Il
volume di Sara Soncini è uno studio accurato
sulle strategie formali degli spettacoli teatrali inglesi a tema bellico degli ultimi
due decenni. Un corpus non
trascurabile di rappresentazioni in ambito sia indipendente che mainstream. Da Far Away (2000), Drunk Enough to Say I love you? (2006) e
Seven Jewish Children (2009) di Caryl Churchill a Product (2005) di Mark
Ravenhill; da Yesterday Was a Weird
Day (2005) della compagnia Look Left, Look Right a Pornography (2007) di Simon
Stephen.
Uno dei tratti caratteristici delle nuove forme di conflitto è il progressivo «offuscamento
delle distinzioni tra guerra […] e violazione dei diritti umani su larga scala»
(p. 2, mia la traduzione). Ciò porta a ridefinire il concetto stesso di guerra che
non è «più uno status di eccezione, ma un modus
vivendi» (p. 3, dora in avanti tutte le traduzioni sono mie). Un mutamento
che il teatro contemporaneo registra e tematizza. Così, in teatro, la guerra, pur
costituendo il tema portante, diventa invisibile, viene estromessa dal palco.
Se la prima guerra del Golfo è stata accompagnata da una certa reticenza, con
le eccezioni di The Gulf Between Us (1992)
di Trevor Griffith e di In the Heart of America (1994) di Naomi Wallace, per i conflitti del
nuovo millennio sono da ricordare anzitutto i lavori dei citati Churchill, Ravenhill e Stephen. La
rappresentazione dei nuovi conflitti comporta scelte etiche: lonestà diventa spesso
un tema centrale. Non sono pochi i teatranti per i quali, per raccontare le
guerre iper-mediatizzate della contemporaneità, occorre avviare un lavoro di “demistificazione”.
Si pensi allintervista-manifesto rilasciata dal drammaturgo David Hare al «The Guardian». Emblematici sono i verbatim
plays del Tricycle Theatre: The
Permanent Way (2003) e Stuff Happens
(2004) del già citato David Hare; Justifying
War: Scenes from the Hutton Inquiry (2003), Bloody Sunday: Scenes from the Saville Inquiry (2005) e Called to Account (2007) di Richard Norton-Taylor; Guantanamo: “Honour Bound to Defend Freedom”
(2004) di Nicolas Kent e Sacha Wares; My Name is Rachel Corrie (2005) di Alan Rickman.
Sempre
più centrali, daltronde, sono i valori della parola e del vissuto personale, al
punto da dar forma, sostiene lautrice, a una vera e propria retorica della
testimonianza, figlia del cinema e del teatro documentari. Alla base di tale
tendenza vi è una crescente fiducia nella «memoria individuale quale depositaria
di narrazioni alternative» (p. 109): la figura del testimone è una specie di
«risorsa contro la totale smaterializzazione dei fatti e le lampanti
inadeguatezze epistemologiche dei documenti» (p. 110). Pertengono al filone
della “memoria” tre spettacoli nati in risposta agli attentati terroristici di
Londra: il ciclo Shoot/Get
Treasure/Repeat (2008) di Mark
Ravenhill, Yesterday Was a Weird Day:
Reflections on July 7th 2005 (2005) di Look Left, Look Right e Talking to Terrorists (2005) di Robin Soan.
Un
altro aspetto caratterizzante delle “nuove guerre” è la mancanza di comunicazione
tra i contendenti: nelle guerre globali una semplice distorsione comunicativa può
essere alla base del conflitto. Di qui limportanza crescente della figura del traduttore.
Lattacco in Iraq ha «assestato un colpo finale e fatale alla nozione
tradizionale di traduzione come trasferimento di un contenuto semantico e del
traduttore come un canale neutro» (p. 163). Come nelle istituzioni belliche, in
teatro il ruolo di traduttori e interpreti diventa centrale: si pensi a Attempts on Her Life (1997) di Martin Crimp e alla Iron Curtain Trilogy di David Edgar (The Shape of the Table, 1990; Pentecost,
1994; The Prisoners Dilemma, 2001).
A questi spettacoli si ispirano, più o meno direttamente, il già citato Pornography, Homebody/Kabul (2001) di Tony
Kushner e Betrayed (2010) di George Packer.
La
reinvenzione del teatro documentario in Gran Bretagna e lampia circolazione
raggiunta dalle nuove drammaturgie a cavallo tra i due millenni ha saputo non
solo rappresentare in maniera efficace i conflitti, latenti e non, degli ultimi
venti anni, ma anche stimolare un proficuo dibattito. Il libro, innestando
abilmente le analisi delle singole performances su una base teorica
interdisciplinare e compatta, vuole ribadire il ruolo del teatro nellinterpretazione
della realtà politica in cui viviamo: una constatazione che è anche, allo
stesso tempo, una speranza.
di Raffaele Pavoni
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