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Giuseppe Fornari

La conoscenza tragica in Euripide e in Sofocle


Massa, Transeuropa, 2014, 423 pp., euro 25,00
ISBN 978-887580224-0

La raccolta di saggi di Giuseppe Fornari sulla «conoscenza tragica in Euripide e Sofocle» propone una radicale rivisitazione critica e interpretativa di uno dei pilastri della civiltà europea e della cultura occidentale: la tragedia greca.

La ragione principale di questa rivisitazione discende, paradossalmente, dal successo e dall’ammirazione che continuano ad avere presso il pubblico odierno le tragedie classiche. L’illusione di trovarsi di fronte ad opere di valore perenne o a verità “universali” ostacola infatti la profonda comprensione del teatro greco, legato a motivazioni religiose e rituali, completamente ignote o ignorate dal pubblico e da non pochi studiosi contemporanei.

Per Fornari il patrimonio tragico aveva già subito, con l’avvento del cristianesimo, un processo di distruzione per ragioni teologiche. Un non minor rischio, ma stavolta di svuotamento interno della religione dionisiaca, corre tale patrimonio per via del processo di corrosione ed emarginazione innescato dallo spirito antiumanistico della società tecno-scientifica dell’era globale. La sfida di Fornari è quella di ridare sangue e vita ad un patrimonio incrostato e quasi ingessato da letture critiche e filologiche, più formali che di sostanza.

Le tragedie greche non sono solo capolavori teatrali o movimenti letterari, ma «inestimabili documenti di pensiero». Per questo motivo, pur dotato dei più aggiornati approcci filologici, storici e antropologici, il libro di Fornari vuole essere «un libro di filosofia e di storia del pensiero» (p. 11). Rispetto, però, a molti filosofi e letterati che insistono sul concetto di tragico o sul linguaggio tragico, Fornari pone al centro delle sue analisi l’atto teatrale e la performatività della tragedia. Giustifica tale scelta con il fatto che la parola, il logos greco, in tutte le sue manifestazioni, dalla poesia alla filosofia, era innanzi tutto un’«esperienza», «uno stato provocato da una forza divina» (ivi).

Il vertice di tali manifestazioni era il teatro. La peculiarità della cultura greca è stata quella di aver trasferito da un contesto sacro e rituale a un contesto civico e politico, ma anche sapienziale e filosofico, il potere del logos. Con il risultato di rivelare, nella filosofia e più ancora nella tragedia, delle verità imbarazzanti circa le sue origini. Quali?

Secondo le note teorie di René Girard, di cui Fornari è il massimo chiosatore italiano, alla base di ogni sistema culturale sta il sacrificio di un capro espiatorio, l’assassinio collettivo di una vittima che attira su di sé la violenza intestina altrimenti distruggitrice di qualsiasi consorzio umano. Il capro espiatorio funziona, quindi, come strumento di controllo sociale e simbolico della violenza. Per Girard «il meccanismo della rivalità collettiva che si scarica su una vittima domina tutte le comunità umane ed è stato trasformato in istituzione religiosa permanente dei riti sacrificali, che sono supportati dai miti che ci raccontano la stessa vicenda nella versione deformata e trasfigurata dei sacrificatori, ansiosi di scaricare ogni colpa sul capro espiatorio da loro prescelto» (p. 25).

Fornari però prende decisamente le distanze da Girard, per il fatto che l’antropologo francese considera il mito nella sua versione teatrale (la tragedia greca) ancora come opera di occultamento e mistificazione del sistema sacrificale vittimario. Fornari, al contrario, vuol dimostrare quanto e come la sapienza sacrificale dei tragici greci abbia costituito, almeno nel suo periodo di massimo fulgore, una fondamentale rivelazione o acquisizione non solo cognitiva, ma anche rituale e performativa del sistema sacrificale riconducibile a Dioniso, il dio bambino fatto a pezzi dai Titani.

