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Il metodo Strehler
Diari di prova della Tempesta scritti da Ettore Gaipa
A cura di Stella Casiraghi

Milano, Skira, 2012, pp. 167, € 24,00
ISBN 978-88-572-1619-5

 

6 marzo – 27 giugno 1978: Giorgio Strehler prova la Tempesta di Shakespeare sul palco prima del Piccolo e poi del Lirico. Intanto, in platea, il coetaneo Ettore Gaipa, suo collega ed amico, tiene, su un quaderno, giorno dopo giorno, il diario della lavorazione. È un diario bellissimo, appassionante, struggente, čechoviano, che si legge come un romanzo. Bellissimo perché scritto in una prosa lirica di cristallina, poetica, profonda semplicità, da un uomo che per tutta la vita ha lavorato nel teatro e che perciò lo conosce molto bene. Appassionante perché mostra l’impervia, lunga, faticosa genesi – piena di alti e bassi, entusiasmi e crisi depressive, passi in avanti e passi indietro – di uno spettacolo storico. Struggente e čechoviano perché scritto, nella sua poltroncina di platea, da un navigato, mite, colto, penetrante regista, nostalgico e malinconico, impegnato a raccontare il travolgente genio di Strehler, che iniziò la carriera insieme a lui e che nel 1978 è all’apice della fama mondiale. A tenere il diario delle prove di uno spettacolo, di solito, è un giovane alle prime armi, pieno di risposte e di grandi speranze: quando a tenerlo, però, è un sessantenne, la musica cambia. E le pagine di Ettore Gaipa, infatti, oltre a traboccare di esperienza scenica e di erudizione, e completamente prive di accenti retorici o agiografici, sono costellate di domande, di ricordi e di una pacata, dolce mestizia. Sono rigorose, dettagliate e distaccate ma nello stesso tempo empatiche, partecipi, pronte a stupori e slanci: la mente fredda, il cuore caldo (soprattutto con l’avvicinarsi della prima).

 

Via via che le giornate passano e le lunghe, massacranti prove si susseguono l’una dopo l’altra, il lettore s’appassiona alla storia della travagliata gestazione di questo spettacolo (storia narrata con inevitabile e avvolgente climax), e s’affeziona anche a tutti i personaggi principali: dall’umorale, instancabile, incontentabile, nervosissimo regista (che, nel corso delle prove, soffre di un male agli occhi) all’esile Marise Flach, la responsabile dei movimenti mimici (che qualche giorno prima del debutto si frattura tibia e malleolo saltando sul palcoscenico); dal capo macchinista Aurelio Caracci all’autore delle musiche Fiorenzo Carpi, fino al traduttore Agostino Lombardo. E ovviamente agli attori, fra cui Tino Carraro (Prospero), che, sebbene malato, sta ore e ore in piedi senza sedersi mai; la tredicenne Fabiana Udenio (Miranda), Massimo Bonetti (Ferdinando), Michele Placido (Caliban) e infine Giulia Lazzarini (Ariel), che, appesa per quasi tutto il tempo a un cavo d’acciaio manovrato dal capo macchinista, accusa, col passare del tempo, gravi dolori alla schiena.  

 

Il lettore assiste inoltre al nascere e all’evolvere di casuali lazzi da Commedia dell’Arte destinati a divenire codificati; alle «esplosioni» di certi attori, che da un giorno all’altro trovano la chiave dei loro personaggi e li rendono in modo perfetto; alla creazione della tempesta iniziale, con chilometri di seta cinese mossi da diciotto allievi della Scuola di Recitazione; e alla perpetua insoddisfazione di Strehler, che Gaipa ipotizza sia una sorta di «pessimismo direzionale, voluto, per arrivare con maggiore obiettività alle soluzioni». Il suo «metodo a intarsio, a tessere di mosaico, a frammenti – si legge nel diario del 7 giugno –, porta a non vedere, talora, l’opera nel suo complesso», e da ciò nascono i suoi dubbi: nei panni di Prospero, per esempio, «Tino ha raggiunto un livello gigantesco […]. Ma, a lui come a Giorgio e a noi forse manca ancora la possibilità di una verifica. Non si sente per intero la statura del personaggio perché nessuno, neanche lui, l’ha visto ancora per intero».

