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Cristina Jandelli

I protagonisti.
La recitazione nel film contemporaneo

Venezia, Marsilio, 2012, pp. 175.
ISBN 978-88-317-1434-1
                                 

Pubblichiamo qui di seguito un breve estratto del libro

 

 

La condizione di trapasso che il cinema contemporaneo sta attraversando ha inizio con la comparsa del digitale che a partire dagli anni Novanta ha provocato una trasformazione tecnologica senza precedenti nella storia del cinema insediandosi progressivamente in tutti i suoi gangli espressivi, dal montaggio al suono, alla messinscena, alla ripresa fino a coinvolgere l’attore digitalizzandolo, estraendo linfa vitale dal suo corpo per riplasmarlo. Alla fine del processo, il principale strumento di lavoro dell’attore cinematografico, il corpo, appare  disciolto nei pixel mentre prende vita il personaggio digitale. Di qui discende una nuova concezione che lo vorrebbe, a livello teorico, cancellato dalla manipolazione digitale, mentre per altri la trasformazione delle competenze non impoverisce l’essenza del suo apporto creativo, anzi, pare potenziarla[1].  

Gli spettatori conoscono ed amano i protagonisti del cinema della loro epoca perché davanti ai loro volti ingigantiti hanno pianto e riso, esperendo emozioni autentiche attraverso le trasformazioni psicofisiche e cognitive che li hanno investiti. Non tutti gli spettatori sono cinefili: solo questi ultimi, infatti, assoceranno al termine “protagonisti” il titolo italiano di un’opera meta-attoriale di Robert Altman. Ma più o meno tutti riescono a individuare e riconoscere intuitivamente le qualità espressive di un’attrice o un attore. Si affidano ancora alla loro presenza, che in realtà è soltanto l’effige di un corpo che ha agito in un determinato momento davanti alla macchina da presa, quando scelgono se vedere o meno un lungometraggio di finzione pagando un biglietto, un noleggio telematico o affidandosi a uno streaming video di bassa qualità. Gran parte degli spettatori sa distinguere una cattiva interpretazione da una buona, ma pochissimi riescono a descrivere esattamente come un attore crea un personaggio. Il protagonista, oggi, può doverne interpretare uno davanti a un asettico green screen, calato in una tuta aderente mappata da sensori, con cavi che lo collegano a un monitor e telecamere montate su un casco per riprenderne i movimenti oculari. Nonostante questa nuova condizione espressiva la sua presenza, anche come sola voce (il doppiaggio dei personaggi digitali), continua a risultare elemento chiave del film di finzione. Finché parliamo di opere che impiegano corpi e/o voci umane, la recitazione cinematografica si rivela implicata nella maggior parte delle domande che rivolgiamo al film.    

A Hollywood, nel cinema indipendente americano e in gran parte della produzione europea, lo stile naturalistico della recitazione tende a farsi invisibile e la performance viene cioè per lo più percepita come assenza di interpretazione, con l’attore che sembra limitarsi a essere se stesso[2] mentre, come notava Brecht a proposito della recitazione stanislavskijana, è proprio grazie a questa tecnica che il personaggio può apparire naturale al punto da rendere semplicemente impossibile concepirlo in altro modo[3]. Inoltre la recitazione cinematografica è stata tradizionalmente percepita come mero effetto della tecnica, cioè tende ad essere analizzata come parte integrante della messa in scena e da lì posta in relazione con le altre componenti del film in quanto effetto dell’inquadratura, del suono e in particolare del montaggio. Tutti questi elementi hanno contribuito alla percezione della recitazione come se non fosse realmente tale: il risultato è che il personaggio troppo a lungo è parso essersi fatto da solo, o meglio esser stato creato essenzialmente dal regista (nelle teorie autoriali degli anni sessanta) o dal lavoro del film (nelle teorie semiotiche che hanno caratterizzato gli anni settanta e successivi).

