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Cahiers Jean Vilar
Moi, directeur du Festival d’Avignon...

pp. 80, euro 10,00
ISSN 0294-3417

Al momento del cambio del direttore, il Festival d’Avignon sente il bisogno d’una riflessione sulla propria storia a partire dalla mutante attualità. Lo fa dando la parola a Olivier Py, nuova guida dal settembre 2013 e ripercorrendo la lunga vicenda della manifestazione, nell’esame dell’operato dei sei direttori precedenti seguiti a Jean Vilar (1947-1971): Paul Puaux (1971-79), Bernard Faivre d’Arcier (1980-1984 e 1993-2003), Alain Cormbecque (1985-1992), Hortense Archambault e Vincent Baudriller (2004-2013). Il fascicolo annuale, pubblicato dall’Association Jean Vilar presso la Maison omonima, s’intitola Moi, directeur di Festival d’Avignon…, ma abbraccia la generale questione organizzativa e artistica, avvertita come nazionale ed europea, nell’intervento Avignon entre social et culturel. Création et diffusion.

Segno che il tema del «pubblico» (in quanto spettatore e in quanto interlocutore) è ben presente e stringente: il Convegno di Liegi del 2011 (sugli Atti del quale la Rivista riferisce) lo dimostra, affrontando i temi legati al Théâtre et ses publics. Certo, le linee di discussione contraddittorie e vitali attraversano e alimentano il dibattito costante fra l’identità locale cittadina e il respiro nazionale d’una impresa che è di volta in volta vetrina cangiante, ma anche sperimentazione. Così come varia la scelta del pubblico, nella suddivisione fra il repertorio In e la zona Off. Luogo e motore di eventi che riflettono e influenzano l’intera vita del teatro, non soltanto francese, se si nota ad esempio, come la maggior parte dei protagonisti del Premio Europa per il Teatro siano passati per Avignone.

Non pare prioritario ai Redattori enumerare gli importanti episodi del passato, quanto comprendere le necessità future del Festival proprio in forza delle realizzazioni. Così la figura di Jean Vilar riappare accanto a quella dell’ultimo erede eletto e lo pone in condizione di continuità difficile. «On ne succède pas à Jean Vilar», ammonisce Paul Puaux e Jacques Téphany avverte ancora la tensione da armonizzare fra «tentation d’appropriation locale» e la persistenza di interventi centrali. Nella conversazione con Éric Ruf, Jacques Téphany e Rodolphe Fouano, Olivier Py ricorda Bayreuth per osservare: «L’idée d’une version républicaine de ce théâtre à la fois révolutionnaire et aristocratique qui était celle de Wagner est une idée surprenante» (p. 5) e chiude allontanando i sospetti per cui Avignone sarebbe «villeggiatura di Parigi» o che il suo arrivo segnerebbe quello di un «colonizzatore parigino» (p. 11). Del resto, ipotesi alternative personali sono sollecitate in un gioco di ipotesi (Point de vue) a Olivier Poivre d’Arvor, Jean-MIchel Ribes, Laure Adler e Philippe Fenwick, che nel suo programma, Oser et résister, include clausole provocatorie e sinceramente eversive: «Rompre une fois pour toute avec l’idée ringarde et désuète du théâtre populaire […]. Programmer un théâtre sans mot [...]. Enterrer définitivement les utopies de Vilar ou Gémier [...]. Se défaire du contexte local» (pp. 16-17) per puntare all’internazionalità dell’avvenimento. Avignone resta dunque focolaio di progettazione ed elaborazione, in cui salvaguardia della memoria e indicazione di traguardi futuri confluiscono, con l’apertura, ad esempio, di FabricA, struttura periferica alla Città, di residenza e prova per gli artisti, sorta nel 2013.

Utili e puntuali, sia le rievocazioni sia le prospettive: fra gli inediti (o quasi), un florilegio di citazioni da Jean Vilar e una sua Intervista con Jack Ralite (1970) dove emergono pensieri e raccomandazioni sulla cultura, oggi ancora ineludilbili: «Enfin la culture ce n’est pas seulement le Louvre, Versailles, le Panthéon […]. C’est d’abord le long, le délicat, le studieux recensement des besoins culturels de chacun» (p. 75). Un fascicolo memoriale e programmatico, che ravviva la curiosità per quanto si vedrà nelle prossime stagioni.





di Gianni Poli


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