 

Alle riflessioni sui mille significati della Tempesta si alternano quelle, nei giorni del rapimento di Aldo Moro, sulla funzione e l’utilità dell’arte, ed ecco allora lunghi approfondimenti (su Prospero «mago regista», e su Prospero padre, che vuole ritardare il più possibile il distacco dalla figlia) e accese discussioni: «è certo – si legge nel diario di quel 9 maggio 1978 in cui viene ucciso Moro – che il dato più sconvolgente del progressismo formale della nostra civiltà teatrale occidentale è in una carenza quasi totale di ossatura di impegno sociopolitico. Gli esempi più validi, da Carmelo Bene alle ricerche di Ronconi, si muovono in questo limbo elitario. I Vasilicò, i Barba, i Perlini, i Caporossi, sono ancora più lontani da un tale impegno e sembra quasi che vogliano rifiutarlo come populista […]. È un rigurgito di individualismi – anche nei collettivi, che altro non sono se non forme di individualismo plurale – da cui sono avulse forme di socialità».

 

Come il «metodo Strehler» è «a intarsio, a tessere di mosaico, a frammenti», così lo è, giustamente, anche il diario scritto da Gaipa: vivido, impressionista, disseminato di ritratti abbozzati con pochi segni di matita (dalla «fresca, vera, sensibile» Fabiana Udenio, che «offre maturità e calore», al tenero e ingenuo Bonetti, con la sua «sempre riaffiorante insicurezza») e commoventi quadretti di straordinaria icasticità. Come per esempio quello dello scontro fra il talento di Placido e l’estro di Strehler: «è una materia incandescente, – si legge nella pagina del 13 aprile – di cui, a tutt’oggi, vediamo una colata di metallo in movimento, da cui si sprigionano faville e fuochi d’artificio non ancora trasfigurati in una forma». Alla fine del diario del 7 giugno, invece, ecco l’immagine di uno Strehler che, al termine di una prova sfibrante, a tarda notte, viene preso per mano dalla compagna Andrea Jonasson e portato a bere un frullato di frutta in una botteguccia davanti al teatro. Oppure, l’immagine di Marise Flach che, dopo la prima, appare d’un tratto dietro le quinte appoggiata alle sue grucce. Il 27 giugno, infine, la prova appare sovrastata da un’atmosfera di contraddittorietà, di paura e d’inquietudine: più profondamente che in qualsiasi altra vigilia di prima, nel regista, infatti, sembra esserci «la disperazione di ciò che non ha assunto l’immagine desiderata. “Mi è sfuggito lo spettacolo di mano!”, ripete. È esatto? Certamente no, ma chi di noi può sentire ciò che sente lui? Ha voluto uno “spettacolo di contraddizioni” e ora forse il gioco di queste stesse contraddizioni lo atterrisce […]. Quante volte, il giorno dopo aver trovato immagini, soluzioni, chiavi che gli avevano spalancate chiuse porte di Eldoradi, s’è accanito a disconoscere ciò che, poche ore prima, lo aveva acceso di gioia? Era soltanto la disattenzione di un piazzato di luci non esattamente annotato, e la mancanza di concentrazione di un attore, il suono non più puro di uno strumento? O non c’era anche in lui una fluttuazione di fronte allo scorrergli davanti della materia da lui in precedenza plasmata ma del cui raggelarsi in una forma definitiva aveva come un terrore di bambino?».  

 

Non a caso, alla prima, Strehler non assiste. E neppure alla seconda, né alla terza. Uno spettacolo, per lui come anche per Gaipa, si chiude l’ultimo giorno di prove. Perché la vita è nelle prove, nel movimento, nella relatività, nell’imperfezione delle prove. Tanto più nelle prove della Tempesta, che è il testo metateatrale per eccellenza, e perciò la più grande metafora della vita.

 

A chiudere il volume, amorevolmente curato da Stella Casiraghi, è una lettera che Strehler scrisse nel 1993, all’indomani della scomparsa di Gaipa, trovato morto nel suo appartamentino circondato dai suoi adorati gatti e da cumuli di immondizia. «La tua mancanza, di te vivo, delle tue telefonate notturne, del tuo pensiero notturno, del tuo amore insomma, mi strazia. E credo che i migliori di noi – scrive Strehler –, in questo Teatro assassinato che per te fu tutto come per nessun altro, sentano in qualche modo lo stesso dolore». Per Ettore Gaipa – conclude la Casiraghi – «occorrerebbe intonare una Sonata per gli uomini troppo buoni».

 

La pubblicazione di questo libro, struggente dichiarazione d’amore al teatro e alla vita, è il più bel regalo che Stella Casiraghi avrebbe potuto fare a Gaipa, un uomo che in vita ha scelto l’ombra, pur lavorando sempre per il Teatro, ma che in morte si merita di essere ricordato.

 

 

di Giulia Tellini


La copertina

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