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Francesco Casetti

La galassia Lumière
Sette parole chiave per il cinema che viene

Milano, Bompiani, 2015, pp. 330, euro 9,99
ISBN 978-88-45-26310-1

È vero che il film sta morendo sotto l’assalto dei nuovi media? Che gli attuali modi di produzione e di consumo lo stanno cambiando al punto di mettere in crisi la nozione stessa di cinema? Sono gli interrogativi con cui si apre l’ultimo libro di Francesco Casetti, il quale adotta una prospettiva in parte già proposta nel suo Dentro lo sguardo (1986): l’idea che il film segnali in qualche modo la presenza del suo spettatore, che gli assegni un posto preciso e gli faccia compiere un percorso.

Da quando l’avvento delle tecnologie digitali ha trasformato lo statuto dell’immagine e del suono stimolando nei media tradizionali processi di “convergenza” e di “sovrapposizione” (termini che per l’autore sembrano essere omologhi), molti studiosi e registi hanno evocato a più riprese la fine del cinema, stimolando un dibattito sulla sua ontologia che va avanti da almeno tre decenni. Dal documentario di Wim Wenders Chambre 666 ai paradossi storici di Peter Greenaway, passando per le riflessioni di Susan Sontag, Anne Friedberg e Paolo Cherchi Usai, l’annunciata morte del cinema è una sorta di leitmotiv che ne accompagna gli sviluppi. Nell’era digitale il tema torna di primissimo piano, giacché «la tensione tra persistenza e trasformazione sembra raggiungere il suo culmine, fino ad acquistare una valenza particolarmente significativa, e in qualche modo drammatica» (p. 12).

Secondo Casetti, per capire cosa è il cinema oggi occorre concentrarsi sull’esperienza spettatoriale, ossia sul processo comunicativo che la proiezione di un film innesca. Lo studioso denuncia la deriva tecnicistica degli studi di settore, che identificano il cinema con il proprio supporto, da Marshall McLuhan a Friedrich Kittler. In realtà, se è vero che ogni medium nasce come invenzione tecnica, è altrettanto vero che esso è identificabile con «un particolare modo di rapportarsi al mondo attraverso le immagini in movimento (e di rapportarsi a queste immagini)» (p. 14). Casetti si inserisce così in un filone di studi da lui stesso definiti «anti-essenzialisti» (p. 15): dallo scetticismo di Stephen Prince nei confronti delle presunte innovazioni del digitale, alla continuità dell’industria cinematografica sottolineata da David Bordwell, sino alla posizione più radicale di Noel Carroll, per cui il cinema non presenta alcun elemento o costituente materiale in grado di definirne intrinsecamente la natura.

Partendo da questa premessa, Casetti analizza i principali cambiamenti in corso, analizzandoli nelle loro implicazioni teoriche più che nei concreti dettagli del loro sviluppo. Si parte dal problema della rilocazione del cinema su altri dispositivi filmici, che può prendere due strade opposte. Da una parte quella del “cinema-reliquia”, in cui «non potendo riproporre tutti gli elementi dell’esperienza tradizionale della sala, si ripropone il cosa vedere, indipendentemente dal come» (p. 79) (è il caso del DVD). Dall’altra quella del “cinema-icona”, in cui «l’esperienza del cinema si riattiva lontano dai suoi luoghi canonici non tanto perché c’è la disponibilità di un oggetto, quanto perché c’è un ambiente adatto a essa» (p. 81) (è il caso degli impianti home theater). Il fatto che gli audiovisivi contemporanei tendano a puntare sull’oggetto, lasciando indefinito l’ambiente o viceversa, rappresenta una frattura col passato: «il cinema diventa o i film o una maniera di fruire immagini e suoni. Due cose, non più una sola» (p. 89).

I nuovi dispositivi di visione (si pensi alle interfacce informatiche o agli schermi pubblicitari sempre più numerosi nel tessuto urbano) non sono più delle strutture precostituite e vincolanti, ma dei complessi aperti e flessibili: «non è più la macchina a determinare l’esperienza, ma è l’esperienza a trovare la sua macchina» (p. 112). Casetti supera il concetto espresso da Rosalind Krauss secondo cui il cinema è un “apparato aggregativo caratterizzato da supporti interconnessi”, per abbordare quello più leggero e versatile di assemblage: «non abbiamo più a che fare con una macchina precostituita in modo univoco, ma con qualcosa che si forma di volta in volta sotto le pressioni delle circostanze, e i cui elementi sono liberi di entrare anche in altre combinazioni» (p. 130).

Centrale, in questo senso, è il luogo dell’esperienza cinematografica: se la sala tradizionale era un posto in cui recarsi per potersi affacciare a un mondo diverso da quello della vita quotidiana, e dunque in cui si lasciava un “qui” per spostarsi verso un “altrove” (visione eterotopica), nei nuovi ambienti di fruizione il cinema porta piuttosto un “altrove” nel nostro “qui” (visione ipertopica). Ecco allora che lo schermo diventa display, essendo collegato a un flusso continuo di dati. Esso “mostra” le immagini nel senso che le mette a disposizione, addirittura in mano nel caso del touch screen.

A mutare, quindi, è il ruolo stesso dello spettatore: non più testimone di un evento ma soggetto chiamato a intervenire sia sull’oggetto della sua visione, sia sull’ambiente circostante, sia, in ultima analisi, su sé stesso. Egli non è più qualcuno cui si chiede di essere presente a una proiezione con gli occhi spalancati, limitandosi a reagire al film e all’ambiente, ma «qualcuno che agisce perché la sua stessa visione abbia luogo: l’attendance lascia il posto alla performance» (p. 287).

È solo partendo da un’idea di cinema che fa parte del nostro patrimonio culturale, quindi, e confrontandola con le situazioni in cui ci troviamo implicati, che possiamo identificare e accreditare il cinema come tale. È in questo senso che va intesa la “galassia Lumière” del titolo, che riecheggia la “galassia Gutenberg” di McLuhan ribaltandone il senso. Ma se per lo studioso canadese sono i media a modellare la nostra esperienza, qui si sostiene l’opposto: sono le esperienze già esistenti a modellare i media, tanto è vero che «oggi certe forme di esperienza consolidate – com’è l’esperienza di cinema – possono riaffacciarsi anche in circostanze diverse, e anzi costringono queste circostanze ad adattarsi a esse» (p. 30).

Sottolineando l’assenza di baricentro del cinema (da cui la scelta del termine “galassia”), ma contemporaneamente evidenziandone gli elementi di continuità con la tradizione, Casetti firma un’analisi volutamente tendenziosa, quasi partigiana, del panorama audiovisivo contemporaneo, lottando per salvare il concetto di cinema prima che altri lo buttino alle ortiche. Si tratta di una causa con cui il lettore può simpatizzare o meno, ma che sicuramente dona al volume una piacevole venatura polemica d’antan. Un’opera esplicitamente conservatrice, dunque, ma non per questo meno curiosa o adeguata a capire i mutamenti e le sfide del presente.


di Raffaele Pavoni


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