I greci sapevano che non ci si può opporre a Dioniso, il dio dell’identità indifferenziata, della fusione indiscriminata ottenuta a prezzo della lacerazione, della violenza sacra. Da Dioniso bisognava tenersi «a distanza appropriata, come facevano gli spettatori ateniesi, che interponevano il filtro della maschera e del palcoscenico», si proteggevano con la «corazza dell’illusione teatrale» (p. 308). Citando in esergo Plutarco, che racconta come i siracusani risparmiassero la vita ai prigionieri ateniesi capaci di recitare a memoria versi di Euripide, Fornari spera che anche oggi il tragico (e dunque il teatro) possa valere «come talismano e lasciapassare di sopravvivenza» (p. 14).

Contro Girard, lo sforzo di Fornari è quello di dimostrare che, lungi dall’essere complici della logica vittimaria degli antichi sacrifici, i tragici greci, in particolare Euripide e Sofocle, ebbero piena consapevolezza dei fondamenti violenti della cultura umana e che per primi ne analizzarono i processi che ad essi conducono.

Per dimostrare la sua tesi, Fornari fornisce, in sette capitoli, un’accurata dissezione del corpo testuale di alcuni dei capolavori di Sofocle ed Euripide, considerati, rispetto ad Eschilo, i più acuti indagatori e “svelatori” del “labirinto” tragico. Al centro del primo e celebre labirinto di Creta stava, infatti, l’occulto sacrificio di vittime.

Il capitolo iniziale, per questo motivo, è dedicato ad un’opera giunta molto lacunosa di Euripide: I cretesi (433 ca. a.C.). I miti religiosi cretesi, per il loro ruolo archetipico della civiltà mediterranea, offrono a Fornari lo spunto perfetto per spiegare la sua teoria della mediazione estatico-oggettuale. L’accanita analisi dei frammenti e dei lacerti de I cretesi ruota infatti attorno alla questione della fondazione della monarchia sacra, in cui la mediazione originaria – Minosse come vittima sacrificale – muta attraverso una mediazione sostitutiva con il sacrificio di tori. Minosse è un «re taurino per il motivo che c’è sempre un toro regale da immolare al suo posto» (p. 40). La teoria mediatoria o estatico-oggettuale sostiene che «all’origine della cultura ci sono mediazioni collettive a carattere estatico e che l’oggetto, la realtà, costituiscono la meta intrinseca del loro processo» (p. 42). Nella mediazione estatico-oggettuale si instaura un dinamismo che spiega come dall’evento estatico di fondazione delle culture più arcaiche si sviluppino «oggetti sacralizzati in grado di sostituire i primordiali oggetti sacrificati. Fra questi oggetti sostitutivi hanno svolto un ruolo strategico sia le vittime congeneri appartenenti ad altre comunità, sia le vittime sacrificali» (p. 39). Nel caso cretese si fa riferimento alla domesticazione di bovini e alla proprietà di mandrie, in cui abbondano “tori regali”.

L’esempio massimo di abbaglio critico e interpretativo, antico e contemporaneo, che Fornari mette in luce è quello relativo ad Edipo, al cui dittico sofocleo (Edipo re ed Edipo a Colono) sono dedicati il capitolo terzo, il settimo, conclusivo, e una parte del secondo, in cui l’esule Edipo è confrontato con Medea e si approfondisce il tema del pathos, della magia, dei due stranieri, come sorgente del logos. Nessun critico ha mai messo in dubbio la realtà sia pur narrativa del re di Tebe, colpevole di crimini mostruosi. Per i tebani Edipo sarebbe reo di parricidio e di incesto. Ma sono colpe vere? O sono quelle che i tebani addossano ad Edipo per liberarsi dalla pestilenza? Sulla natura di capro e vittima espiatoria di Edipo, Fornari ingaggia un serrato confronto con le interpretazioni di Girard, di Propp, Lévi-Strauss, Frazer e con le critiche dei grecisti come Paduano, Serra, Guidorizzi, senza naturalmente trascurare l’Edipo freudiano e gli anti-Edipi moderni. Sono soprattutto le riscritture dei drammaturghi, a partire da Seneca fino ad arrivare all’Oedipus und die Sphynx di Hugo von Hoffmansthal, a fare di Edipo la figura chiave della cultura occidentale. Ne esce, alla fine, la dimostrazione dell’identità di Edipo con la Sfinge, con il suo enigma che rimanda al destino del nome di Edipo, che significa “piedi gonfi”. Edipo è l’emblema dell’umanità. Il cammino dell’uomo, dalla nascita alla morte, è segnato dalla zoppìa e dalla mostruosità. L’uomo, conclude Fornari, ha un «duplice piede»: «quello slanciato verso l’alto delle leggi divine e quello precipitante in basso della hubrys umana» (p. 389).

