Una generazione di cinquantenni è oggi al centro della gestione teatrale europea. Eclettici, autodidatti ed estroversi, soprattutto itineranti se non apolidi, sono i registi che segnano e decidono pratiche e tendenze nello spettacolo. Ivo van Hove, dorigine belga fiamminga, nato a Kwaadmechelen nel 1958, ha studiato ad Anversa, lì sè accostato al teatro e ha fondato la sua prima compagnia nel 1981. Oggi è direttore del maggior complesso olandese, il Toneelgroep di Amsterdam. Quasi rammaricandosi della distrazione durata diversi decenni, gli osservatori francesi sappropriano adesso dellesperienza in progress di van Hove e riflettono sulla sua opera in un volumetto della Collana «Mettre en scène». LIntroduzione è dello specialista Frédéric Maurin - a sua volta emergente dal nucleo dellIstituto di Studi Teatrali della Sorbonne Nouvelle di Parigi - il quale ci informa sulle residenze e tappe successive dellartista; sulle sue ricerche da principio non orientate esteticamente, ma offerte allistinto e alla sensibilità; ricondotte in seguito a un impegno sistematico che gli ha valso un centinaio di creazioni. Anversa è il luogo dellesordio, sia creativo sia pedagogico. Poi, nei Paesi Bassi, lattività si svolge a Heindhoven e Amsterdam. Gli spostamenti e le collaborazioni riguardano intanto New York e Seul, Santiago e Melbourne. Lo straordinario repertorio che va accumulandosi è rappresentativo di una drammaturgia mondiale che comprende lopera lirica.
I testi dellautore qui presentati sono costituiti da interviste (2011-2013) e nel loro svolgimento sintetico e programmatico, mostrano chiarezza di scopi e maturità di scelte espressive. Dichiara allinizio van Hove: «Le seul théâtre qui vaille est pour moi un théâtre né dun désir irrépressible, dune profonde nécessité, comme sil était vital de dire ce quon a à dire au moment où on le dit» (p. 19). Frequentando lIstituto Nazionale Superiore di arti dello spettacolo di Bruxelles, lartista ha incontrato insegnanti decisivi per la sua formazione. In particolare, Alex van Rayen lo ha indotto a una seria disciplina : «Par-dessus tout, il ma appris une chose fondamentale, que je noublierai jamais: lobjectivité du texte nexiste pas, on invente sa vérité en en produisant une interprétation. Cest une chose tout simple, mais essentielle» (p. 24). Gli incontri dallora, con Jan Fabre, Guy Cassiers, Jan Lauwers, Anne Teresa De Kaesrmaeker, si consolidano e sallargano in rapporti fecondi. Il giovane artista è chiamato da Dora van der Groen, direttrice del Conservatorio di Anversa, a insegnare nellIstituto (1985-1997). Non considerandosi un «insegnante di recitazione», insisteva su dettami empirici, suggerendo «la ligne du travail dans la continuità: reconnaître les articulations, les pics et les virages, savoir où attaquer, quand se mettre en retrait, pourquoi réagir ou non» (p. 30). Nellindirizzare gli aspiranti metteurs en scène, curava di «lui faire prendre conscience de ce qui ne fonctionne pas, de ce qui pourrait être davantage tenu ou davantage développé» (p. 32).
Fra gli artisti che lo hanno segnato, ricorda Oskar Panizza, Peter Stein, Patrice Chéreau. Grazie al lavoro di Karl-Ernst Hermann per La clemenza di Tito, ha superato i pregiudizi per lopera lirica. Quanto alla performance, la dichiara alimento dogni suo spettacolo, in cui pulsioni e comportamenti reali acquistano un valore estetico non esclusivamente formale. Gli attori accettano così autentici pericoli, «acceptent cette situation de vulnerabilité humaine […]. Il laissent affleurer le présent dans ce quil a de plus vif et de plus imprévisible» (p. 35). Nella scelta dei testi, anchessa frutto di originale spregiudicatezza (di Müller, Caldéron de la Barca, Ibsen, Wedekind, Koltès, Genet, Bergman, Cassavetes), spiega perché e come abbia spesso allestito opere nate in ambito realista per esaltarne le valenze più astrattamente universali. Anche luso della tecnologia (microfoni, proiezioni video) contribuisce al senso globale impresso allo spettacolo. Per la sua più recente Compagnia, che si rinnova nel ricambio generazionale e nella libertà dellispirazione, il direttore cura provini annuali, affinché «toutes les tranches dâge soient représentées, de vingt à soixante-dix ans» (p. 50). Fra gli altri paragrafi, quelli dedicati a Musique et Opéra, Létranger e Lartiste et le manager, in cui si tratta ad esempio del lavoro presso il Theatre Workshop di New York, dove ha realizzato negli anni 1990 rappresentazioni di drammi di O Neill in uno stile agli antipodi della tradizione americana. Nellassumere le due responsabilità, amministrativa e artistica, del Toneelgroep, van Hove si compiace di mostrarsi allaltezza delle funzioni complementari, mentre riesce a concedersi una specie di bulimia: in effetti, «cest surtout de lappétit, un appétit de création» (p. 72). Repères chronologiques e Bibliographie sélective completano il volume.
di Gianni Poli
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