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Anne-Françoise Benhamou

Patrice Chéreau. Figurer le réel


Besançon, Les Solitaires Intempestifs, 2015, pp. 192, euro 15
ISBN 978-2-84681-446-1

 

Anne-Françoise Benhamou riunisce diversi saggi dedicati al regista Patrice Chéreau, morto nel 2013, unendovi i frutti di alcune ricerche più recenti e attuali. I testi (di cui tre inediti) vanno dal 2000 al 2014 e sono coerenti nell’individuare, oltre alla poetica espressa negli spettacoli, i bisogni esistenziali che hanno guidato l’artista lungo la sua feconda, straordinaria carriera.

 

Attenta comunque allo sviluppo dell’opera di messa in scena (anche con la partecipazione ad allestimenti come Dans la solitude des champs de coton nell’ultima versione del 1995), l’autrice ricorda un desiderio primario del regista: «Je raconte des choses que j’ai envie de voir ou la vie des gens dont j’ai envie de percer le secret». Quindi riepiloga: «Prendre au piège des récits cette part du réel qui ne se saisit que comme une faille – le rapport à la mort, au sexe, au désir: c’est ainsi qu’obstinément, Patrice Chéreau a raconté ses histoires» (p. 10).

 

Tuttavia Benhamou attraversa spesso la memoria lasciata dagli spettacoli a cui ha assistito. Così propone, in Quatre bouleversements, l’analisi riflessiva sulle impressioni riportate da tre rappresentazioni per lei significative: «Peer Gynt (1981), lié à l’espace; Hamlet (1988), lié au temps; Dans la solitude des champs de coton (1987 e 1995), lié au corps», e in più dal film Intimité (2001), capace di effondere, nel finale, un senso di speciale liberazione e di rinascita. «La part inoubliable de l’œuvre de Patrice Chéreau [...] ce sont des sensations qui mêlent bonheur et et malheur, rupture et renaissance, des sensations de bascule sur des lignes de faille, de séismes où la vie se reconfigure» (p. 65). Poi dà spazio congruo ai raffronti tra il teatro e il cinema secondo la visione che Chéreau elabora, guidato dalla doppia (o triplice) vocazione espressiva, comprendente il teatro musicale.

 

Dopo la prima partecipazione, attiva e critica, alle esigenze del Théâtre Populaire (e sensibile alla lezione drammaturgica di Bertolt Brecht), Chéreau risalta fra i maggiori interpreti dell’uso dell’immagine, diffuso negli anni Settanta-Ottanta. Le sue intenzioni creative e il progressivo spostamento degli obbiettivi polemici, suscitano al momento sdegno e ammirazione. L’autrice fornisce documenti e alternative critiche su quel periodo di svolta negli anni Settanta e cita le posizioni, diverse e discordi, di Bernard Dort, Gilles Sandier, Jean-Pierre Léonardini, Pierre Marcabru e Bernard Poirot-Delpech, mentre gli spettacoli esemplari di Robert Wilson e Pierre Bourgeade impongono l’attenzione sul teatro-immagine (pp. 25-29).

 

Anche Chéreau lavora all’esaltazione dell’immagine, con la fiducia riposta nell’allegoria, come Walter Benjamin la intende, basata su una tensione tra forme e senso, irriducibile alla sintesi. Complementari e variamente suggestive, le formule di Benhamou sono volte a catturare la funzione più profonda dell’estetica dell’artista, quando si sofferma sull’opera compiuta negli anni della direzione del Théâtre des Amandiers a Nanterre e in particolare sull’allestimento di Combat de nègre et de chiens e di Les Paravents (1983). Allora s’avvalorano soprattutto i rapporti spaziali vigenti in un linguaggio eversivo delle convenzioni: mediante l’opera di Koltès, il regista sperimenta il confronto tra la scena e gli spettatori posti ai suoi due lati, con effetto di verismo e totale artificio insieme; con quella di Genet, giunge a «une sorte d’automutilation théâtrale: le plateau a presque disparu, le décor est la salle transformée en un cinéma des annèes 1950 […]. Le spectateur, perpétuellement destabilisé, ne sait où se fixer, comment hiérarchiser les différents événements théâtraux» (p. 40).

 

Trois solitudes è il capitolo in cui più netti appaiono la posizione e il giudizio dell’autrice, che sceglie la bellezza dell’ultima messa in scena di Dans la solitude des champs de coton, come emblematica d’una meta insuperabile, paragonabile a quella della Dispute rappresentata nel 1973. Anche perché, dopo la creazione di tutta l’opera essenziale di Koltès e dell’insuccesso (relativo) di Quai Ouest (1986), Chéreau misura il coinvolgimento artistico totale impostogli proprio da quell’opera e da quella personalità; origine e dono di un conflitto radicale, seguente alla «mise en scène du désir et des affects passionnels comme sujet principal » (p. 91). È questo per me il saggio che più «crudelmente» e fedelmente va a fondo nel rapporto, intimamente amoroso, fra l’autore e il suo regista; fra gli attori e il pubblico, mediante una ricostruzione che fissa la memoria emotiva in eventi efficacemente documentati.

 

Présences du théâtre dans “Intimité”, espone una lunga, articolata analisi del film, per enucleare ancora un’idea di teatro cara a Chéreau, attraverso i modi con i quali l’artista giudica e ama la sua arte. Il tema del teatro, seguito nel racconto cinematografico, contribuisce a precisare la nozione e l’uso scelto dal regista e dal cineasta, ricorrendo a osservazioni pertinenti sull’impiego del teatro-nel-cinema e con la valutazione della pratica amatoriale della scena rispetto alla prestazione professionale.

 

La ricerca di ragioni ulteriormente intime nell’autore, si estende in La scène primitive: un motif caché dans “Intimité”. Infatti, «si le sujet du film est certes le sexe, ce n’est pas comme un monde en soi [...] mais au contraire en ce qu’il est indémêlable du retour de configurations imaginaires où la fantasmatique du couple conjugal/parental joue un rôle aussi majeur que secret» (p. 133).

 

Tornando alla scena, l’autrice segnala nella teoria di Stanislavskij l’aporia con la quale anche Chéreau si trova a fare i conti. La difficoltà problematica – «le revivre est un paradoxe» – gli impone una lotta più assidua e consapevole, poiché la «dialectique de l’autenticité et du savoir faire, parfois torturante pour ceux qui font du théâtre, ne concerne pas que l’acteur. Elle est aussi une problematique du metteur en scène» (p. 124).

 

Mostrare poco per fare sognare molto è il presupposto di Jon Fosse, autore di Je suis le vent (dato a Londra nel titolo inglese I Am the Wind) che affascina Chèreau nell’ultimo allestimento del 2011. Il dettame del drammaturgo norvegese, accolto come sfida a un’arte rappresentativa applicata allo sviluppo del potere del sogno, è per Benhamou il criterio che permette di misurare l’ulteriore impegno di Chéreau nell’interpretare un’opera dalla struttura e dal linguaggio marcatamente simbolisti. Il discorso che essa svolge è sofisticato e audace; invita alla discussione, nel sostenere che il creatore riesce a saldare al fondo di un’umanità comune ed essenziale le situazioni evocate da Fosse: «On pourrait ici parler de théâtre populaire, au sens le plus haut de ce mot; ou de l’élan de fraternité qui porte cet acte de création» (p. 161).

 

Il saggio di chiusura recupera, in citazioni puntuali, paroles de répétition, le indicazioni agli attori dell’edizione 1995 di Dans la solitude, già dettagliatamente rievocata in precedenza.

 

 

di Gianni Poli


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