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Arturo Colautti

Primadonna

A cura di Paolo Patrizi

Roma, Elliot edizioni, 2014, pp.288, euro 19,50
ISBN 9788861925830

 

E’ denso di sostanza operistica il romanzo Primadonna di Arturo Colautti, autore la cui fama odierna poggia quasi esclusivamente sui libretti della Fedora di Giordano e dell’ Adriana Lecouvreur di Cilea, in realtà eclettico intellettuale dai multiformi interessi, molto attivo sia sul versante giornalistico quanto su quello poetico e letterario. Merito di Paolo Patrizi, curatore del volume, e della casa editrice Elliot aver rispolverato un titolo da tempo negletto, il cui interesse non appare confinato al ristretto ambito della curiosità per melomani. Pubblicato postumo, il romanzo Primadonna ebbe una lunga gestazione, testimone di un rovello interiore e di un accumularsi della materia narrativa che procede di pari passo con la vita stessa del suo autore. Il libro è infatti profondamente intriso di sostanza autobiografica. Il matrimonio infelice e la morte della figlia sono episodi tratti direttamente dall’esperienza del Colautti, così come il difetto di balbuzie del protagonista, quasi a simboleggiare il suo doloroso distacco dalla realtà. Come in un dramma di Georg Kaiser, il personaggio principale vede balenare di fronte a sé una fortuna inaspettata, viene irretito dal potere distruttivo del denaro e della bellezza femminile fino a compiere il più efferato dei delitti ai danni della sfortunata consorte, la cui colpa principale è quella di essere sfiorita prima del tempo. Alla sua prematura caduta contribuisce il terribile lutto familiare, descritto dal Colautti non senza un certo melodrammatico compiacimento. La femme fatale, la primadonna del titolo, è una cantante lirica le cui speranze sono legate più alle forme giunoniche che ad un reale talento vocale. Un personaggio sostanzialmente insipido, i cui sogni di gloria sono destinati ad infrangersi contro la dura realtà. Lontano dai vincoli librettistici, accanto al tono propriamente melodrammatico Colautti mostra uno spirito sagace e arguto, pregno di umorismo e ironia. Il mondo dei cantanti fanfaroni e spiantati, degli impresari senza scrupoli e dei critici musicali conniventi viene tratteggiato con una perizia che gli deriva dall’esperienza diretta. Nelle pieghe di una realtà che si crederebbe tramontata per sempre il lettore moderno può cogliere sprazzi inaspettati di modernità, come quando l’autore descrive le italiche madri pronte a credere alle promesse dell’imbonitore di turno riguardo le capacità canore delle loro avvenenti figliole. Allora si guardava a una possibile carriera nel teatro musicale, mentre oggi si pensa alla gloria in qualche spettacolo televisivo; cambiano gli scenari, ma la satira non è per nulla inattuale. Un altro esempio: cantanti spiantati si lamentano della concorrenza degli stranieri, che lavorano per un ingaggio più basso. Un piccolo assaggio del conflitto fra immigrati e locali al quale assistiamo oggi in maniera sempre più drammatica ed esasperata in ambiti totalmente diversi. Se il mondo descritto indubbiamente non c’è più, certi caratteri del popolo italiano e dell’uomo in generale restano immutati e perfettamente riconoscibili. Ma questo è solo un primo livello della narrazione. Cerchiamo di addentrarci più nel profondo. Di tanto in tanto il Colautti, autore per nulla sprovveduto, coglie quel sentore di imminente rovina, di «grandi ricordi e grandi rimpianti» che spira dai lidi del decadentismo. Pur senza volergli attribuire quelle capacità profetiche che furono dei grandi narratori mitteleuropei, mentre questi fu ad esempio convinto interventista nel periodo antecedente il primo conflitto mondiale, lontano dall’intuire la reale portata della catastrofe imminente, notiamo un certo gusto per l’immagine disfatta e degradata a metà fra il naturalismo di Zola e le atmosfere morbose a cavallo fra i due secoli. Cantanti spacconi, professori di conservatorio e impresari falliti divengono altrettante metafore di un’umanità reietta e costantemente sull’orlo del baratro. Colautti è egli stesso un esule, dalmata per nascita, animato da un nazionalismo italico convinto, condannato ad una perenne nostalgia dal proprio irredentismo irriducibile. Un uomo solo, costretto a osservare «le cose perennemente da fuori», per usare un’espressione tratta dalla bella prefazione di Paolo Patrizi, come quelle donne che incontriamo nel libro, le quali accostano il viso al vetro di un caffé per sbirciare all’interno, balenando nella notte fredda come falene, le cui sagome indistinte sanno di mondi putrescenti e illusori, di vite inutili e sciupate destinate ad un inevitabile oblio.

 

 

di Riccardo Cenci


La copertina

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