La
raccolta di saggi di Giuseppe Fornari
sulla «conoscenza tragica in Euripide e Sofocle» propone una radicale rivisitazione critica e interpretativa di uno
dei pilastri della civiltà europea e della cultura occidentale: la tragedia
greca.
La
ragione principale di questa rivisitazione discende, paradossalmente, dal
successo e dallammirazione che continuano ad avere presso il pubblico odierno
le tragedie classiche. Lillusione di trovarsi di fronte ad opere di valore
perenne o a verità “universali” ostacola infatti la profonda comprensione del
teatro greco, legato a motivazioni religiose e rituali, completamente ignote o
ignorate dal pubblico e da non pochi studiosi contemporanei.
Per
Fornari il patrimonio tragico aveva già subito, con lavvento del
cristianesimo, un processo di distruzione per ragioni teologiche. Un non minor
rischio, ma stavolta di svuotamento interno della religione dionisiaca, corre
tale patrimonio per via del processo di corrosione ed emarginazione innescato
dallo spirito antiumanistico della società tecno-scientifica dellera globale.
La sfida di Fornari è quella di ridare sangue e vita ad un patrimonio incrostato
e quasi ingessato da letture critiche e filologiche, più formali che di
sostanza.
Le
tragedie greche non sono solo capolavori teatrali o movimenti letterari, ma «inestimabili documenti di pensiero». Per questo motivo, pur dotato dei più aggiornati
approcci filologici, storici e antropologici, il libro di Fornari vuole essere «un libro di filosofia e di storia del pensiero» (p. 11). Rispetto, però, a molti filosofi e
letterati che insistono sul concetto di tragico o sul linguaggio tragico,
Fornari pone al centro delle sue analisi latto teatrale e la performatività
della tragedia. Giustifica tale scelta con il fatto che la parola, il logos greco, in tutte le sue
manifestazioni, dalla poesia alla filosofia, era innanzi tutto un«esperienza», «uno stato provocato da una forza divina» (ivi).
Il
vertice di tali manifestazioni era il teatro. La peculiarità della cultura
greca è stata quella di aver trasferito da un contesto sacro e rituale a un
contesto civico e politico, ma anche sapienziale e filosofico, il potere del logos. Con il risultato di rivelare,
nella filosofia e più ancora nella tragedia, delle verità imbarazzanti circa le
sue origini. Quali?
Secondo
le note teorie di René Girard, di
cui Fornari è il massimo chiosatore italiano, alla base di ogni sistema
culturale sta il sacrificio di un capro espiatorio, lassassinio collettivo di
una vittima che attira su di sé la violenza intestina altrimenti distruggitrice
di qualsiasi consorzio umano. Il capro espiatorio funziona, quindi, come
strumento di controllo sociale e simbolico della violenza. Per Girard «il
meccanismo della rivalità collettiva che si scarica su una vittima domina tutte
le comunità umane ed è stato trasformato in istituzione religiosa permanente
dei riti sacrificali, che sono supportati dai miti che ci raccontano la stessa
vicenda nella versione deformata e trasfigurata dei sacrificatori, ansiosi di
scaricare ogni colpa sul capro espiatorio da loro prescelto» (p. 25).
Fornari
però prende decisamente le distanze da Girard, per il fatto che lantropologo
francese considera il mito nella sua versione teatrale (la tragedia greca) ancora
come opera di occultamento e mistificazione del sistema sacrificale vittimario.
Fornari, al contrario, vuol dimostrare quanto e come la sapienza sacrificale
dei tragici greci abbia costituito, almeno nel suo periodo di massimo fulgore,
una fondamentale rivelazione o acquisizione non solo cognitiva, ma anche
rituale e performativa del sistema sacrificale riconducibile a Dioniso, il dio
bambino fatto a pezzi dai Titani.
I
greci sapevano che non ci si può opporre a Dioniso, il dio dellidentità
indifferenziata, della fusione indiscriminata ottenuta a prezzo della
lacerazione, della violenza sacra. Da Dioniso bisognava tenersi «a distanza appropriata, come facevano gli spettatori
ateniesi, che interponevano il filtro della maschera e del palcoscenico», si proteggevano con la «corazza
dellillusione teatrale”» (p. 308). Citando in esergo Plutarco, che racconta come i siracusani risparmiassero la vita ai
prigionieri ateniesi capaci di recitare a memoria versi di Euripide, Fornari
spera che anche oggi il tragico (e dunque il teatro) possa valere «come talismano e lasciapassare di sopravvivenza» (p. 14).
