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Studi goldoniani, a. X, 2 n.s., 2013
Quaderni annuali di storia del teatro e della letteratura veneziana nel Settecento

pp. 235, euro 50,00
ISSN 2280-4838

Il secondo numero della nuova serie degli «Studi goldoniani» raccoglie otto saggi che – come nella tradizione pluridecennale della rivista – propongono approfondimenti tanto sul teatro dell’avvocato-scrittore quanto sulla letteratura a lui contemporanea.

Apre il fascicolo il contributo di Gerardo Guccini su Goldoni scenografo. Lo studioso ripercorre a volo d’uccello più di duecento anni di storia dello spettacolo per illustrare in pochi cenni, saldamente ancorati alle fonti, l’evoluzione della scenografia nello spettacolo comico. La totale assenza di riferimenti documentari a figure professionali addette alla ideazione e alla realizzazione di scenografie per il teatro dei comici si spiega principalmente con il valore strettamente funzionale alla recitazione attribuito di volta in volta a tali apparati. Differentemente da quanto avveniva nel teatro d’opera, dove lo spazio scenico era diviso (dal fondo al proscenio) nei luoghi destinati ai fondali dipinti, al dramma e al canto, per i comici «la scenografia non è un’imitazione della realtà né un’invenzione pittorica di forte impatto visivo, bensì un insieme di elementi ricorrenti e strettamente funzionali all’azione» (p. 17).

Le strutture praticabili usate negli spettacoli “di prosa” erano estensivamente comprese tra le «robbe», ossia la moderna attrezzeria, o tutt’al più tra le «apparenze», e non prevedevano quindi il coinvolgimento di professionisti specializzati nel loro concepimento. Nel passaggio dalla Commedia dell’Arte alle drammaturgie d’autore il Carlo Goldoni uomo di teatro eredita dal teatro comico la concezione di una scenografia funzionale all’azione e, in quanto concertatore dell’azione in scena, si fa egli stesso, al pari di Pietro Chiari o Carlo Gozzi, scenografo. Essi «“scrivevano le scene” prevedendo, non solo l’utilizzo delle strutture praticabili, ma anche le risultanti visuali del loro continuo combinarsi con le azioni degli attori» (p. 39).

Un esempio della precisione con cui Goldoni descrive gli ambienti delle proprie commedie si trova nella Bottega del caffè, opera su cui si concentra il secondo studio della rivista, a firma di Roberta Turchi. Dopo aver esaminato lo spazio uno e multiplo in cui si svolge la vicenda (un campiello su cui si affacciano diversi esercizi commerciali), la studiosa approfondisce l’osservazione del personaggio di Don Marzio. Ne emerge un ritratto nitido che lo qualifica come lo spione, una figura miope e dalla lingua tagliente, divorato dal vizio di correggere ogni notizia che gli giunga all’orecchio per trasformarla in maldicenza. Attraverso un serrato e puntuale confronto Turchi riconosce un parziale calco di questo tipo scenico nel maldicente che Vittorio Alfieri condanna nel suo Esquisse du jugement universel (1773).

Bodo Guthmüller porta all’attenzione della critica la commedia – anonima ma attribuita allo stampatore e segretario del governo austriaco a Milano Stefano Sciugliaga – intitolata Le nozze involontarie della Signora Commedia Italiana col Signor Conte Popolo Signor del Basso Piano. Mascherando i protagonisti delle gare teatrali dell’anno 1755 dietro personaggi d’invenzione, lo scrittore lancia la propria condanna contro il potere concesso dagli impresari al popolo, eletto per profitto unico timoniere del gusto. Pur riconoscendo i passati meriti di Goldoni, nascosto dietro il personaggio del medico Buongenio, Sciugliaga non manca di criticarne la recente deriva romanzesca ed esotica. Il suo auspicio è che la commedia possa sciogliersi dalle leggi del mercato e riprendere il proprio impegno etico.

Il contributo di Chiara Biagioli sui rapporti di dipendenza di Goldoni dalla corte di Parma porta alla luce documenti inediti con risultati rilevanti. In riferimento ai tre drammi giocosi confezionati dall’avvocato per il Regio Ducal teatro a cavallo tra 1756 e 1757 (Il festino, La buona figliuola, Il viaggiatore ridicolo), lo spoglio delle fonti archivistiche operato dalla studiosa denuncia un successo modestamente e inaspettatamente ridimensionato da Goldoni nelle sue memorie e, ancor più interessante, restituisce un quadro insperatamente dettagliato sugli apparati scenici. L’elenco dei costumi e delle parrucche chiarisce le gerarchie tra i personaggi dei tre componimenti e ne palesa «status sociale e temperamento» (p. 83). Il quadro delle spese per i tre spettacoli, per contro, conferma le ambizioni da corte europea di un piccolo ducato il cui bilancio, nonostante l’elezione di Guillaume-Léon Du Tillot come «Ministro d’Azienda», risulta sempre più deficitario. Le stesse fonti, inoltre, aprono il sipario su nuovi curiosi scenari, come le rappresentazioni di altre tre opere comiche di Goldoni nel ducato l’anno successivo, o il parziale finanziamento di Don Filippo per la stampa dell’edizione Pasquali delle sue opere.

