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Paola Ventrone

Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento

Storia dello spettacolo. Collana diretta da Siro Ferrone. Saggi 23

Firenze, Le Lettere, 2016, 554 pp., euro 42,00
ISBN 978-8860876768

Pubblichiamo di seguito l’“Introduzione” dell’autrice al volume.


È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione[1]

L’immagine vulgata della sacra rappresentazione è ancora oggi quella ottocentesca di una forma di “teatro medievale” evolutasi dalla lauda drammatica umbra e perfezionata stilisticamente nella Firenze medicea grazie all’apporto dei letterati che si cimentarono nella sua scrittura. Le indagini documentarie e testuali e le proposte interpretative accumulatesi negli ultimi quarant’anni non sono state sufficienti a scalzare questo radicato luogo comune, se non in un ambito strettamente specialistico, come conferma il fatto che si tenda a definire “sacra rappresentazione” pressoché qualunque forma di spettacolo religioso in volgare[2]. In realtà le esperienze del cosiddetto “teatro religioso”, cioè ispirato alle Sacre Scritture o ad altri testi devoti, agiografici e omiletici, furono, in Italia come nel resto dell’Europa, molto varie e la loro sperimentazione ed eventuale istituzionalizzazione furono motivate di volta in volta da esigenze contingenti e significative che è compito dello storico ricostruire senza precomprensioni ma con piena disponibilità a percorrere i sentieri, non sempre lineari, che le fonti suggeriscono.

È quanto ho cercato di fare in questa ricerca ormai annosa nella quale, fin dai primi passi, avevo avvertito l’esigenza di contestualizzare con precisione la sacra rappresentazione fiorentina, e di analizzare le caratteristiche morfologiche e strutturali che la distinguevano dalle altre forme di teatro religioso alle quali mi sembrava che venisse troppo superficialmente assimilata[3]. A rendere improrogabile questa necessità di chiarezza non era stata affatto una volontà inutilmente classificatoria, ma l’urgenza di trovare un nuovo punto di vista rispetto alle indagini positiviste e neopositiviste di un D’Ancona e di un De Bartholomaeis – che continuavano comunque a rimanere il punto di partenza obbligato per ogni esplorazione su questi temi – per poter accogliere e vagliare la quantità di sollecitazioni che la storiografia allora più avvertita veniva proponendo. Si trattava, in particolare, della determinante ricognizione di Ludovico Zorzi intorno al nesso fondativo fra “il teatro e la città”, che costringeva ad assegnare un rilievo, prima insospettato, alla costante interazione del teatro con la storia delle città, delle loro culture e delle loro politiche; dell’innovativo studio di Richard Trexler sulla vita pubblica fiorentina del rinascimento, che aveva aperto alla storia dello spettacolo la consapevolezza della condensazione di dinamiche sociali e simboliche sottesa agli eventi festivi, cerimoniali e di intrattenimento, disvelando anche la varietà senza confini delle fonti utilizzabili; della perseverante pubblicazione di documenti testuali e archivistici di Nerida Newbigin, che aveva reso disponibile una grande quantità di testimonianze inedite sullo spettacolo del Quattrocento; dello sguardo partecipe di Mario Martelli che, nel delineare l’inscindibile intrecciarsi e il continuo mutare del rapporto tra vita e letteratura nella Firenze del rinascimento (caratteristica pure del suo teatro), aveva richiamato all’attenzione le “ragioni umane” che generarono una cultura, anche della rappresentazione e della comunicazione, senza pari per l’epoca[4].

Rispetto a tale tradizione di studi l’ambizione di questo lavoro è quella di mettere in luce, più incisivamente di quanto sia stato fatto finora, la profonda interrelazione che intercorse fra pratiche performative e nuclei di potere. Firenze si presenta, in tal senso, come un naturale territorio di analisi per la ricchezza delle sue tradizioni civili e per lo sviluppo delle attività teatrali ad esse connesse. La peculiarità del suo quadro politico offre numerosi spunti di riflessione, sia per l’eccezionale dovizia documentaria, sia perché proprio il carattere intrinsecamente “instabile” del suo ordinamento prima del principato, sempre minato dai conflitti e dalle tensioni fra fazioni e schieramenti familiari, fu la condizione che contribuì in maniera determinante alla creazione di una vita cerimoniale e festiva particolarmente articolata, che prevedeva una molteplice varietà di tipologie spettacolari (dalle processioni alle celebrazioni patronali, ai giochi cavallereschi, ai cerimoniali diplomatici di accoglienza degli ospiti forestieri, oltre a generi diversi di rappresentazioni religiose) messa a punto per rispondere a necessità di comunicazione e di esibizione di preminenza differenti in relazione agli scopi contingentemente assegnati a ciascuna di esse. L’analisi di queste manifestazioni, se non limitata al loro aspetto meramente performativo, spesso oggetto di un’attenzione storiografica più descrittiva che interpretativa, consente di cogliere le motivazioni che, di volta in volta, determinarono la scelta dei diversi temi, modi e tecniche del rappresentare, rivelando la maniera in cui gli ideali culturali e i progetti politici diventarono comportamenti e produssero oggetti e scritture.

