiudere in una struttura tanto stringente quanto mossa e variata tutti i principali motivi ricavabili dalla tradizione, conservando tuttavia la centralità della protagonista, che si rivela nei suoi due lunghi monologhi, significativamente uno all’inizio l’altro quasi alla fine del dramma. Mentre il perno su cui quest’opera, instabilmente, si sorregge è un’azione mimica affidata a una secca didascalia, che indica il momento della fatidica danza. Senza contare che il protagonismo della creatura eponima non è a discapito della focalizzazione dei molti personaggi e comprimari – Erode molle e indeciso, che tenta di resistere alla danzatrice con una logorroica offerta di beni preziosi; Erodiade fredda e razionale alleata della figlia; Iokanaan descritto dalla stessa Salomè come se il fascino dell’ascetismo si fosse incarnato nel desiderio passionale – secondo un’asse d’equilibrio di raffinata individualità-coralità.

D’altronde – per Molinari – il successo, anche di scandalo, del dramma deriva dal fatto che lo scandalo faceva emergere gli eterni problemi, tornati di stretta attualità. A partire dal tema del rapporto e del conflitto fra i generi, fra gli uomini e le donne; arrivato a configurarsi nella tragedia classica come «simbolo e riassunto dei problemi morali» (p. 51) che determinano la storia umana. Non a caso Hegel individua nell’Antigone sofoclea l’esempio assoluto di tragedia, impersonando i due protagonisti – maschile e femminile – due principi assoluti della dialettica dello spirito, senza giungere a una sintesi. E lo studioso è convinto che l’opera di Wilde sia una “vera tragedia”; non solo perché, muovendo dal conte di Flaubert, lo riduce alle classiche unità di tempo e di luogo (p. 52). Certo è una “tragedia moderna”, guardando alle precedenti occorrenze letterarie come a materiali da rielaborare con atteggiamento creativo, a tratti parodistico; per il simbolismo inquietante e ossessivo di immagini e di metafore; per l’uso spregiudicato della tematica religiosa e di quella sessuale. Eppure la modernità della figura stessa di Salomè – in disequilibrio «tra bimbetta viziata e femme fatale, tra bad girl e amante sublime, tra logorroica e silente» (p. 52) – non ne intacca la tragicità del destino e la dimensione protagonistica. «Moderna certamente dunque, ma altrettanto certamente ispirata alla dimensione tragica della classicità» (p. 52): in questa ambiguità di fondo il fascino perdurante del personaggio; creatura tragica perché colpevole e vittima, condotta dal suo amore fatale a morire sulle labbra dell’amato, eppure dotata di parole e azioni esclusivamente riferite a sé stessa, a esprimere e realizzare quell’oscuro amore («gli ideali le sono un concetto estraneo», p. 53). Uno dei paradossi di questa Salomè è che pur essendo, perciò, antitetica o quantomeno estranea alle grandi figure di donne guerriere (da Jezabel a Giovanna d’Arco) come alle femministe dell’Ottocento – proprio negli anni Novanta la questione femminile era divenuta attuale – s’apre a interpretazioni che ne rilevano anche e perfino la ribellione al mondo che la circonda, ai mondi che la circonderanno ancora, nel tempo grande delle opere d’arte. È probabile – sostiene l’autore – che i contemporanei abbiano visto nella Salomè di Wilde un’espressione estrema della sessualità e della passionalità femminili considerate comunque un rischio. Dal dibattito sulla valutazione morale del personaggio incominciano a delinearsi posizioni antitetiche che troveranno sviluppo nelle epoche successive: femme fatale, epitome della perversione della donna, della sua fame bestiale contrapposta ai desideri spirituali dell’uomo; simbolo del male assoluto oppure della donna nuova (dal momento che Wilde la elaborò al limite tra la fanciulla innocente e la donna sessualmente scaltra); fino alla metamorfosi da peccatrice in santa.

Ho detto prima che la Salomè wildiana e la sua sosia operistica (e danzante) di Strauss costituiscono i due perni attorno ai quali si muove e si sofferma la molteplice quête di Molinari. Infatti al terzo piano del suo volume, occupato dallo “spettacolo”, l’opera lirica di Strauss – il cui libretto ripropone ampiamente il testo di Wilde – riappare e si delinea in una varietà di narrazioni che dalla prima di Dresda arrivano alla replica cui ha assistito Molinari stesso alla Wiener Staatsoper, nell’ottobre 2014, per la regia di Bolesiaw Barlog. E, non a caso, il nodo che lega il testo di Wilde e le messe in scena dell’opera di Strauss è quello della danza, dopo la quale la principessa chiederà ad Erode la testa del Battista – danza che ha ispirato, nel balletto, molte soluzioni coreografiche, anche autonome –, la famosa danza dei sette veli, spogliarello adombrato a partire proprio dai Padri della Chiesa, che assume forme contrastanti fra eros e misticismo. Nel momento della peripezia il poeta inglese rinuncia alla parola per affidarsi allo spettacolo della danza: azione di passaggio alla sciagura, ma gesto in cui la bellezza di Salomè si realizza in tutta la sua potenzialità come arte; eppure quell’azione nel testo di Wilde è ridotta a breve didascalia, invece nell’opera di Strauss diventa davvero motivo centrale di spettacolo, pur bilanciato nella prima assoluta da «ben altro spettacolo: lo spettacolo della morte» (p. 211): non solo perché è Salomè stessa a portare la testa del Battista, tenendola alta sul piatto d’argento, ma perché (in Wilde come in Strauss) lo spettacolo della morte si identifica con quello dell’amore, che comprende il sesso ma non vi si esaurisce. La realizzazione del desiderio di Salomè coincide con la morte dell’amato e con la sua stessa morte, vittimaria ed erotica: sappiamo che «ella baciò a più riprese la bocca del profeta, suscitando lo scandalo non solo dei giornalisti ma anche di Romain Rolland» (p. 211).

