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Le Théâtre et ses publics
La création partagée
Sous la direction de Nancy Delhalle. Collaboration d’Aline Dethise

Besançon, Les Solitaires Intempestifs, 2013, pp. 496, euro 15,00
ISBN 978-2-84681-383-9

 

Dal 26 al 29 settembre 2012 si tenne a Liegi il Convegno Le Théâtre et ses publics. La création partagée, organizzato dal Théâtre de la Place e dall’Università di Liegi, nell’ambito del progetto internazionale Prospero, che vede implicati sei teatri di altrettante città europee. Frutto dei contributi di oltre trenta relatori, il libro rispecchia una mappa culturale aggiornata, espressa in uno dei suoi centri significativi, dove, al pari di Bruxelles, s’incrociano lingue, entità e istanze europee in senso lato. Ed è motivo di rammarico che le produzioni teatrali del Belgio, tipiche nella diversità, non siano adeguatamente seguite e apprezzate in Italia. Due Introduzioni aprono visuali complementari. Con Romeo Castellucci si accede alla visione utopica, vissuta e partecipata dalla personalità di un nostro artista fra i più ammirati all’estero. Nelle ricorrenti metafore, Castellucci sollecita immaginario e prassi, affermando l’equivalenza di «partecipazione» e «incontro». Esorta a «utiliser le poison» per distillare omeopaticamente l’essenza della tragedia. «L’invention du théâtre survient quand l’être est scandalisé et que, se retrouvant dans une solitude splendide, il peut partager cette solitude avec les autres. Voilà en quoi consiste le fait politique» (p. 20). Eccitata da stati della vita interiore, la sua creatività conduce (quasi in consonanza con Eugenio Barba e Olivier Py) a «imaginer le théâtre comme un feu, comme un combustible qui brûle sa propre matière en train d’être conçue comme théâtre». La sapienza storica e sociologica di Nancy Delhalle, arricchita dalla sensibilità estetica segue, in Un lien pour le temps présent, il mutamento del rapporto tra il produttore e lo spettatore. Nello spostamento evidente, segnala la perdita del senso originario del «service public» e della nozione di «populaire», per un’arte dagli aspetti molto frammentati e diversificati. E nella critica rileva crescente la tendenza a forme «d’accompagnement du travail artistique» (p. 38).

 

Nella Prima parte (Le succès public? Approches sociologique, economique et politique), esordisce Anne-Marie Autissier, toccando un nodo del dibattito che verte sul senso della presenza del pubblico. Considerata la «démocratisation de l’expressivité» come un dato accertato, analizza le configurazioni e i ruoli variabili del pubblico – fra «partenaires» e «mediateurs» – per rintracciare le posizioni intermedie nelle tante declinazioni possibili. Ammessa una difficile distinzione fra apporto amatoriale e lavoro professionale, segnala i tre dispositivi culturali partecipativi, cioè dialogici, deliberativi ed estetici, verificati in un quartiere di Bruxelles. Torna spesso in citazione Le spectateur emancipé (2008), di Jacques Rancière, a cui corrisponde il declino della problematica «postmodena». Proprio da Rancière parte Piergiorgio Giacché con Le Public trop emancipé?, saggio sull’evoluzione di un pubblico che, comprendendo un tempo la controparte più attenta e reattiva, muta in un «Public Majuscule», istituzionalizzato nell’Assessore alla cultura, soggetto decisivo in Italia. Con riferimenti all’idea e alla pratica di Jean Vilar, Laurent Fleury cerca i nessi attuali con vecchie categorie, da cui deriverebbe comunque la legittimità «politica» di proporre nuovi valori estetici. Stéphane Olivier (Privé de public) indaga sulla condizione delle compagnie nei teatri che le ospitano e ne diffondono il lavoro; evidenzia preoccupazioni espressive (pericolo dell’autocensura) lungo cattivanti e paradossali scorci utopici. L’autore di Rwanda 94, l’animatore di Groupov Jacques Delcuvellerie, rimarca differenze fra pubblico e spettatore e rivaluta la richiesta essenziale che l’autore rivolge allo spettatore, fino a sostenere: «C’est donc le spectateur et non la nature de l’événement qui crée le phenomène spectacle» (p. 136).

