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Olivier Py

Les mille et une définitions du théâtre


Arles, Actes Sud, 2013, pp. 248, euro 19,00
ISBN 978-2-330-01948-8

 

Il direttore dell’Odéon-Théâtre de l’Europe, appena passato alla guida del Festival d’Avignon, elude provocatoriamente la continuità logica del suo discorso, sia teorico sia professionale, ma non l’intima coerenza poetica, per tuffarsi con intelligente compiacimento in immagini e ipotesi ardite che trascinano il lettore nel magma delle sue visioni. Il regista può contare anche sulla complicità degli spettatori, per ravvivarne la memoria con inedite suggestioni. Il Teatro è per Py un fenomeno, nel senso proprio di phainómenon, e l’essenza del proprio lavoro è più nel vissuto cosciente che non nella ricerca della teatralità; prevalenza della parola in azione (poetica dunque) e non rappresentazione di temi e problemi drammatici. L’attenzione alle estetiche e ai principi enunciati e perseguiti lungo il Novecento è ben presente in questi suoi appunti sintetici. Il Teatro Popolare, ad esempio, non tenderebbe al divertimento, ma a sollecitare il pensiero: «Le théâtre ne dénonce rien. Il est l’annonce que ce qui est ne peut pas mourir» (p. 38). E come per Vilar, l’avventurosa occupazione dello spazio aperto avignonese è per lui utopia: «Ce que Vilar voulait à Avignon […] c’était l’effondrement de tous les murs du théâtre bourgeois. […] Le théâtre est une machine à voir le ciel de l’égalité sociale» (p. 181). Viene poi il rilievo del carattere intrinsecamente «reazionario» del Teatro più autentico, in quanto affermazione di un respiro e d’una esperienza mistici che invitano allo scavo nei recessi più profondi e non allo slancio tipico delle avanguardie formali. Defizione 50 : «Le théâtre est un décélérateur. En cela il est toujours réactionnaire, la vitesse et la virtualité sont les maladies de la modernité» (p. 24).

 

Il teatro supera le religioni e si impone con l’unicità e l’assolutezza della sua parola. Poiché mistero e parola hanno stesse sorgenti, si attraversa prima la mistica poi l’estetica. «Le théâtre est l’incommensurable qui vient dans la mesure» (p. 27). Del resto, è costante il parallelo con la fede cristiana nell’Incarnazione di Cristo, che Py richiama spesso quale evento analogo a quello prodigioso e irripetibile del palcoscenico. «Le théâtre est l’infini qui vient dans le fini» (p. 57), acquistando rango divino: «Le théâtre est l’immateriel qui vient dans la matière» (p. 108). Il regista allora si sente demiurgo e testimone: «Dieu est celui par qui les choses ont la permission d’apparaître. L’homme, c’est celui qui voit et témoigne de l’être des choses. Pour cela, il lui fallait la possibilité non pas de voir seulement mais de représenter» (p. 30).  

 

Nello stile, emerge la figura dell’ossimoro, su cui si basa il canone reiterativo delle sue espressioni. Approssimazioni per difetto, per via negativa o per illuminazione abbagliante, compongono le formule aforistiche di altrettanti tentativi di descrizione dell’ineffabile. Eppure, elementi concreti non mancano alle sue osservazioni, come quelli sul lavoro dell’attore, sviato dalla ricerca di un’identificazione sentimentale che non saprebbe garantirgli il risultato creativo necessario: la meta è la verità poetica, non quella psicologica (p. 137). Frequenti anche i confronti con le idee e le soluzioni proposte dai Maestri della scena del Novecento, da Brecht a Vilar, da Pirandello a Mejerchol’d («Le théâtre est le bouton qui attache le ciel à la terre», p. 88). Pertanto Py vaglia criticamente le maggiori ideologie correnti del suo secolo; sullo sfondo onnipresente della mitologia classica e della teologia cristiana. Considera Wittgenstein e Benjamin, cita Jacques Derrida di Spectres de Marx (1993) riconducendolo alle proprie tesi sull’attualità storica. Con l’angoscia di Amleto si spiegherebbe lo smarrimento dell’Occidente al momento della caduta del muro di Berlino (p. 71). L’impegno politico del teatro sarebbe peraltro efficace non tanto perché fomenta la lotta di classe, ma perché ingaggia «une lutte de groupe contre une surmasse, une lutte de formations contre l’informe» (p. 76), frutto di un’aristocrazia illuminata. In tal senso, il teatro può costituire la risposta più violenta al sistema culturale, confidando in una forza utopica che per la gratuità della poesia saprebbe superare le categorie culturali imposte dalla società. Il teatro infatti - più che arte, archetipo di tutte le Arti - nasce dal desiderio ed è alimentato dall’insoddisfazione del suo bisogno. Così si otterrebbe l’affrancamento dal godimento, falsa promessa della società dei consumi. «Le théâtre est un lieu où le désir est un acte» (p. 80). Quindi la funzione privilegiata dell’attore consiste nel rendere concreta l’incarnazione della Parola; la sua condizione implica un’ascetica della perdita e «le théâtre est la joie de tout perdre affirmée comme art» (p. 155).

 

Talvolta la perorazione dell’artista appare volta a contraddire la Storia di fronte alla sorgente inesauribile della vita bagnata dal senso del Mito. «Le théâtre est un présent vécu comme un récit mythique, et un mythe vécu comme un présent inouï» (p. 147) precisa Py, assumendosi responsabilità quasi profetiche: «Le théâtre est une révolution intime. L’Histoire n’y comprend rien. [...] Les hommes ne sont pas historiques. Le théâtre donne à l’individu et à son anedocte la dignité que l’Histoire oublie de lui accorder» (p. 166).  E forse sono questi gli accenti che meno si condividono col Direttore di un Festival storicamente popolare per eccellenza. La misura frammentaria del libro mostra tuttavia una coerenza e un’unitarietà notevoli, appunto nella ripetizione e nella variazione; nell’asintoto fra il finito e l’infinito, il materiale della messa in scena e il suo ideale, latente compimento immaginario. Il riconoscimento della natura, anche sessuale, dell’esigenza espressiva teatrale apre alla dimensione di un’umanità che si riconosce, oltre che pensante, desiderante, secondo le categorie adottate da Eugenio Scalfari per definire l’uomo attuale. «Le théâtre est un mode de relation sexuelle» (p. 135) e ancora, «un debordement d’energie spirituelle» (p. 131). Cogliendo anche casualmente le sollecitazioni di quest’opera, si scoprono i tesori depositati in una specie di miniera, da riportare alla luce con precauzione. Lo stesso autore ammonisce di non illudersi che tutto quanto ne affiora sia traducibile in moneta corrente: «La vérité est comme ces trésors que l’on remonte du tréfonds et qui, sitôt à la surface, tombent en poussière» (p. 160). Nell’immaginario, i principi di realtà non sono applicabili e l’artista mentre li insegue, li denuncia e li contraddice. Paradossale coerenza.

di Gianni Poli


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