Tra la fine del Trecento, quando si stabilizzò un “reggimento” oligarchico, e i primi due decenni del Cinquecento, quando l’irreversibilità della crisi dell’ordinamento repubblicano divenne del tutto evidente, furono sperimentate, selezionate e consolidate le feste attraverso le quali la città costruì la propria identità, e alle quali affidò la proiezione esterna della propria immagine, a partire, soprattutto, dalla celebrazione patronale di San Giovanni. Con il principato, invece, il significato e la funzione del teatro nella società cambiarono profondamente, perché le scelte delle tipologie di spettacoli e dei loro luoghi di allestimento furono dettate da altre motivazioni, più propriamente dinastiche, propagandistiche, ludiche e ricreative, ma non furono più espressione vitale e autonoma delle tensioni e delle energie sociali della città.

A partire da questi presupposti il fulcro della ricerca è consistito in una capillare e approfondita riconsiderazione della messe di fonti cronistiche, documentarie, drammaturgiche, letterarie, iconografiche – alcune note, altre meno, altre del tutto inedite –, non per ritornare a una sorta di neopositivismo dedito all’accumulo di nuove testimonianze non sempre vagliate con adeguato senso critico, ma per riservare loro un’attenzione qualitativa e rispettosa nell’ascoltarne i segni, concertandole, senza sovrastarle con interpretazioni arbitrarie o forzate. Di qui, ad esempio, la curiosità di conoscere più da vicino figure finora non sufficientemente valorizzate quali l’arcivescovo Antonino Pierozzi o l’umanista-speziale Matteo Palmieri, o il camaldolese Ambrogio Traversari, che alla luce delle rispettive vicende biografiche e delle loro opere si sono rivelati personaggi di assoluto primo piano nella “rivoluzione” teatrale e cerimoniale degli anni di Cosimo il Vecchio. Di qui anche la necessaria ricchezza dell’apparato iconografico, che non vuole essere una mera illustrazione visiva delle fonti scritte, ma un’ulteriore prova dell’esigenza di intrecciare testimonianze diverse e contestualmente spiegate per ricostruire la complessità del sistema spettacolare.

Il corpus figurativo risulta particolarmente illuminante per la poliedricità del suo contenuto testimoniale e dei piani di lettura che esso comporta. Alcune immagini recano, infatti, “riflessi” o “sedimentazioni” di spettacoli, come le raffigurazioni dei cieli animati dal volo di angeli cantori e musici, che accolsero il nuovo immaginario del paradiso proposto ai fedeli dalle macchine aeree brunelleschiane, subito entrato nel lessico figurativo degli artisti, fiorentini e non. Altre, come i frontali di cassone, furono esse stesse parte della festa in quanto manufatti suntuarii pubblicamente esibiti nei riti nuziali, dei quali talvolta evocavano alcune consuetudini (il banchetto, la danza, il corteo di accompagnamento della sposa), mentre talaltra richiamavano precisi avvenimenti spettacolari per continuare ad alimentarne il ricordo una volta rinchiusi nell’intimità delle mura domestiche. Altre ancora, come le opere dal gotico esuberante di un Gentile e di un Benozzo, o dall’elegante classicismo di un Botticelli e di un Ghirlandaio, espressero con stili diversi, che erano in primo luogo linguaggi politici di preminenza, il cambiare dei gusti delle élites e il loro modo di autorappresentarsi nella vita civile e cerimoniale. Altre visualizzano meccanismi mentali, come quelli legati all’ars memorativa, comuni anche alla rappresentazione teatrale e alla sua funzione educativa e catechetica. Altre, infine, pur essendo concreti cimeli di apparati, come i pannelli del Pontormo per il carro della Zecca della processione di San Giovanni Battista, paradossalmente non contengono nessuna “suggestione teatrale”, proprio per essere lacerti di una macchina il cui aspetto e significato potevano palesarsi e concretizzarsi solo nel loro assemblaggio.