Contro
Girard, lo sforzo di Fornari è quello di dimostrare che, lungi dallessere
complici della logica vittimaria degli antichi sacrifici, i tragici greci, in
particolare Euripide e Sofocle, ebbero piena consapevolezza dei fondamenti
violenti della cultura umana e che per primi ne analizzarono i processi che ad
essi conducono.
Per
dimostrare la sua tesi, Fornari fornisce, in sette capitoli, unaccurata
dissezione del corpo testuale di alcuni dei capolavori di Sofocle ed Euripide,
considerati, rispetto ad Eschilo, i
più acuti indagatori e “svelatori” del “labirinto” tragico. Al centro del primo
e celebre labirinto di Creta stava, infatti, locculto sacrificio di vittime.
Il
capitolo iniziale, per questo motivo, è dedicato ad unopera giunta molto
lacunosa di Euripide: I cretesi (433 ca.
a.C.). I miti religiosi cretesi, per il loro ruolo archetipico della civiltà
mediterranea, offrono a Fornari lo spunto perfetto per spiegare la sua teoria
della mediazione estatico-oggettuale.
Laccanita analisi dei frammenti e dei lacerti de I cretesi ruota infatti attorno alla questione della fondazione
della monarchia sacra, in cui la mediazione originaria – Minosse come vittima
sacrificale – muta attraverso una mediazione sostitutiva con il sacrificio di
tori. Minosse è un «re taurino per il motivo che
cè sempre un toro regale da immolare al suo posto» (p.
40). La teoria mediatoria o estatico-oggettuale sostiene che «allorigine della cultura ci sono mediazioni
collettive a carattere estatico e che loggetto, la realtà, costituiscono la
meta intrinseca del loro processo» (p. 42).
Nella mediazione estatico-oggettuale si instaura un dinamismo che spiega come
dallevento estatico di fondazione delle culture più arcaiche si sviluppino «oggetti sacralizzati in grado di sostituire i
primordiali oggetti sacrificati. Fra questi oggetti sostitutivi hanno svolto un
ruolo strategico sia le vittime congeneri appartenenti ad altre comunità, sia
le vittime sacrificali» (p. 39). Nel caso
cretese si fa riferimento alla domesticazione di bovini e alla proprietà di
mandrie, in cui abbondano “tori regali”.
Lesempio
massimo di abbaglio critico e interpretativo, antico e contemporaneo, che
Fornari mette in luce è quello relativo ad Edipo, al cui dittico sofocleo (Edipo re ed Edipo a Colono) sono dedicati il capitolo terzo, il settimo, conclusivo,
e una parte del secondo, in cui lesule Edipo è confrontato con Medea e si
approfondisce il tema del pathos,
della magia, dei due stranieri, come sorgente del logos. Nessun critico ha mai messo in dubbio la realtà sia pur narrativa
del re di Tebe, colpevole di crimini mostruosi. Per i tebani Edipo sarebbe reo di parricidio e di incesto. Ma sono colpe vere? O sono
quelle che i tebani addossano ad Edipo per liberarsi dalla pestilenza? Sulla
natura di capro e vittima espiatoria di Edipo, Fornari ingaggia un serrato
confronto con le interpretazioni di Girard, di Propp, Lévi-Strauss, Frazer e con le critiche dei grecisti
come Paduano, Serra, Guidorizzi, senza
naturalmente trascurare lEdipo freudiano e gli anti-Edipi moderni. Sono
soprattutto le riscritture dei drammaturghi, a partire da Seneca fino ad arrivare allOedipus
und die Sphynx di Hugo von
Hoffmansthal, a fare di Edipo la figura chiave della cultura occidentale. Ne
esce, alla fine, la dimostrazione dellidentità di Edipo con la Sfinge, con il
suo enigma che rimanda al destino del nome di Edipo, che significa “piedi gonfi”.