La recitazione “trasparente”, e non solo quella, appare resistente all’analisi. Può essere assai difficile da descrivere anche perché l’abitudine a farlo si è interrotta dopo i primi decenni del Novecento, in particolare dopo il periodo muto segnato dal fiorire delle teorie sull’attore cinematografico con Hugo Von Münsterberg, Béla Balázs, Walter Benjamin, Lev Kulešov, Serghej Ejzenstejn e Vladimir Pudovkin, ma anche con alcuni scritti critici di Jean Epstein e Louis Delluc[4]. Contrariamente ai loro omologhi dei primi decenni del Novecento, i recensori contemporanei non scendono mai nei dettagli specifici analizzando il contributo dell’attore in termini di tecnica fisica e vocale, di preparazione specifica o di teoria della recitazione. Analogamente gli studi accademici hanno trascurato la recitazione almeno fino agli ultimi anni. Solo quando i cultural studies, soprattutto per effetto dei  saggi sul divismo di Richard Dyer[5], hanno permesso di formulare parametri descrittivi concreti per analizzare la recitazione nel film[6], sono state avviate indagini destinate a incrementarsi negli ultimi anni. Ma i contributi si sono spinti in direzioni così disomogenee da non riuscire a definire un’area di studi organica. Nel panorama internazionale della ricerca oggi compaiono questioni ontologiche (che cos’è la recitazione cinematografica?), questioni stilistiche (quali sono le differenze fra gli stili attoriali?), questioni di autorialità (di chi è la responsabilità della performance?), questioni storiche (quali sono gli effetti delle trasformazioni tecnologiche sulla recitazione?) e, infine, questioni ideologiche (come agisce la recitazione cinematografica sulle nostre idee relative all’essere umano?)[7]. Tentare di rispondere a tutte queste domande risulta estremamente ambizioso. Ciononostante, sembra venuto il momento di provarci.

Gli attori abitano l’inquadratura con un corpo, un volto, dei gesti, delle pose, una voce senza le quali il personaggio non esisterebbe, perché nel racconto cinematografico l’attore costituisce per lo più con l’interprete un binomio inscindibile. La loro immagine congiunta crea relazioni con altri film, intesse legami con memorie stratificate delle interpretazioni precedenti, specie se l’attrice o l’attore sono anche star e possiedono un’immagine filmica e pubblica di forte spessore. Il significato cinematografico del termine “protagonista” riassume tutto questo: con una sola parola si intende anzitutto il ruolo centrale nella narrazione, ma anche la perfetta fusione dell’attore con il personaggio, tanto da poter parlare di “protagonista” per indicare sia il personaggio che l’attore che lo interpreta. Generalmente quest’ultimo fa valere il suo ruolo preminente rispetto al resto del cast attraverso antiche consuetudini produttive: trattamento economico di favore, nome in evidenza in ogni immagine pubblicitaria, quantità di primi piani superiore a quelli degli altri scritturati, particolari cure della persona (abiti, accessori, trucco) nonché la libertà di intervenire sul copione e perfino di determinarlo se implicato anche in veste produttiva[8]. L’attore che recita in molti film da protagonista in una solida industria cinematografica ha tutti i requisiti necessari per diventare, se dotato di carisma[9],  amato dal pubblico e sostenuto dal circuito mediatico, un divo. Per quanto riguarda il personaggio, la comprensione del modo in cui l’attore lo crea e ne determina le azioni  risulta fondamentale per indagarne il senso, specie se si tratta di una figura complessa, in evoluzione, straniata o riconfigurata dallo stile del film e dal racconto come quelle che compaiono in questo libro.