L’approccio alle fonti di questo lavoro ha favorito l’acquisizione di nuove conoscenze su molte delle pratiche di spettacolo di cui abbiamo notizia, come nel caso delle feste del 1439, alle quali è dedicata anche l’appendice che pubblica, per la prima volta in italiano, le versioni integrali delle uniche descrizioni coeve esistenti: quelle del vescovo russo Abramo di Suzdal. Le nuove traduzioni dei resoconti di Annunciazione e Ascensione, riscontrabili sul testo cirillico a fronte, sono introdotte dall’illustrazione della loro accidentata tradizione testuale, che ne ha reso fino ad oggi lacunosa e insoddisfacente l’interpretazione.

Il tema di fondo del discorso, incentrato sul rapporto fra teatro e ceti dirigenti, ha imposto un impianto rigorosamente cronologico, che potesse rispecchiare le fasi di formazione e di trasformazione delle varie tipologie spettacolari, analizzate alla luce del processo di definizione dell’assetto politico avanti il principato e delle corrispondenti aspettative e necessità sociali. L’ordinata successione degli eventi festivi e cerimoniali ha consentito di individuarne i momenti di continuità e di discontinuità, e di comprendere con maggiore chiarezza le ragioni della loro istituzione, della loro durata e, in certi casi, dell’esaurimento della loro utilità civica, come anche di distinguere le manifestazioni eccezionali da quelle entrate nella tradizione.

I punti focali del primo capitolo sono, da un lato le varie forme cerimoniali e di intrattenimento sperimentate nel turbolento periodo comunale, segnato da accese lotte intestine e da un’ancora incerta identità politica, e dall’altro l’istituzione della celebrazione patronale di San Giovanni come primo tentativo di rappresentazione unitaria della civitas. Alcune manifestazioni, come la festa in Arno del 1304, rimasero eventi isolati, perché legate a situazioni contingenti; altre, come giostre e armeggerie, si stabilizzarono nelle consuetudini fiorentine perché il linguaggio cavalleresco e l’immaginario gotico internazionale che mettevano in gioco rispondevano perfettamente all’esigenza di visibilità e di differenziazione delle élites dirigenti, nobilitandole con il conferimento di un carisma che non apparteneva loro per nascita, a causa della prevalente provenienza mercantile e finanziaria dei propri membri.

Il secondo capitolo, incentrato sul periodo dell’egemonia oligarchica guidata dagli Albizzi, analizza l’introduzione di nuove feste, come quelle dei Magi e delle confraternite di laudesi di Oltrarno (le rappresentazioni dell’Ascensione, della Pentecoste e dell’Annunciazione, caratterizzate da complessi ingegni scenotecnici), destinate a diventare una componente peculiare della cerimonialità cittadina, e delinea inoltre la riconfigurazione della celebrazione del Battista con l’inserimento nella processione ecclesiastica degli “edifizi”: una sorta di luoghi deputati ambulanti sui quali gli spettacoli di alcune confraternite (Magi, Annunciazione, Ascensione e altri) venivano rappresentati pubblicamente. Come appare evidente da questo ponderato riassetto cerimoniale, il gruppo di potere albizzesco fu il primo a comprendere appieno l’efficacia e la potenza dello spettacolo come strumento della comunicazione politica, adatto sia per esibire le alleanze consortili sulle quali era basato l’equilibrio del reggimento, sia per alimentare il carisma indispensabile a legittimare la preminenza delle famiglie al governo, sia per costruire un sentimento civico collettivo capace di convincere i fiorentini a sentirsi tutti ugualmente responsabili del “buono e pacifico stato” della civitas, e a confidare nelle possibilità di promozione sociale che il merito individuale garantiva a ciascuno di loro.