Edipo è lemblema dellumanità. Il cammino delluomo, dalla nascita alla morte,
è segnato dalla zoppìa e dalla mostruosità. Luomo, conclude Fornari, ha un «duplice piede»: «quello slanciato verso lalto delle leggi divine e
quello precipitante in basso della hubrys
umana» (p. 389).
Edipo
è luomo diviso tra la volontà di scolparsi e quella di compiere il bene del
popolo, accettando le conseguenze di una colpa non voluta. «Edipo è il mostro fisico e morale della sua città e,
appunto per questo, ritualmente ne è il mediatore, potenzialmente ne è il
salvatore» (p. 391). Tebe, nel primo dramma
sofocleo su Edipo, non decide e non risolve la propria peste intestina,
accogliendo il potenziale di salvazione dal male attraverso il male che è
Edipo. È ciò che, invece, farà Atene, come si legge nel finale dellEdipo a Colono di Sofocle. Lautore
tragico propone lantica mediazione religiosa come soluzione della violenza
intestina tebana (allusione alla crisi interna ad Atene dovuta alla guerra del
Peloponneso). La prova più grande dellancoraggio di Edipo allantico mondo
mitico-religioso della violenza sacra è proprio la
disumanità delle sue relazioni mostruose, la più celebre delle quali è la
maledizione scagliata contro il figlio Polinice.
Lattenzione
alla creaturalità, allumanità e alla pietà verso le vittime, noti apporti
della rivelazione cristiana, non compaiono in Sofocle, ma in Euripide, il drammaturgo
tragico che più di tutti, secondo Fornari, ha spalancato gli occhi sugli orrori
della mediazione sacrificale, ma che anche, per primo, ha preannunciato,
attraverso le parole del servo di Ifigenia (in Ifigenia in Aulide), il senso di pietà verso la vittima,
denunciando nel contempo linconsistenza della mediazione sacro-religiosa e
infine della stessa tragedia e dello stesso teatro.
NellIppolito Euripide mette in scena la
storia di Fedra che si innamora del figliastro e, rifiutata, si impicca,
accusando Ippolito di averla violentata. Il padre Teseo, accecato dallira, non
sente ragioni e la sua maledizione porterà alla morte del figlio. Per noi
moderni il tema dominante dellIppolito
parrebbe la passione erotica, mentre per i greci il dramma metteva in luce la
questione di quali siano i confini e le norme che devono governare i rapporti
tra maschile e femminile e quali debbano essere
le mediazioni “giuste” per il desiderio erotico. Da questa prospettiva la
castità di Ippolito risultava mostruosa e sospetta perché infeconda.
Altrettanto sospetto risultava il profondo legame con il sacro-violento di
Fedra, figlia di Minosse e sorella di Arianna. La ierogamia, latto di
fondazione e fecondazione della terra e della comunità, doveva finire nel
sangue e nel sacrificio. La morte tragica di Ippolito e di Fedra dimostra la crisi delle mediazioni sacrificali
antiche, ma anche i nuovi problemi della polis.
Nella
tragedia di Andromaca, oggetto del
capitolo quinto, si vede bene come questa crisi colpisca la famiglia, il
microcosmo affidato alla mediazione femminile, complementare al microcosmo pubblico, affidato alla mediazione
maschile. Il venir meno della prima mette in crisi il secondo, come succede nella
vicenda di Andromaca, la schiava che dà un figlio a Neottolemo, che non è
riuscito ad averne uno dalla legittima sposa Ermione, figlia di Menelao, il re
di Sparta. La sterile Ermione esige vendetta e distruzione, prima dal padre,
che però non riuscirà ad uccidere Andromaca e il figlio Molosso, e poi da
Oreste, il suo antico promesso sposo, che a Delfi organizzerà il linciaggio
sacrificale di Neottolemo. La cattiva mediazione familiare, la crisi della
famiglia, porta alla crisi della vita associativa, alla crisi della stessa polis.