 

Marco De Marinis apre la Seconda parte con Réhabiliter le spectateur: pour une critique de la participation. Lungo un esame storico ricco di casi esemplari, lo studioso isola specialmente l’ideologia «participationniste» e ne traccia una genealogia cogliendo il punto di delegittimazione dello spettatore nella pretesa opzione di rendere «tous acteurs!» (p.158). Richiama la visione di Leo De Berardinis per ricollocare lo spettatore in rapporto con l’arte della scena, indagata secondo una teatrologia meno soggettiva. Ancora sull’opera in relazione allo spettatore interviene Christine Servais, che conclude sulla politicità dell’interpretazione estetica dello spettacolo: «C’est à travers le jugement esthétique que l’attitude de l’homme est politique» (p.184). Torna sull’ipotesi di Rancière Maria Helena Serõdio (La communauté improbable) e la sua originalità consiste nel riutilizzare la definizione di Bernard Dort, «la représentation emancipée» (dal libro del 1988). Così emerge la fecondità degli accostamenti e degli strumenti d’un pensiero debitore verso Brecht, capace di evidenziare la «rivalità» fra gli elementi interagenti nella rappresentazione. La studiosa portoghese discute poi sulla facoltà dell’atto teatrale di suscitare mobilitazione politica, vagliando suggestioni di Pasolini e Gramsci, di Delcuvellerie e Banu. Marcel Freydefont riferisce di tentativi attuali volti a ottenere un «naturalisme paradoxal» (p. 241) quale esempio di un genere insolito, il  «théâtre infusé». La sensibilità fiamminga di Karel Vanhaesebrouck svolge una Petite apologie de la pratique socio-artistique nella quale esamina casi di animazione in periferie disagiate e tenta di misurare gli effetti sociali di un’esperienza artistica di vasto coinvolgimento. Le mutazioni della scrittura esaminate dall’ex direttore del CNES alla Chartreuse di Avignone, Franck Bauchard, rivelano potenzialità inesplorate nei mezzi informatici e nei metalinguaggi da essi originati. Non mancano proposte eccentriche, quali il «théâtre écozique» concretato nella performance-installazione Exote, di Kris Verdonck descritta da Stalpaert e Verdoodt (p. 265) o il lavoro di Stefan Kaegi col gruppo Rimini Protokoll (d’origine tedesca) per un «teatro documentario», esposto da Salomé Frémineur  (p. 321).

 

Nella Terza parte (La Critique), le relazioni di Roberto Canziani (Reserver votre place au théâtre, c’est comme reserver une chambre d’hotel?) fa un censimento dei modi d’impiego dei nuovi mezzi di comunicazione e illustra le conseguenze sulle nostre abitudini, anche di fruitori del teatro; e di Oliviero Ponte Di Pino, che fornisce una rassegna completa della diffusione della nostra critica on line, in Le web critique italien. In quel campo si manifesta il pragmatismo nell’adeguamento spontaneo alle condizioni e alla pratica del web, mentre perdura l’esigenza di studio e di confronto con l’artista (come sostiene e sollecita ad esempio il regista Éric Lacascade in La critique comme une œuvre à part entière) per il quale non esistono né critica né spettacoli perfetti, ma nella critica riconosce l’importanza per la memoria vivente dello spettacolo (p. 456). Siamo forse nell’ambito più fluttuante, fra certezze svanite («illusions perdues», per René Solis di «Libération»), esigenze non sopite e ipotesi alternative, di fronte però a spazi ristretti e a un’attenzione ridotta nei maggiori responsabili della comunicazione. Eppure con Jean-Marie Piemme si torna al centro d’un cerchio essenziale di pensiero e di intervento. Argomenta le sue idee dal punto di vista del drammaturgo, quale «critique institutionnalisé au sein de l’équipe artistique» e fa suo il processo seguito da Bernard Dort (p. 465). Mentre gli spettatori aggiungono la loro esperienza allo spettacolo, al critico si chiede di esprimersi per affermare la sua legittimità e per impegnarla pubblicamente. Il teatro, corpo a corpo vivo, non è spiegabile soltanto con concetti, ma con un’adesione personale totale. Fra il sogno dell’originalità assoluta dell’espressione artistica e i tentativi di controllo anche quantitativo capaci di misurare il fenomeno, la compartecipazione all’impresa e all’avvenimento spettacolare di più componenti paritetiche appare accertata. Il libro, fra le tante vie di ricerca e di azione suggerite, pure con ridondanze – oltre la fecondità degli scambi promossi durante il Convegno – lascia la sensazione d’uno stato tuttora precario e inquietantemente confuso sulla realtà artistica e sulle mete prossime degli operatori del settore. Per la funzione critica in particolare, a dispetto della situazione molto disagiata, si può forse scorgere proprio nel suo esercizio appassionato a oltranza, il movente più nobile e promettente d’una presenza necessaria, per molti irrinunciabile.

di Gianni Poli


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