L’avvento dei Medici nel 1434, affrontato nel terzo capitolo, non mutò nella sostanza il sistema cerimoniale e festivo impostato dal precedente reggimento, ma ne accolse l’eredità pianificando una più accurata e lungimirante strategia, che offrì un consistente supporto al consolidamento dell’egemonia familiare. La prima circostanza, che mise in luce l’abilità diplomatica di Cosimo il Vecchio e l’ampiezza delle sue relazioni internazionali, fu il trasferimento a Firenze, nel 1439, del Concilio per l’unione delle Chiese Orientale e Occidentale, in occasione del quale le ormai tradizionali feste dell’Annunciazione e dell’Ascensione furono eccezionalmente rielaborate per veicolare un messaggio dottrinale a sostegno della posizione filo-unionista di papa Eugenio IV. Per la loro realizzazione furono mobilitati i principali teologi e intellettuali cittadini e fu incaricato il maggiore architetto del momento, Filippo Brunelleschi. Questo fondamentale episodio contribuì a confermare le incomparabili potenzialità propagandistiche ed espressive del teatro rispetto agli altri linguaggi della comunicazione allora vigenti. Nel decennio successivo l’esito positivo degli spettacoli del 1439 incoraggiò un più sistematico investimento sul teatro per l’istruzione dei cittadini, inducendo l’arcivescovo Antonino Pierozzi e alcuni letterati filomedicei a progettare un nuovo sistema educativo improntato al recupero della pedagogia latina e greca, soprattutto attraverso l’esercizio della recitazione, e alla formazione etica e religiosa del “laico devoto” fin dalla puerizia. Il reggimento mediceo, regolamentando le compagnie di fanciulli e giovani, la cui prima fondazione risaliva già agli anni albizzeschi, promosse, infatti, una sorta di “educazione di massa”, che mise concretamente in pratica con l’invenzione della sacra rappresentazione. Questo originale genere drammatico in ottava rima fu pensato per accogliere il complesso di valori che avrebbe dovuto ispirare la società fiorentina del futuro, provvedendo a trattare in maniera politica i soggetti religiosi e morali prescelti, con una consapevole predilezione per temi incentrati sui rapporti familiari (Abramo e Isacco, Figliuol prodigo, Giacobbe ed Esaù), che voleva accentuare l’enfasi paternalistica sulla quale si andava focalizzando l’ideologia del regime di Cosimo il Vecchio, non a caso soprannominato Pater Patriae. Il riconoscimento dell’utilità educativa di questa nuova drammaturgia per tutta la cittadinanza fu sancito dal suo inserimento nella festa di San Giovanni. Con la riforma del 1454 il corteo degli edifizi fu riordinato in un organico ciclo salvifico, nel quale testi di sacre rappresentazioni inscenarono la storia dell’uomo dalla Creazione al Giudizio universale, con lo scopo di mostrare la città e le sue istituzioni impegnate nella costruzione di quel bene comune che le avrebbe portate alla finale redenzione, grazie alla protezione del santo patrono e all’illuminato governo mediceo.

La potenza educativa della drammaturgia in ottava rima fu tale da radicarla nella cultura cittadina al punto da accompagnarne le trasformazioni politiche e culturali fino al tempo del principato. È questo l’oggetto dei capitoli quarto e quinto, che delineano i mutamenti della cerimonialità fiorentina in relazione agli indirizzi politici e culturali intrapresi da Lorenzo de’ Medici e perseguiti dai suoi eredi durante il pontificato del figlio Giovanni, papa Leone X. Ai tempi del Magnifico l’uso della recitazione nella tradizione pedagogica cittadina era ormai così consolidato da alimentare altri esperimenti drammaturgici e didattici, come quelli in latino del maestro dei chierici della cattedrale Pietro Domizi, o dell’Andria di Terenzio e dei Menaechmi di Plauto. Nel contempo, il favore incontrato dalla sacra rappresentazione a tutti i livelli sociali – e testimoniato dall’ingente numero di manoscritti superstiti e dall’enorme fortuna tipografica, che dalla fine del Quattrocento ne rese capillare la diffusione –, ne aveva confermato l’efficacia persuasiva, inducendo gli autori a impiegarla per orientare la pubblica opinione e per servire ai fiorentini come strumento di costante autocritica e riflessione su se stessi e sulla loro vita sociale. Lo stesso Lorenzo affidò il proprio testamento politico a una sacra rappresentazione sulla storia dei santi Giovanni e Paulo, recitata dai suoi figli nel 1491 e subito andata a stampa, certo della risonanza immediata che avrebbe ottenuto; mentre un autore prolifico come Castellano Castellani non esitò a sceneggiare gli episodi di cronaca e i violenti scontri urbani che agitavano la città al tempo di Savonarola, e a ribadire la centralità del genere per la formazione civile e cristiana dei cittadini al tempo di Leone X, quando il rientro dei Medici dopo l’esilio aveva reso quanto mai urgente una diffusa opera di propaganda in favore della famiglia nuovamente al potere. Anche in questi anni la festa patronale di San Giovanni, la cui storia il volume ha delineato e percorso capitolo per capitolo, dal “prologo comunale” al simmetrico “epilogo ducale”, continuò ad assolvere il compito di riflettere l’identità della città, dei suoi gruppi sociali e delle sue istituzioni, accogliendo al suo interno le novità elaborate dalla cultura antiquaria e neoplatonica che si era ormai affermata fra i dirigenti e gli intellettuali organici. Solo il principato, con il suo radicale cambiamento istituzionale, riuscì a mutarne la simbologia e il significato, pur senza prevederne la soppressione, a conferma del ruolo fondamentale che essa continuò sempre a rivestire nel rapporto dei fiorentini con i loro governanti.