Analizzare la recitazione significa individuare cosa fa l’attore, cioè comprendere come si esprime. Il problema della voce costituisce un gigantesco rimosso in Italia dove si continua volentieri a illudersi che il protagonista abbia “quella” voce, nella realtà la voce di un altro. Gli spettatori criticano con una certa facilità gli accenti fasulli o i toni calanti di un attore italiano ma sembrano credere che il timbro vocale profondo e suadente, la perfetta dizione e l’intonazione appassionata di Luca Ward siano quelle del protagonista di Gladiator (Il gladiatore, Ridley Scott, 2000) cioè di Russell Crowe, attore australiano che nella versione originale recita in inglese americano un antico romano con indiscutibile intensità. L’illusione del doppiaggio, come quella del mondo finzionale costruito dal film, può apparire perfetta. Ma chiunque è in grado di comprendere che in queste condizioni uno spettatore italiano non può davvero giudicare la recitazione di un attore cinematografico straniero (e per molti decenni neanche quella di molti interpreti nazionali che venivano doppiati da altri). Ovunque prolifichi una stabile industria del doppiaggio la recitazione cinematografica appare opaca, sostanzialmente alterata[10]. Anche per questo motivo, forse, il suo studio in passato nel nostro paese appare così episodico e lacunoso. Oggi però gli ostacoli posti dal doppiaggio possono essere rimossi. Grazie alla tecnologia digitale si può vedere il film su dvd in lingua originale, ascoltare le vere voci degli attori e delle attrici internazionali: descrivere la recitazione cinematografica diventa una possibilità reale offerta a chiunque. Inoltre, grazie alla codifica digitale delle immagini, il film si può scrutare e ascoltare, “catturare” per frammenti e analizzare per fotogrammi. Si ha a disposizione tutto quello che serve per individuare il lavoro delle attrici e degli attori. Questa ricerca non avrebbe potuto essere svolta altrimenti.

 



[1] È la tesi sostenuta in C. Uva, Ultracorpi. L’attore cinematografico nell’epoca della digital performance, Roma, Bulzoni, 2011. Vedi anche P. Marocco, F. Zippel, Il digitale nel cinema: nuove frontiere, in XXI secolo. Comunicare e rappresentare, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009, pp. 525-531.

[2] «Stage acting is still popularly considered superior to film acting. An actor who does a good job disappears into his role, while the bad actor is only playing himself». («La recitazione teatrale a livello popolare viene ancora considerata superiore a quella cinematografica. Un attore che fa un buon lavoro scompare nel suo ruolo, mentre il cattivo attore è colui che si limita a interpretare se stesso»). L. Braudy, Acting: Stage vs. Screen, in Film Theory and Criticism: Introductory Readings,  a cura di Id., Marshall Cohen, New York, Oxford University Press, 1999, p. 423.

[3] Ma già Sigfried Kracauer: «In realtà, la sua maschera è “innaturale” quanto la sua condotta; altrimenti non potrebbe creare l’illusione della naturalezza». S. Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 173 (1a ed.: Nature of Film. The Redemption of Physical Reality, New York, Oxford University Press, 1960).

[4] Per una disamina complessiva delle teorie della recitazione cinematografica si vedano J. Nacache, L’acteur de cinema, Paris, Armand Colin, 2005; F. Pitassio, Attore/Divo, Milano, Il Castoro, 2003; Id., Ombre Silenziose. Teoria dell'attore cinematografico negli anni Venti, Udine, Campanotto, 2002.

[5] R. Dyer, Star, Torino, Kaplan, 2003 (1a ed.:  Stars, London, British Film Institute, 1979); Id., Heavenly Bodies. Film Stars and Society, New York, St. Martin’s Press, 1986; Id., Dell’immagine. Saggi sulla rappresentazione, Torino, Kaplan, 2002 (1a ed.: The Matter of Images, London, Routledge, 1993).

[6] Un esempio per tutti J. Naremore, Acting in the Cinema, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1988.

[7] Sintetizzo qui la mappatura delle ricerche in corso presente in Movie Acting, the Film Reader, a cura di P. Robertson Wojcik, New York-London, Routldge, 2004.

[8] Su come i divi contemporanei orientino e determinino la politica produttiva hollywoodiana cfr. G. King, La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era del blockbuster, Torino, Einaudi, 2002, pp. 185-221 (1a ed.: New Hollywood Cinema. An Introduction, London-New York, I. B. Tauris Press, 2002). 

[9] «Il richiamo carismatico è efficace specialmente quando l’ordine sociale è incerto, instabile e ambiguo e quando la figura o gruppo carismatico offre valore, ordine, stabilità per bilanciarlo». R. Dyer, Star, cit., pp. 44-45.

[10] La complessa questione del doppiaggio è ormai oggetto di studi specifici. Cfr. Il doppiaggio nel cinema italiano, a cura di M. Giraldi, E. Lancia, F. Melelli, Roma, Bulzoni, 2010; Alberto Castellano, Il doppiaggio, Roma, Aidac, 2000.






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