Edipo è l’uomo diviso tra la volontà di scolparsi e quella di compiere il bene del popolo, accettando le conseguenze di una colpa non voluta. «Edipo è il mostro fisico e morale della sua città e, appunto per questo, ritualmente ne è il mediatore, potenzialmente ne è il salvatore» (p. 391). Tebe, nel primo dramma sofocleo su Edipo, non decide e non risolve la propria peste intestina, accogliendo il potenziale di salvazione dal male attraverso il male che è Edipo. È ciò che, invece, farà Atene, come si legge nel finale dell’Edipo a Colono di Sofocle. L’autore tragico propone l’antica mediazione religiosa come soluzione della violenza intestina tebana (allusione alla crisi interna ad Atene dovuta alla guerra del Peloponneso). La prova più grande dell’ancoraggio di Edipo all’antico mondo mitico-religioso della violenza sacra è proprio la disumanità delle sue relazioni mostruose, la più celebre delle quali è la maledizione scagliata contro il figlio Polinice.

L’attenzione alla creaturalità, all’umanità e alla pietà verso le vittime, noti apporti della rivelazione cristiana, non compaiono in Sofocle, ma in Euripide, il drammaturgo tragico che più di tutti, secondo Fornari, ha spalancato gli occhi sugli orrori della mediazione sacrificale, ma che anche, per primo, ha preannunciato, attraverso le parole del servo di Ifigenia (in Ifigenia in Aulide), il senso di pietà verso la vittima, denunciando nel contempo l’inconsistenza della mediazione sacro-religiosa e infine della stessa tragedia e dello stesso teatro.

Nell’Ippolito Euripide mette in scena la storia di Fedra che si innamora del figliastro e, rifiutata, si impicca, accusando Ippolito di averla violentata. Il padre Teseo, accecato dall’ira, non sente ragioni e la sua maledizione porterà alla morte del figlio. Per noi moderni il tema dominante dell’Ippolito parrebbe la passione erotica, mentre per i greci il dramma metteva in luce la questione di quali siano i confini e le norme che devono governare i rapporti tra maschile e femminile e quali debbano essere le mediazioni “giuste” per il desiderio erotico. Da questa prospettiva la castità di Ippolito risultava mostruosa e sospetta perché infeconda. Altrettanto sospetto risultava il profondo legame con il sacro-violento di Fedra, figlia di Minosse e sorella di Arianna. La ierogamia, l’atto di fondazione e fecondazione della terra e della comunità, doveva finire nel sangue e nel sacrificio. La morte tragica di Ippolito e di Fedra dimostra la crisi delle mediazioni sacrificali antiche, ma anche i nuovi problemi della polis.

Nella tragedia di Andromaca, oggetto del capitolo quinto, si vede bene come questa crisi colpisca la famiglia, il microcosmo affidato alla mediazione femminile, complementare al microcosmo pubblico, affidato alla mediazione maschile. Il venir meno della prima mette in crisi il secondo, come succede nella vicenda di Andromaca, la schiava che dà un figlio a Neottolemo, che non è riuscito ad averne uno dalla legittima sposa Ermione, figlia di Menelao, il re di Sparta. La sterile Ermione esige vendetta e distruzione, prima dal padre, che però non riuscirà ad uccidere Andromaca e il figlio Molosso, e poi da Oreste, il suo antico promesso sposo, che a Delfi organizzerà il linciaggio sacrificale di Neottolemo. La cattiva mediazione familiare, la crisi della famiglia, porta alla crisi della vita associativa, alla crisi della stessa polis.

