Credo che in Italia resti poco nota la figura di Roger Planchon (1931-2009), come scarsa eco della sua opera mi sembra riflettersi sullattività dei teatranti contemporanei. Delloriginale artista della scena e del cineasta, attivo lungo mezzo secolo; dellattore e fondatore di teatri, del drammaturgo autore di otto pièces, pubblicate nel Théâtre complet (Paris, Gallimard, 2010), si ricorda forse la sua passione brechtiana, la direzione del T.N.P. trasferito da Parigi a Villeurbanne (dal 1972 al 2001) e qualche raro spettacolo in tournée. Una scelta dei suoi Scritti è ora presentata da Michel Bataillon, suo amico e collaboratore, che lo accompagna attingendo al ricordo della ricca esperienza comune, dagli esordi con la scoperta di Brecht, al lavoro autonomo, fuori dal T.N.P. Bataillon ricorda come Planchon si mostrasse noncurante della conservazione documentaria della propria opera, quando però accettava di depositare alla Biblioteca nazionale i suoi archivi. «Planchon exerçait un métier collectif dévorant. Il fuyait les mondanités inutiles, il acceptait pour preserver sa solitude de passer pour ours et il était pourtant toujours prêt à dialoguer. […] Il présentait la mise en scène comme un carrefour de compétences où il distinguait quatre champs complémentaires et, pour finir, il ne parlait que dun seul, la dramaturgie, cest à dire la poésie dramatique» (p. 15). I testi sono tratti da interviste e vengono commentati, per dare continuità a un discorso altrimenti di per sé frammentario. Non incline a fissare teoricamente metodo e principi registici, lautore era tuttavia scrittore di riconoscibile espressione stilistica. Nel 1955 contribuiva al fascicolo dedicato a Brecht da «Théâtre populaire». Così rifletteva sul «prodigieux travail scénique» che rivelavano i primi spettacoli del Berliner Ensemble, rappresentati in Francia: «Lapport purement scénique de Brecht na pas fini de nous surprendre. Déjà nous savons que le travail énorme du Cartel, de depouillement et de stylisation, est dépassé par le réalisme de Brecht» (p. 21). Linteresse per il maestro berlinese sarebbe continuato nel dialogo con la sua opera, spesso soggetta alla mitizzazione da parte degli epigoni. Le osservazioni riguardano il processo, mai predefinito, sempre preciso ed esigente, del lavoro preparatorio con gli attori, a partire dalle prove a tavolino. Lati fantasiosi emergono nella sua arte, intesa come un esercizio dapprendistato da vivere “a bottega”. Risponde più volte a domande sul senso profondo del suo lavoro: «Mettre en scène, cest organiser ce délire dimages autour des mots» (p. 30). Sintetizza le quattro doti essenziali di un metteur en scène, a cominciare dal «don dinvention scénique. […] Le metteur en scène est quelquun qui sent comment faire entrer un acteur dans un espace». Viene poi la capacità di «savoir diriger les acteurs», il cui modello è Orson Welles. «La troisième qualité, cest un sens plastique exceptionnel», quello ammirato nel sodale Patrice Chéreau. Infine, si richiede «une intelligence apte à saisir le sens profond de lhistoire quil raconte» (pp. 37-38). Sono acquisizioni frutto della frequentazione degli artisti. Anche accettare limprevisto e sfruttarlo, fa parte della progettazione dello spettacolo, come suggerisce in La trouvaille au théâtre, cest lart dutiliser linstant. Più avanti, Planchon rivendica unefficace pratica artigianale, dai risultati tangibili: «Moi, je fais des chaises», afferma, nel ribadire la sfiducia nelle teorie, spesso costruite quasi a monumento dellautore: «Je nai rien contre les universitaires… On peut tout savoir sur lhistoire de la menuiserie et ne pas savoir fabriquer une chaise» (p. 50). Uninnegabile evoluzione Planchon la riconosce nel suo iter: «Je pense que jétais dabord un inventeur scénique, puis petit à petit, je me suis intéressé au travail des acteurs, puis jai complété les choses en mintéressant à la peinture moderne» (p. 55). La collaborazione, per lartista, è esemplata dal rapporto con il suo scenografo, René Allio. La funzione e il trattamento dei classici dipendono dal lungo tempo che li distanzia dallattualità così da consentirne linterpretazione. Ricordando lesempio di Charles Dullin, morto recitando LAvare, si augurava altrettanto, come in effetti gli sarebbe accaduto. Ritrovato manoscritto, non datato, un Journal nocturne, composto dal 1965 al 1980, riporta appunti che suggellano bene il pensiero e latteggiamento duna vita: «La poésie que je crois organiquement indispensable au théâtre, cest dabord une croyance folle […]. Or, la poésie dont je parle, cest dabord la croyance que je comprends très peu, que ce que je comprends… cest toujours linessentiel. […] Tracer dabord le périmètre. Lorsque le domaine est reconnu, alors combattre avec cette matière faite de quelques mots, quelques situations, quelques mythes. Sabîmer dans ce combat» (pp. 85- 86).
di Gianni Poli
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