Acquisizione centrale della ricerca è la constatazione che, nella Firenze del Quattrocento, si trovarono a convivere quattro diverse tipologie di “spettacolo religioso” che impiegavano altrettanti e differenti linguaggi performativi per svolgere le rispettive funzioni: la celebrazione del Battista, con la quale il ceto dirigente propagandava l’apparenza di una repubblica armoniosamente concorde e idealmente perfetta; il corteo dei Magi, che consentiva ai principali membri dell’establishment di affermare la propria preminenza ostentando per le strade uno sfarzo regale altrimenti politicamente inaccettabile al di fuori del tempo festivo; le feste di Oltrarno, che volevano alimentare la fede dei credenti creando l’immaginario del paradiso attraverso la sua visualizzazione per mezzo delle macchine sceniche brunelleschiane; la sacra rappresentazione propriamente detta, che costituiva una vera e propria forma di “teatro civile” finalizzata all’educazione dell’optimus civis e alla costruzione del consenso. In particolare queste due ultime si proponevano anche come un sistema binario e complementare di “edificazione” dei cittadini (in senso sia etimologico che figurato): le une, mostrando il paradiso come premio ultimo dei fedeli meritevoli; l’altra, indicando loro la via, la “linea di condotta” da seguire per raggiungere quella meta.

Nonostante l’eccezionalità dell’esperienza fiorentina, questa varietà costituisce un importante segnale della necessità di evitare generiche e poco proficue definizioni come quella, ancora troppo diffusa, di “teatro religioso medievale”, aprendosi alla ricerca delle differenze, prima che delle somiglianze, e all’attenta valutazione delle fonti in relazione ai sistemi politici e sociali di cui sono testimonianza. Per questa ragione mi auguro che l’impianto complessivo del lavoro offra una traccia chiara di tale approccio critico e possa essere di una qualche utilità per future indagini su altri centri urbani.



[1] Francesco Guicciardini, Ricordi, Introduzione e commento di Carlo Varotti, Roma, Carocci, 2013, 6, pp. 51-52.

[2] Si veda, per fare solo uno dei molti esempi possibili, la recente Enciclopedia Garzanti del Medioevo, della collana “le garzantine”, uscita in prima edizione nel 2007.

[3] La particolarità drammaturgica della sacra rappresentazione fiorentina nel panorama del teatro italiano del Quattrocento si evince con chiarezza dalla lucida sintesi comparativa di Siro Ferrone, Il teatro, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, III. Il Quattrocento, Roma, Salerno, 1996, pp. 955-992: 955-961 e passim.

[4] Le opere di questi studiosi, qui ricordati nella successione in cui hanno intercettato i vari momenti del mio lavoro, sono ampiamente citate e discusse nel corso del volume, oltre che riportate nella bibliografia finale, perciò mi limiterò a richiamare un solo titolo per ciascuno di loro: Ludovico Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977; Richard C. Trexler, Public life in Renaissance Florence, New York, Academic Press, 1980; Nerida Newbigin, Feste d’Oltrarno. Plays in churches in fifteenth-century Florence, Firenze, Olschki, 1996; Mario Martelli, Firenze, in Letteratura italiana. Storia e geografia, II. i: L’età moderna, diretta da Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1988, pp. 25-201.

   
  
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