Si aggiunge un altro “brillante” alla collana delle opere di
Carlo Goldoni nellEdizione Nazionale targata Marsilio. È la volta di
Artemisia, tragedia scritta in un lampo a Bologna nellestate del 1759 e
rappresentata lautunno dello stesso anno al teatro San Luca di Venezia per
tredici sere consecutive, con una doppia ripresa nel carnevale successivo e
sporadiche rappresentazioni almeno fino al 1803. Ledizione, fondata sullunico
esemplare superstite pubblicato da Zatta, è curata da Marzia Pieri, insigne studiosa
della materia goldoniana, dedita negli ultimi anni allindagine del teatro
tragico: un suo saggio su Artemisia «tragedia possibile», che anticipava alcuni
temi trattati nellIntroduzione al presente volume, è apparso sul secondo
numero della nuova serie degli «Studi goldoniani». Si vedano inoltre i
suoi Ancora su Goldoni tragico e tragicomico, in «Problemi di critica
goldoniana», XVI, 2009, pp. 193-212 e il contributo «… il coraggio di nominarle
tragedie»: gli esordi di Goldoni al San Samuele, in Goldoni “avant la lettre”:
esperienze teatrali pregoldoniane (1650-1750). Atti del convegno di studi
(Santiago de Compostela, 15-17 aprile 2015), a cura di Javier Gutiérrez Carou, Venezia, lineadacqua, 2015, pp. 605-615.
Il concepimento di Artemisia avviene nellambito di un
progetto più grande, che nella mente di Goldoni e nelle speranze del Vendramin,
proprietario del San Luca, doveva sanare il bilancio negativo della stagione
1758-1759 e garantire una buona dose di «novità», assecondando le pressanti
richieste del pubblico veneziano. Il programma prevedeva la rappresentazione di
nove diverse opere sceniche, ognuna dedicata a una musa, caratterizzate
ciascuna da diversi argomenti, registri e metri letterari, e introdotte da un
canto in lode del monte Parnaso. Il pomposo varo dellimpresa, segnato
dallIntroduzione alle recite per la prima sera dellautunno 1759, e
susseguente carnovale dellanno 1760, non conobbe un seguito degno e la prima
tragicommedia in programma, Gli amori di Alessandro Magno, cadde dopo appena
due sere. Il sogno cullato da Goldoni, e in cui Vendramin sperava senza
peraltro confidare, si sgretolò in fretta, al punto che solo cinque
componimenti furono recitati nel corso di quellanno comico (oltre allAlessandro,
La scuola di ballo e Artemisia in autunno, Glinnamorati e Limpresario delle
Smirne a carnevale), mentre due slittarono allautunno dellanno seguente (Enea
nel Lazio e Zoroastro) e due non furono mai scritti o andarono perduti.
La caduta dellambizioso progetto delle “Nove Muse” scosse
Goldoni che nelle sue memorie non ne fa menzione. Parimenti nei suoi scritti
autobiografici manca quasi ogni traccia dellArtemisia, che lavvocato si
limita a rubricare tra le sue opere in coda ai Mémoires, in una posizione
defilata. Pieri attribuisce proprio al fallimento dellintera operazione la
damnatio memoriae della tragedia, che giudica invece centrale nella
drammaturgia di Goldoni, tanto per il consenso che ricevette dai contemporanei
quanto per la qualità intrinseca del testo.
Artemisia narra la vicenda della regina di Caria, vedova di
Mausolo privata del figlio Nicandro alla nascita, in seguito allermetico
avvertimento di un oracolo: «Tremi la madre dellamor del figlio» (I 2 59, I 8
53, V 9 45). Mentre il capitano persiano Farnabaze tenta di sposare la regina e
di impossessarsi del regno, giunge a corte Euriso, pastorello figlio di
Zeontippo, attratto dai racconti sulla magnificenza della tomba del re. La
regina si trova a fronteggiare la brama di Farnabaze da un lato e una
inspiegabile passione per il giovane pastore dallaltro. Ma fedele al defunto
sposo allontana il primo cedendo il regno alla cognata Eumene e ottiene da
Euriso, che le rivela il suo amore e la sua devozione, che lasci il regno. È proprio
Euriso, in procinto di uscire dalle mura, a sventare la congiura dei Persi
contro il regno di Caria. La tragedia si conclude in lieto fine tramite la
canonica agnizione, quando Zeontippo, giunto a corte in cerca di Euriso, rivela
che egli è in realtà Nicandro, e Artemisia benedice il matrimonio di Eumene con
il figlio ritrovato.
Attraverso un approfondito scandaglio del testo e un attento
confronto con la produzione teatrale coeva, Pieri mette in luce il doppio
percorso compositivo di Goldoni, fatto di temi attinti alla drammaturgia
recente, ma esposti secondo un punto di vista nuovo. Quanto alla figura della
regina eponima e alla trama, il commediografo miscela sapientemente
linsegnamento di illustri precedenti, tra cui spiccano la Merope di Scipione
Maffei e la Semiramide di Voltaire. E tuttavia è capace di superare tanto la
staticità intellettuale del veronese quanto il carattere melodrammatico del
francese; egli affonda la penna oltre i modelli di una saporosa tetraggine
dimpronta postmetastasiana, per portare la sua indagine sotto la superficie
della vicenda tragica, fin dentro al fosco gorgogliare dellanima umana.
Goldoni, osservatore del «Mondo» e vero uomo di «Teatro»,
percepisce il bisogno del pubblico di vedere sulla scena la vita stessa,
lattualità politica e sociale. In questi termini si distacca dai suoi
predecessori, facendo a meno del clima “favoloso” che ancora avvolge la vicenda
della Semiramide voltairiana e spingendo losservazione negli angoli oscuri
della coscienza di Artemisia: così, subdolamente, recupera il tema
dellincesto, che benché soltanto suggerito pesa sulla vicenda dei personaggi,
e allo stesso modo esclude lapparizione diafana del fantasma del re, che
comunica col figlio attraverso lurna (III.10).
Lo studio di Marzia Pieri restituisce spazio e dignità a un
testo che anche uno studioso attento come Giuseppe Ortolani definì, quasi un
secolo fa, un «misero aborto» (Opere complete di Carlo Goldoni, Venezia,
Zanetti, 1927, vol. XXV, p. 252). Goldoni stesso, a dispetto dei fuorvianti
silenzi, credeva nella sua operazione e nelle sue qualità di autore tragico;
veste nella quale era nato al teatro, prima con la sfortunata Amalasunta e poi
con Belisario, e nella quale, pur senza rinnegare i suoi successi di
commediografo, desiderava forse essere ricordato.
di Lorenzo Galletti
|
|