A
Dioniso, divinità centrale per la comprensione della mediazione sacrificale, e
al dionisismo, a cui non solo larte tragica ma anche i misteri orfici ed
eleusini erano strettamente legati, Fornari dedica un capitolo chiave del
libro. Il testo fondamentale è lultimo dramma di Euripide, Le Baccanti, che è un inno alla
consapevolezza della necessità dionisiaca, rifiutata dai moderni. «In questa irruzione di un orrore inguardabile sta
lultima dionisofania, quella con cui noi moderni dobbiamo confrontarci, privi
dellausilio delle maschere e delle coperture della più alta meditazione antica
su Dioniso» (p. 326). Il dio, esaltato e
rilanciato in molti modi nella cultura occidentale, il dio morto di Nietzsche, ma anche il dio acefalo,
massacrato di Bataille è, in realtà,
non riconosciuto dai moderni, come fece Penteo. Ciò che viene rifiutato dai
moderni è il fondamento razionale del dionisiaco. La genesi profonda della
ragione umana prende avvio dalla «struttura
interna del rito e del mito, tramite la sua lunghissima preistoria e storia
magica e performativa» (p. 314). La “teoria”, la
mediazione oggettuale, conoscitiva delluomo nasce dalla rivelazione e messa a
distanza della violenza umana, del suo orrendo dispiegarsi senza senso, come
avviene nelle Baccanti in cui la
madre Agave, con le altre donne invasate, fa a pezzi il figlio Penteo, il
negatore di Dioniso.
Per
Fornari lerede di Dioniso, il dio che porta a salvazione lumanità, è il
Cristo crocifisso. Cristo «ha fatto sua la
logica dionisiaca per rovesciarla in unultima offerta salvifica, quella che
accetta il sacrificio di sé pur di non sacrificare più gli altri» (p. 326).
Lerede
invece della conoscenza tragica è il sapere della filosofia, incarnato dal
progetto politico di Platone che
trasformò levento più tragico del pensiero occidentale, la morte di Socrate, in evento sapienziale. Platone
rielabora la figura di Socrate «facendone il
paradigma del nuovo sapiente», «al Penteo contagiato da Dioniso subentra luomo della
conoscenza, che oppone alle forze della violenza collettiva la refrattarietà
del suo distacco dalle passioni» (p. 416). Con
Platone nasce la polis ideale, tanto
più affascinante quanto più irrealizzabile e quindi confinata a paesaggio
dellanima. La verità della violenza, di fatto, è nel sapere filosofico
espunta, non riconosciuta. Il segreto di Dioniso, nelletà ellenistica e
romana, non viene però ignorato, ma anzi si diffonde come «nebulosa sacrificale e politica» (ivi). Pur solo dal lato estetico il segreto è
diffuso anche dal teatro, privo dei grandi indagatori e autori del V secolo.
Accanto
al pensiero greco, la cui vetta per Fornari è appunto il pensiero tragico, il
secondo pilastro culturale dellOccidente è il cristianesimo, che concilia nel
suo disegno universale il meglio della spiritualità ebraica e le spinte
universali ellenistico-romane. In questa prospettiva «la
vicenda centrale di Gesù crocifisso e risorto risulta pienamente leggibile se
la collochiamo sullo sfondo specifico, quanto poco rassicurante e inquadrabile,
dei massimi raggiungimenti toccati dal teatro tragico» (pp.
419-420). La conclusione è che «la Passione che
ci narrano i vangeli è in tutto assimilabile a una tragedia. Gesù viene ad
occupare il posto di Penteo, di Neottolemo, di Edipo» (p.
420), ma con due differenze fondamentali. La prima è che Gesù è presentato come
assolutamente innocente, cioè una vittima che non è più in grado di nuocere in
alcun modo. Il che imporrà una mediazione suprema che consiste «nellaccettazione e nel disvelamento del prezzo che
sono storicamente costate tutte le mediazioni umane» (ivi),
soprattutto le sofferenze, il dolore, le morti così acutamente indagati dalla
tragedia greca. La seconda differenza del Gesù tragico rispetto ai suoi predecessori
è la resurrezione «il ritorno del mediatore
cristico, nella sua oggettualità personale e corporea, in una nuova condizione
di mediazione e di oggettualità redentrice» (p.
421), unesperienza di riscatto per tutta lumanità. La vicenda storica e
simbolica di Cristo non sarebbe, in definitiva, comprensibile alla sola luce
delle Sacre Scritture, ma prende luce anche, e soprattutto, da quello «stranissimo “testamento”» (p.
423) costituito dal teatro tragico greco.
di Claudio Bernardi
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