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Theatre Research International
in association with the International Federation for Theatre Research

vol. 39, n. 2, July 2014, pp. 91
ISSN 0307-8833

Questo numero della rivista «Theatre Research International» viene descritto in apertura da Charlotte Canning come un numero “non intenzionalmente” speciale, in cui si cerca di indagare l’insidioso concetto della globalizzazione rappresentato e visto sul palcoscenico. La sfida si presenta fin da subito particolarmente interessante proprio in virtù di quell’ambiguità data dall’esigenza di definire cosa possa essere considerato un prodotto “locale”, non solo per quanto riguarda il teatro.

Nel primo articolo Caroline Wake si occupa del rapporto tra la proliferazione di voci pubbliche e l’indebolimento della nostra capacità di afferrare cosa viene effettivamente riferito. Per capire come il teatro possa funzionalmente intervenire nella sfera delle comunicazioni, oggi così oberata, Wake porta l’esempio della Headphone-Verbatim performance, una modalità di produzione teatrale che attinge alla tradizione del racconto orale facendo uso di moderni mezzi tecnologici. In Stories of Love & Hate, diretto da Roslyn Oades, gli attori recitano indossando delle cuffie attraverso le quali ricevono una sceneggiatura audio. La voce di una persona precedentemente intervistata sui fatti della cosiddetta “rivolta dei potenti” a Cronulla (Australia), racconta dal suo punto di vista lo scontro violento tra un gruppo di giovani locali e dei ragazzi di origine libanese. I dialoghi sono stati elaborati in modo tale da risultare discorsi tra conoscenti, così che il pubblico non recepisca il racconto in quanto cronaca fornita come servizio giornalistico o documentario, ma venga messo invece nella condizione di chi voglia venire a conoscenza dei fatti e, per farlo, debba origliare (con il permesso implicito di farlo, poiché siamo pur sempre a teatro) tanto i discorsi tra le vittime quanto quelli tra gli assalitori.

Keren Zaiontz analizza nel suo articolo lo spettacolo 100% Vancouver, co-prodotto dalla compagnia canadese Theatre Replacement e dal gruppo berlinese dei Rimini Protokoll, grazie anche all’interessamento della locale banca VanCity. In scena coreografie di gruppo e proiezioni di dati demografici e finanziari riguardanti la popolazione di Vancouver, alle quali si contrappone la presenza di cento effettivi abitanti della città, scrupolosamente selezionati in base ai dati raccolti nell’ultimo censimento. Si può dire, con Zaiontz, che l’intero spettacolo sia retto dalla strategica scelta del drammaturgo Tim Carlson, il quale ha costruito una “conversazione comunitaria” intorno a una rilevante domanda: cosa un cittadino di Vancouver definisce ricchezza? In questo modo ogni singolo abitante ha potuto fornire il proprio personale e caratteristico contributo alla riflessione sulla differenza che intercorre tra il benessere finanziario, calcolabile in numeri, e il benessere civico.

Nel terzo contributo Mark O’Thomas rende conto della sua esperienza in qualità di traduttore del testo drammaturgico The Ritual, commissionato all’autore brasiliano Samir Yazbek dal Royal National Theatre di Londra. O’Thomas descrive le diverse fasi della riscrittura, sottolineando come ognuna di queste si sia rivelata fondamentale per la stesura finale del testo. Il problema messo in evidenza dalla testimonianza di O’Thomas è la difficoltà di ricreare un contesto culturale in grado di fare riferimento anche al paese in cui lo spettacolo viene messo in scena, pur tentando di mantenere intatto lo sguardo esterno di un autore proveniente da una realtà differente, anche se non poi così tanto. Per The Ritual O’Thomas ci dice di aver dovuto creare un contesto riconoscibile dagli spettatori europei come "globalizzato", fornendo così al pubblico uno spettacolo che mettesse in scena prima di tutto una particolare tipologia di identità ibrida, né brasiliana né inglese, e, di conseguenza, uno spazio che avrebbe potuto essere individuato allo stesso tempo ovunque e in nessun luogo, anche grazie al lavoro sul linguaggio usato dai personaggi.

L’ultimo contributo, curato da Josephine Fleming, Robyn Ewing, Michael Anderson Helen Klieve, prende infine in considerazione l’ardua impresa di riuscire a rappresentare, in un paese come l'Australia, un'intera popolazione prevalentemente costituita da immigrati. Le differenze culturali influiscono in particolare sui giovani che spesso trovano difficile identificarsi con le proposte e le iniziative artistiche del paese. Un recente sondaggio, volto ad esaminare il rapporto dei ragazzi con il teatro, ha incluso soggetti al di sotto dei diciotto anni d’età, riscontrando come proprio questi frequentatori, a volte considerati marginali perché sollecitati da insegnanti o parenti a seguire le programmazioni, costituiscano in realtà la fascia più potenzialmente interessante per chi voglia capire la prospettiva con cui uno spettatore si reca a teatro. Tenendo conto degli studi sull'apprendimento del sociologo Pierre Bourdieunell'articolo si arriva a sostenere che non bisogna interrogarsi su quale sia il teatro che i giovani vorrebbero vedere, ma quale teatro effettivamente vedono. Cosa riesce a percepire come teatro un nucleo sempre più variegato di persone della stessa età? E in base a quante e quali esperienze? Queste sono le domande da porre – adesso – agli spettatori di domani.


di Mariangela Milone


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