A Dioniso, divinità centrale per la comprensione della mediazione sacrificale, e al dionisismo, a cui non solo l’arte tragica ma anche i misteri orfici ed eleusini erano strettamente legati, Fornari dedica un capitolo chiave del libro. Il testo fondamentale è l’ultimo dramma di Euripide, Le Baccanti, che è un inno alla consapevolezza della necessità dionisiaca, rifiutata dai moderni. «In questa irruzione di un orrore inguardabile sta l’ultima dionisofania, quella con cui noi moderni dobbiamo confrontarci, privi dell’ausilio delle maschere e delle coperture della più alta meditazione antica su Dioniso» (p. 326). Il dio, esaltato e rilanciato in molti modi nella cultura occidentale, il dio morto di Nietzsche, ma anche il dio acefalo, massacrato di Bataille è, in realtà, non riconosciuto dai moderni, come fece Penteo. Ciò che viene rifiutato dai moderni è il fondamento razionale del dionisiaco. La genesi profonda della ragione umana prende avvio dalla «struttura interna del rito e del mito, tramite la sua lunghissima preistoria e storia magica e performativa» (p. 314). La “teoria”, la mediazione oggettuale, conoscitiva dell’uomo nasce dalla rivelazione e messa a distanza della violenza umana, del suo orrendo dispiegarsi senza senso, come avviene nelle Baccanti in cui la madre Agave, con le altre donne invasate, fa a pezzi il figlio Penteo, il negatore di Dioniso.

Per Fornari l’erede di Dioniso, il dio che porta a salvazione l’umanità, è il Cristo crocifisso. Cristo «ha fatto sua la logica dionisiaca per rovesciarla in un’ultima offerta salvifica, quella che accetta il sacrificio di sé pur di non sacrificare più gli altri» (p. 326).

L’erede invece della conoscenza tragica è il sapere della filosofia, incarnato dal progetto politico di Platone che trasformò l’evento più tragico del pensiero occidentale, la morte di Socrate, in evento sapienziale. Platone rielabora la figura di Socrate «facendone il paradigma del nuovo sapiente», «al Penteo contagiato da Dioniso subentra l’uomo della conoscenza, che oppone alle forze della violenza collettiva la refrattarietà del suo distacco dalle passioni» (p. 416). Con Platone nasce la polis ideale, tanto più affascinante quanto più irrealizzabile e quindi confinata a paesaggio dell’anima. La verità della violenza, di fatto, è nel sapere filosofico espunta, non riconosciuta. Il segreto di Dioniso, nell’età ellenistica e romana, non viene però ignorato, ma anzi si diffonde come «nebulosa sacrificale e politica» (ivi). Pur solo dal lato estetico il segreto è diffuso anche dal teatro, privo dei grandi indagatori e autori del V secolo.

Accanto al pensiero greco, la cui vetta per Fornari è appunto il pensiero tragico, il secondo pilastro culturale dell’Occidente è il cristianesimo, che concilia nel suo disegno universale il meglio della spiritualità ebraica e le spinte universali ellenistico-romane. In questa prospettiva «la vicenda centrale di Gesù crocifisso e risorto risulta pienamente leggibile se la collochiamo sullo sfondo specifico, quanto poco rassicurante e inquadrabile, dei massimi raggiungimenti toccati dal teatro tragico» (pp. 419-420). La conclusione è che «la Passione che ci narrano i vangeli è in tutto assimilabile a una tragedia. Gesù viene ad occupare il posto di Penteo, di Neottolemo, di Edipo» (p. 420), ma con due differenze fondamentali. La prima è che Gesù è presentato come assolutamente innocente, cioè una vittima che non è più in grado di nuocere in alcun modo. Il che imporrà una mediazione suprema che consiste «nell’accettazione e nel disvelamento del prezzo che sono storicamente costate tutte le mediazioni umane» (ivi), soprattutto le sofferenze, il dolore, le morti così acutamente indagati dalla tragedia greca. La seconda differenza del Gesù tragico rispetto ai suoi predecessori è la resurrezione «il ritorno del mediatore cristico, nella sua oggettualità personale e corporea, in una nuova condizione di mediazione e di oggettualità redentrice» (p. 421), un’esperienza di riscatto per tutta l’umanità. La vicenda storica e simbolica di Cristo non sarebbe, in definitiva, comprensibile alla sola luce delle Sacre Scritture, ma prende luce anche, e soprattutto, da quello «stranissimo “testamento”» (p. 423) costituito dal teatro tragico greco.

 

di Claudio Bernardi


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