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Paul Willems

Diceva dormire anziché morire/La Vita breve


Roma, Bulzoni, 2014, pp. 134, euro 12,00
ISBN 978-88-7870-920-1

 

Vengono pubblicate in italiano le ultime due commedie di Paul Willems (1912-1997), autore belga francofono pressoché sconosciuto in Italia; affermatosi nel dopoguerra come narratore dalla vena poetica e dalla sensibilità fiamminga, ricondotte all’espressione francese vissuta con gelosa originalità. Nella lunga carriera di funzionario e direttore del Palais des Beaux-Arts di Bruxelles, ha organizzato attività culturali internazionali. La sua opera comprende prosa e teatro, da Tout est réel ici (racconto del 1941) e Blessures (romanzo, 1945) a Le bon vin de Monsieur Nuche (1949) e La Ville à voile (1967), fino a La Vita breve (1989). I suoi luoghi mitici sono situati nel largo estuario del fiume Schelda, fra Edegem, Missembourg e l’Anversa portuale. Sulla genesi della sua drammaturgia e di queste due pièces, in particolare, la traduttrice non fornisce notizie nel libro. L’aspetto storico ed esegetico è affrontato in un altro lavoro dell’autrice, uscito in contemporanea, Oltre il giardino. Paul Willems tra narrativa e teatro (Roma, Bulzoni, 2014, pp. 480) di cui mi servo nella mia analisi.

 

In Diceva dormire anziché morire (1983) è tipica un’elaborazione linguistica applicata a un’azione caratterizzata dalla compresenza costante in scena dei personaggi, come evocati dalla memoria personale e modificata appunto attraverso il linguaggio. Accostabile alle esperienze simboliste di Maeterlinck e De Ghelderode, vi è rappresentato un nucleo famigliare composto da Padre, Madre (Emilia) e Figlia (Eila). La loro relazione, inizialmente chiarita dal genitore, è agita a intermittenza dagli altri personaggi, compreso un Soldato, coinvolto in un comune destino d’amore e morte. La Gasparro osserva nel saggio: «In una piccola dimora di campagna, la casa delle paludi […].  È una visualizzazione dolorosa di ombre domestiche, evocate e messe in immagine dal Padre, un personaggio-testimone che diventa il protagonista […] la voce recitante del dramma» (Oltre il giardino, p. 426). E s’avvertono gli echi traumatici dell’esperienza di guerra dell’autore, subita a relativa vicinanza dai bombardamenti sul porto di Anversa. La rappresentazione in tempo reale riguarda Eila, la ragazza rimasta custode della casa: lontana dal padre in guerra e dalla madre, fuggiasca in terra esotica, accompagnata da amanti occasionali, riempitivi di un’assenza sostanziale. Altri importanti elementi del dramma, le lettere pensate, scritte e non spedite da Emilia, stretta da rimorsi e complessi di colpa. Una soltanto, con una notizia erronea, è giunta alla dimora a causare un equivoco ulteriore.

 

Eila (Hélée, alata?) rappresenta la figura della vittima innocente. Sola e isolata, ha come unico alimento intellettuale il Dizionario Larousse, dal quale estrae le parole formatrici del suo lessico di adolescente, inadeguato alla realtà, ma fecondo di invenzioni poetiche, neologismi e lapsus significativi, come la sostituzione di “morire” con “dormire”. Peccato che a volte certe concettualizzazioni costringano l’interprete a improbabili battute, quali: «Ed io sono del tutto in assenza di apprensione» (p. 30). Malgrado la misura classica della pronuncia nel/del ricordo del Padre (un alter ego dello scrittore), la lettura risulta a volte faticosa, vincolata  dalla convenzione che frequenti e minuziose didascalie suggeriscono all’eventuale metteur en scène. Di fatto, è il Soldato a rappresentare, agli occhi della fanciulla appena donna, un fulminante avvenire d’amore, troncato ahimè dalla guerra. Suoni, che diventano musica, odori che recano profumi da un altro mondo, stabiliscono l’atmosfera attorno a codeste vicende dell’anima. Le sensazioni di “assenza”, di alterità insanabile e di malinconia, segnano personaggi e ambiente. La lirica, l’esclamazione, gli ossimori, intessono i lunghi monologhi, mentre gli scambi drammatici avvengono per dialoghi concisi. In chiusura, la partenza per Londra, da rifugiati, del Soldato e del Padre, sancisce la potenza dell’oblio sui sentimenti aggrappati al ricordo.

