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Berta Zuckerkandl

La mia Austria. Ricordi 1892-1937


Milano, Archinto, 2015, pp. 202, 25 euro
ISBN 978-88-7768-672-5

Il tramonto del pianeta asburgico, le istantanee di vita viennese tra la tarda età imperiale e la catastrofe dell’annessione alla Germania, hanno avuto grandi cantori, sommi cronisti, testimoni eccellenti: e se il disfacimento di tale gigantesca civiltà trova il suo romanzo più eloquente nella Cripta dei cappuccini di Joseph Roth, questo «mondo di ieri» resta legato, in primo luogo, alle eponime pagine autobiografico-saggistiche di Stefan Zweig.

Tuttavia, se Roth e Zweig sono le punte di diamante nell’affresco di tale dissoluzione, i reporter di quest’aureo declino e di quest’agonia furono ben più numerosi: a lungo rimosso dalla Storia, il nome di Berta Zuckerkandl resta un tassello fondamentale per ricostruire quanto accadeva nella vita artistica, culturale e politica viennese fra il tramontare dell’Ottocento e gli anni Trenta del ventesimo secolo. Un nome, va aggiunto, inquadrabile nella storia del giornalismo: ma caratterizzato da una tale libertà espositiva – pur restando sempre irreprensibilmente “dentro la notizia” – e da un così disinvolto sincretismo di linguaggi (si passa, all’interno della medesima pagina, dalla cronaca allo scambio epistolare, dalla memorialistica alla conversazione telefonica) da proiettare la Zuckerkandl nella più ampia sfera della letteratura.

Moglie del celebre anatomista Emil Zuckerkandl e padrona di casa impeccabile al punto di trasformare il proprio salotto nel crocevia dell’intera intellighenzia austriaca, fu promotrice di decine di battaglie a fianco della Vienna più progressista: ebbero grande eco i suoi articoli in favore di realtà tutt’altro che unanimemente accettate, si trattasse della Secessione di Klimt, delle nuove frontiere teatrali aperte da Schnitzler o del colpo di spugna inferto da Mahler alla routine cristallizzata della Staatsoper. Né mancò di cimentarsi con funzioni sottilmente politiche: il suo vagheggiamento per un’alleanza tra Austria e Francia, rafforzabile con ponti culturali (si fece carico di tradurre in tedesco molti testi teatrali francesi) e tale da limitare la supremazia prussiana, resterà irrealizzato, ma la Zuckerkandl svolse più d’una missione in tal senso, complice la parentela che – grazie al matrimonio di sua sorella – si era instaurata con la famiglia Clemenceau. E quando l’onda nazista la costringerà alla fuga, l’ebrea Berta troverà nella Francia una seconda patria.

Il lettore italiano si sarà forse già imbattuto in questa scrittrice: risale a pochi anni fa la traduzione (editore Raffaello Cortina) del volume L’età dell’inconscio, scritto dal Nobel Eric Kandel, in cui si narrano le benemerenze del salotto Zuckerkandl in campo di divulgazione scientifica. Lì, tuttavia, Berta entrava in scena quale moglie di una celebrità della medicina: per accedere al suo troppo a lungo dimenticato lascito pubblicistico arriva, invece, questo libro targato Archinto, con un titolo – La mia Austria – che occhieggia a Karen Blixen, ma tutto sommato più congruo dell’originale Österreich intim. Rispetto all’assemblaggio dei materiali approntato per l’edizione viennese da Reinhard Federmann, il curatore italiano Giuseppe Farese (che firma l’ampia introduzione e un apparato di note capillare ma non invasivo) preferisce però fermarsi a prima dell’Anschluss: il sottotitolo del volume austriaco, scegliendo di coprire mezzo secolo, parla di Memorie dal 1892 al 1942, mentre quello Archinto recita Ricordi 1892-1937. Come a dire che l’annessione dell’Austria alla Germania poneva fine a tutto, e il resto è silenzio: o, almeno, non più che un’appendice.

Sotto forma spesso di rapido bozzetto, ma sempre icastici come fossero personaggi d’un romanzo, scorrono i protagonisti di quei decenni: Schnitzler e Freud compagni di strada (fu quest’ultimo a dire che lo scopritore della psicanalisi non era lui, ma il creatore della Signorina Else), Mahler e il tormentato connubio intellettual-amoroso con Alma Schindler, Roth bardo dell’epoca di Francesco Giuseppe, i secessionisti come indomiti giovanotti in stile Bohème, Hofmannsthal ucciso dalla morte del figlio, Johann Strauss inteso quale epitome della viennesità più autentica, Alexander Girardi concentrato di nevrosi dietro la facciata del re dell’operetta. E poi l’impenetrabile malinconia di Zweig, Max Reinhardt capace di rivoluzionare la regia teatrale asservendo la macchina allo spirito (alla sua creazione del Festival di Salisburgo sono dedicate le pagine più belle del libro), fino a un Toscanini – amatissimo in Austria – tutto d’un pezzo: che ha tagliato i ponti con l’Italia fascistizzata, ma pianta in asso pure il vergognoso politico austriaco di turno.

Ci si congeda dal libro imparando a diffidare dei luoghi comuni: se l’Italia non è solo pizza e mandolino, Vienna – si raccomanda la Zuckerkandl – non si limita a «ballerini e violinisti». Semmai (è un concetto su cui questi scritti insistono spesso) è una città che prima produce geni, e poi li uccide. Funereo Leitmotiv di un libro che crede molto al pessimismo della ragione: corretto però da un anticonformistico, e squisitamente femminile, ottimismo dell’intelligenza.


di Paolo Patrizi


La copertina

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