Nel suo ricco e articolato saggio Marzia Pieri si confronta con l’ambizioso e meno celebre progetto goldoniano delle “Nove Muse”, con un approfondimento sulla «tragedia possibile» Artemisia. Nonostante lo scarso spazio dedicatogli da Goldoni nelle sue memorie, detto progetto (destinato a comprendere sotto l’egida delle nove divinità greche tre tragicommedie, cinque commedie e una tragedia) conferma da un lato l’abilità letteraria del commediografo, dall’altro la sua versatilità e la lungimiranza nel progettare un programma che possa soddisfare la richiesta di «novità» del pubblico veneziano. Riletta nel contesto postmetastasiano di riscoperta dell’«orribile delizioso», la tragedia di Artemisia rivela spunti curiosi circa un Goldoni che, pur facendo i conti con i modelli della Merope maffeiana e della Semiramide di Voltaire, inclina verso una scrittura meno ideologica e più “animica”, giocata sullo scavo dell’interiorità della protagonista. Anche in questo Goldoni strizza l’occhio al gusto del pubblico, il quale si pasce degli intrecci incestuosi e si culla in un immaginario scenico diffuso, fatto di crescenti relazioni intertestuali e continui ammiccamenti alla vita della società contemporanea.

Javier Gutiérrez Carou si sofferma sul ruolo dell’attore romano Luigi Benedetti come traduttore del Texidor de Segovia, commedia in due parti di Don Juan de Alarcon. Tramite un’analisi comparativa del testo originale e della traduzione conservata nel Fondo Gozzi della biblioteca Marciana di Venezia lo studioso dimostra come l’opera di traduzione dal castigliano all’italiano sia da attribuire proprio a Benedetti. Come probabilmente nel caso di altre opere spagnolesche, Carlo Gozzi non svolse quindi il ruolo di traduttore, ma derivò il suo adattamento del Tessitore di Segovia da una più competente trasposizione linguistica.

Una panoramica sul successo del Ventaglio goldoniano nelle sue riprese in musica fra Otto e Novecento è offerta da Eduardo Rescigno. Il saggio prende in esame diversi componimenti in musica, ricercando nei nuovi libretti il sapore della comicità sapientemente ritmata dell’originale. Particolare attenzione è dedicata alla commedia per musica rappresentata nel napoletano teatro Nuovo sopra Toledo il 19 aprile 1831 su libretto di Domenico Gilardoni e partitura di Pietro Raimondi: supportato da un approfondito confronto tra i testi, Rescigno evidenzia come il gusto raffinato della commedia goldoniana trascolori nel libretto napoletano in un pastiche di sapori affatto originale e grossolano, solo in minima parte memore della sapidità originaria. Altri adattamenti del componimento goldoniano sono un’opera buffa derivata dalla suddetta commedia (teatro della Canobbiana di Milano, 30 marzo 1834), una farsa in un atto di Gaetano Rossi e Giuseppe Farinelli (teatro Nuovo di Padova, 23 luglio 1803), la commedia musicale di Emilio Reggio e Alfredo Cuscinà (teatro Le Pariole di Roma, 30 agosto 1923) e l’opera giocosa con libretto di Giovacchino Forzano e musica di Ermanno Wolf-Ferrari andata in scena col titolo Gli amanti sposi (teatro La Fenice di Venezia, 19 febbraio 1925).

Chiude la sezione dei saggi il contributo originale di Carlo Minnaja dal titolo Goldoni in lingua internazionale: vi si scorrono le traduzioni e gli allestimenti di opere del commediografo veneziano nelle “lingue pianificate” dal 1896 (quando nel paese russo di Smolensk fu rappresentato un frammento dell’Amore paterno in lingua esperanto) fino a oggi.

La rivista si conclude con la sezione dedicate alle Rassegne, che raccoglie un breve contributo di Rossend Arqués sulla messinscena catalana dei Rusteghi di Goldoni per la regia di Lluís Pasqual, e con diciassette pagine di bibliografia goldoniana tra il 2001 e il 2005, a cura di Sandro Frizziero.


di Lorenzo Galletti


La copertina

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