Eppure proprio la danza dei sette veli diventa motivo di scissione del personaggio, passando attraverso i corpi delle cantanti e delle ballerine che interpretano l’opera di Strauss: per esempio, Marie Wittich, che all’epoca aveva quarantasette anni, rifiutò di ballare quella danza, limitandosi ad “agire” il momento dell’esibizione della testa; così Olive Fremstad (a New York) venne sostituita da una professionista, Bianca Froelich (piccola e snella). Molinari cita l’episodio non dal punto di vista aneddotico, ma per la sua importanza critica: «Perché qui siamo in presenza di una vera trasformazione: la Salomè che danza non è più la donna magari imponente e autorevole come una regina» – e come erano sia la Wittich sia la Fremstad, Emmy Destinn, e molto più tardi Montserrat Caballé –, «ma una visione – il sogno della grazia e dell’assoluta bellezza della danza» (p. 212). Ecco qui l’occasione di rimarcare l’andamento delle narrazioni del critico, che a un certo punto evade dalla descrizione documentaria (in questa parte fondata perlopiù su materiali fotografici) per trarne, appunto, riflessioni sulla fenomenologia del personaggio: «Salomè non è dunque semplicemente la ballerina di tante composizioni poetiche o narrative: la danza diventa l’altro volto suo e, forse, di tutte le donne innamorate e ferite che, nel contesto drammatico, possono avere l’aspetto imponente e autorevole della regina» (ibid.).

Molinari chiama “descrizioni” quelle effettuate in questa sede, «limitate all’aspetto scenico e visivo, colpevolmente trascurando quello più direttamente musicale» (p. 237), eppure si tratta ancora una volta di vere e proprie narrazioni, racconti dello spettacolo (si ricordi che egli, insieme a Valeria Ottolenghi, è autore di un indimenticato, ad oggi insostituibile “manuale per l’analisi del fatto teatrale”, Leggere il teatro, 1985). Anche perciò le sue analisi, più o meno estese, indubbiamente raggiungono l’obiettivo di mostrare come «le interpretazioni dell’opera di Strauss rendano evidente la contraddittorietà complessa del personaggio di Salomè, che spesso la critica accademica pretende di racchiudere in una brutale definizione: “femme fatale”, “fanciulla perversa”, “donna ribelle”» (p. 237). Da una parte egli suggerisce che le “interpretazioni liriche” siano o siano state “più aperte” di quelle drammatiche del testo di Wilde, facendone anzi riemergere risvolti celati nelle più antiche apparizioni della “misteriosa figura”; dall’altra, rivela il proprio orientamento nei confronti della nouvelle critique, i cui esponenti hanno contrapposto al principio guida della critica accademica, basato sul «significato oggettivo di un’opera», l’idea che l’opera poetica potesse e dovesse essere considerata «da infiniti punti di vista diversi e con diversi strumenti critici», allo scopo di enuclearne significati svariati e non previsti. Per il nostro, tale valore assunto dall’idea di interpretazione e di lettura ha chiarito e allargato il concetto stesso di interpretazione scenica di un testo drammatico o lirico-drammatico (in alternativa all’idea che dovrebbe esserci un’unica rappresentazione di un dato testo: «quella prevista dall’Autore», p. 233).

A ben vedere, la ricchezza del libro sui mille volti di Salomè consiste proprio nella molteplicità delle interpretazioni cui è predisposto il soggetto, e di cui il libro dà conto mostrando come qualità centrale dell’eroina/antieroina «il suo essere mutevole» (p. 261). Se il fascino della bellezza che danza emana da una figura di riferimento sempre diversa, attraverso le sue talora contrastanti personalità, che paiono connaturate e non maschere, anche il fascino del libro che la racconta scaturisce dalla pluralità dei punti di vista, degli sguardi, al di là del rigore metodologico di fondo. Poliedrica (e forse polemica) Salomè, altrettanto la prospettiva che la osserva, la ritrae, la insegue e la attraversa.



di Anna Barsotti


La copertina

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