 

La Vita breve si svolge a bordo di un panfilo, in navigazione da Anversa verso Napoli, città in cui una losca vicenda s’era conclusa con l’assassinio di una giovane prostituta, bella e contesa. Sono proprio alcuni ammiratori della morta a tornare sul luogo del delitto, per il quale si cercano ancora il colpevole e il movente. Un giallo metafisico, per l’inserzione dei motivi del doppio, del manichino-automa (qui una bambola-per-marinai a grandezza naturale) ingredienti eccitanti dell’immaginazione decadente. La sensualità e il barocco sono enfatizzati, anche in aspetti parodistici e caricaturali, da un drammaturgo che aveva già svolto l’amara eppure luminosa vicenda di Anne-Marie, protagonista di La Ville à voile nella cornice portuale di Anversa e dei suoi abitanti mitologici, fra cui il reduce Josty e il manichino Fênetre, doppio di Anne-Marie. Qui il Capitano ha nascosto in cabina una bambola di lattice che gli ricorda la Amalissa assassinata e con la quale rivive ineffabili amplessi provocati dal suo desiderio feticistico, potenziato dall’intervento di Miesignorine, che dà voce e movimento “teatrali” al simulacro della morta. Cucivele, figlio di Miesignorine, aveva frequentato la ragazza nel bordello (chiamato La Vita breve), prima di ucciderla. Il giovane dalla voce melodiosa di contralto, suscita la gelosia della madre, castrante e possessiva, assieme all’istinto di salvarlo dall’accusa di omicidio. Il Capitano cambierà rotta, rinuncerà alla denuncia di Cucivele, per lui prezioso strumento per rivivere l’incanto napoletano della vera Amalissa. I due ufficiali mostrano certe qualità del marinaio di professione e nei vizi della loro condizione instabile è compresa l’attrazione per la fatale Prostituta.

 

Il copione è carico di allusioni tematiche e simboliche e ricorre al teatro nel teatro per la rievocazione di Amalissa, il cui «ruolo è recitato da un’attrice. Bella, polposa, tutto in lei è voluttà, senza nulla di provocante. È il tipo di donna che piaceva all’inizio del Novecento» (p. 63). Miesignorine giunge a danneggiare il meccanismo parlante della bambola, come per salvare il figlio, ha tentato di occultare i pugnali da lui detenuti. Ma Cucivele riesce a pugnalare il Capitano, non soltanto aggravando la sua situazione, ma confermandosi figura d’estrema ambiguità, quando si rivolge ancora al sembiante di Amalissa e si pone «in ginocchio, come davanti a una dea» (p. 129). E quando aggredisce la bambola la terza volta, reiterando così nel cerimoniale di morte l’atto mitico e fatale. In questa «sorta di via crucis grottesca a stazioni» (Oltre il giardino, p. 445), si aggravano le condizioni di solitudine, di isolamento fra persone “malate” e dagli sventurati destini incrociati. «La pièce – ammette la migliore esegeta italiana del Nostro – offre così spunti ed enfiature melodrammatiche dovute certo all’argomento e al barocchismo fantastico». Un testo tormentato, passato per una decina di rifacimenti, che affianca scene suggestive, sospese oltre il tempo storico, ad altre che richiedono ardue distinzioni di piani simbolici e stilistici. Senza trovare una soluzione unitaria, ne propone una scandita dall’irrealismo onirico e punta a un esito ineffabile.

 

Due testi in cui la perizia del drammaturgo-poeta (affermata in diversi precedenti di provata efficacia scenica – Il pleut dans ma maison, 1962, Warna ou Le poids de la neige, 1963, La Ville à voile, 1966, Les Miroirs d’Ostende, 1974, Nuit avec ombres en couleur, 1983) trova qualche difficoltà ad armonizzare l’ambizione formale con l’urgenza creativa ed espressiva. Comunque si incontra nelle due opere, tradotte da Gasparro con amorevole, flessibile e sagace fedeltà all’originale, un mondo e un linguaggio che la cultura teatrale italiana sembra finora rimuovere (come del resto tanta contemporanea drammaturgia francofona) piuttosto che accostare e cercare di comprendere.

 

 

di Gianni Poli


La copertina

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