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Florence Delay

Sept saisons. Chroniques théâtrales


Paris, Gallimard, 2015, pp. 376, euro 18,90
ISBN 978-2-07-014807-3

Florence Delay, membro dell’Académie Française dal 2000, pubblica una raccolta di Cronache teatrali apparse a suo tempo su «La Nouvelle Revue Française». L’autrice dichiara il senso di libertà che l’accompagna nell’esprimersi a spettacolo finito, senza l’urgenza di pubblicare la recensione di una novità. Si tratta di una condizione che la solleva inoltre dalla responsabilità di potere influire, col proprio giudizio, sull’andamento della rappresentazione: «Le chroniqueur est sans pouvoir. [...] le genre fait appel à la description, au récit, à la digression, à l’anecdote. Il autorise la mauvaise foi et la joyeuse humeur» (p. 9).

La vasta cultura della scrittrice pare applicarsi davvero con un’insolita, particolare leggerezza alla visione degli spettacoli commentati. Lungi dal fornire postille esegetiche, si concede digressioni e confronti che riescono a inquadrare il gusto del pubblico e le prestazioni dell’interprete nell’ambito più generale e complesso dell’espressione artistica. Molti sono gli eventi che hanno indubbiamente segnato il periodo. Per il semplice curioso, funzionano da richiamo o suggerimento; per gli specialisti, pongono nuove prospettive nell’integrazione puntuale d’una memoria ricostruttiva di quel tempo già lontano.

Fra gli spettacoli giudicati «inoubliables», quelli creati dai maggiori registi all’apice della carriera ed esemplari nella loro maturità artistica. Si apre così la rassegna del 1978 con le impressioni sulla Tétralogie Molière, diretta da Antoine Vitez, nella quale Delay riscontra corrispondenze tipiche del théâtre des idées propugnato dall’artista. La lunga e complessa rappresentazione, nella sua unità stilistica composta per variazioni, muove la critica a osservazioni specialistiche sulla dizione dei versi, quando giudica il «cas désésperé» della pronuncia della e muta e rileva come gli attori di Vitez finiscano per fare, magnificamente, «beaucoup de bruit autour d’un e muet» (p. 22).

Il rapporto con Vitez risulta forse il più disinvolto, benché impegnativo, poiché si scopre che l’autrice avrebbe avuto una collaborazione drammaturgica diretta col regista, traducendo e adattando per la scena La Célestine, di Fernando de Rojas, allestita nel 1989. Proprio a Vitez è dedicata la maggiore attenzione dal punto di vista quantitativo, con i sorprendenti resoconti a distanza di Les noces de Figaro (Firenze, 1979), Britannicus e Faust (1981), dove appare «Mephistophélès en cousin néoréaliste du serpent» (p. 227). In Hamlet (1983), invece, il regista francese restituisce, con efficace memorizzazione delle immagini, l’inaudita ricerca dell’innocence lungo lo spettacolo shakespeariano nello spazio all’italiana installato a Chaillot. E si assiste ancora a La Mouette, di Čhecov, dato a Chaillot nel 1984 e a L’écharpe rouge, di Alain Badiou, salutata come pregnante novità poetica nello stesso anno.

Gli artisti incontrati comprendono maestri del passato, come Jean-Louis Barrault, Giorgio Strehler, Peter Brook e Roger Planchon, ma anche numerosi emergenti, come Sobel, Régy, Mnouchkine, Lavelli, Mesguish e Wilson. Fra gli spettacoli di Barrault, emerge l’edizione «integrale» (1980) di Le soulier de satin, per la quale Delay rileva, accanto alla simpatica accoglienza dell’attore, l’inadeguato aggiornamento di décor e costumi alla mutata sensibilità estetica, rispetto a quella irripetibile della creazione in tempo di guerra. Diderot à corps perdu (1979) e Angelo, tyran de Padoue (1984) rappresentato come «western spaghetti», ricordano gli altri incontri con Barrault. Poi Delay si dedica a Strehler, che persegue il proprio trionfo con Goldoni, di cui rappresenta la Trilogia della villeggiatura. Ma data in riduzione (e tradotta da Félicien Marceau) l’opera le risulta sminuita, poiché «de cette trilogie montée pour la première fois il y a vingt ans à Milan, l’auteur a disparu» (p. 45). Assistendo a L’enterrement du patron, farsa di Dario Fo, nella messa in scena di Mehemet Ulusoy, nasce una precisa collocazione dell’Italiano fra «politica e cultura» (p. 81).

Di Brook si rievoca Mesure pour mesure (1979), occasione per discutere della traduzione di Shakespeare. Quella di Jean-Claude Carrière, comparata a quella di François-Victor Hugo, le risulta «d’une impunité, d’une grâce et d’une malice inouïes» (p. 38). Segue La tragédie de Carmen, valorizzata nella sintesi di amore e morte riportata alle origini del canto. Di Planchon, la spettatrice apprezza la novità coerente di Athalie, di Racine e Dom Juan, di Molière (p. 177).

Ariane Mnouchkine è giudicata su Richard II (1981), che suscita la domanda sul motivo della scelta d’una tragedia storica destinata a essere connotata dall’astoricità d’un lontano Oriente. Robert Wilson rappresenta Edison (1980) spettacolo affascinante nelle ripetizioni, di immagini e di voci, impostosi per la sua bellezza. Claude Régy, con Boto Strauß, appare il più accreditato a interpretare i drammaturghi tedeschi. Una Pina Bausch agli esordi viene stroncata per Cafè Müller, dato al Festival di Nancy (1980) in quanto «beaucoup d’expréssions en effet n’expriment ni sujet ni objet» (p. 164).

Le prince de Hombourg, di Kleist, diretto da Karge e Langhoff, «modernes au sens que nous déplorons» (p. 335) suscita l’irritazione della critica, che abbandona in anticipo la rappresentazione. Interessanti, per finire, le pagine dedicate al Graal Théâtre, trittico della durata di nove ore, di cui la Delay è co-autrice con Jacques Roubaud. Il regista Marcel Maréchal si disimpegna abilmente nell’affresco medievale, fra la barba imponente di Carlomagno e l’ingenuità di Re Artù: un’occasione per illustrare meraviglie e banalità di un «feuilleton» da palcoscenico. Nazionale, per giunta.


di Gianni Poli


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