Ci sono opere nella produzione di
Carlo Goldoni che solo per un
fortunato caso si sono salvate dalloblio. Opere che apparivano di poco conto
agli occhi dellautore, non interamente soddisfatto del proprio lavoro (come
nel caso delle sue prime prove per il San Samuele) o deluso dallo sfortunato
riscontro di pubblico, ma che egli ha infine deciso di pubblicare, seppure
molti anni dopo il loro debutto sulle scene. È questo il caso
della Scuola di ballo, recitata la prima volta il 22 ottobre del 1759 al
teatro Vendramin di San Luca, replicata una sola
sera e pubblicata da Zatta nel 1792 con il
benestare del commediografo. In questo come nella maggior parte dei casi si
tratta di testi che la critica ha accolto favorevolmente come prove
documentarie, ma di cui ha spesso e a lungo riconosciuto la sostanziale
inconsistenza strutturale, drammaturgica e di contenuti.
La scuola di ballo viene ora pubblicata a cura di Aline Nari nella Edizione
nazionale delle Opere di Goldoni. Nella sua Introduzione
la studiosa contesta le critiche dei commentatori al «carattere artificiale
della lingua e del progetto drammaturgico». Ella ammette che la scelta della
costruzione in terzine sia stata penalizzante per il buon esito della commedia,
ma evidenzia l«efficacia della costruzione che rivela, invece, la
caratteristica abilità goldoniana nel gestire lintreccio e uninteressante conciliazione
tra i due modelli drammaturgici della commedia corale e della commedia di
caratteri» (p. 10). Allaltezza del 1759 la dimestichezza di Goldoni
nellorditura delle trame è però un dato acclarato, che a mio avviso conferma
la debolezza della commedia, la cui vicenda si risolve banalmente in un
quadruplice e prevedibile matrimonio.
È invece assolutamente centrale e
interessante largomento coreutico, attualissimo, che Goldoni maneggia con
straordinaria competenza e sul quale Nari sofferma giustamente la propria
analisi (pp. 12-23). Il carattere più interessante della commedia sta senza
dubbio nella descrizione e nella sottile critica del mondo della danza – con le
sue regole non scritte e i suoi clichés
– affidata principalmente alle parole di Madama Sciormand e di Ridolfo in
qualità di portavoce del poeta, o a quelle di Rigadon e di Don Fabrizio come ridicoli protagonisti di quellambiente
barcollante. Il quadro che ne risulta descrive un sistema non dissimile da
quello deriso da Benedetto Marcello
nel suo Teatro alla moda (1720) o criticato dai diversi trattatisti che, nel corso del Settecento,
hanno dedicato migliaia di pagine al teatro musicale: la satira intorno a Rigadon
che abbandona il mestiere di parrucchiere per fare il coreografo, gli impresari
in angustie, i protettori, i virtuosismi dei ballerini riecheggiano i motivi marcelliani e avvalorano la sentenza disillusa di Giuseppina: «Aborrisco un
mestier che per il mondo / tristi menzogne di chi lusa ha sparte» (IV 4 60).
Come di consueto accade nelle
metacommedie goldoniane, non si risparmiano riferimenti al mondo del teatro di prosa, allinterno del quale
lautore svolge la sua principale attività e ai cui palcoscenici La scuola di ballo è destinata. Il
dialogo tra Don Fabrizio e Felicita offre a Goldoni lopportunità di tirare una
stoccata al Vendramin, al quale ricorda che le sue «opere studiate» «costano
danari», e di affermare la supremazia del teatro “riformato” su quello
dellArte (III 1 73-117). Nella decisione di Felicita di abbandonare il
mestiere di ballerina per quello di commediante si riconosce infine il riflesso
(seppure qui avvolto nellalone satiresco astutamente preparato dal
commediografo) di quella «pluralità performativa» recentemente sottolineata da Anna Scannapieco in un suo saggio
dedicato a I “numeri” delle comiche italiane
del Settecento. Primi appunti
(«Drammaturgia», XII / n.s. 2, 2015, pp. 109-128: 120, consultabile anche in
open access).
Inserita da Goldoni nel progetto
delle “Nove muse”, che doveva prevedere la stesura di nove opere di diverso
registro scritte in metrica e dedicate ognuna a una dea del Parnaso, La scuola di ballo fu una delle poche
che vide la luce nei tempi previsti dal suo autore, insieme a Gli amori di Alessandro Magno e Artemisia, rappresentati in autunno, a Glinnamorati
e a Limpresario
delle Smirne, allestiti nel successivo carnevale;
Enea nel Lazio e Zoroastro andarono in scena lanno seguente, mentre degli ultimi
due non si ha notizia. La fortuna di questi componimenti fu alterna presso i
contemporanei, così come rimane ondeggiante oggi. E se il loro interesse
storiografico rimane indiscutibilmente e quasi uniformemente grande, la
rilevanza letteraria di alcuni di essi – tra cui certamente La scuola di ballo – si conferma, oggi
come al tempo della loro stesura, assai scarsa.
di Lorenzo Galletti
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