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Bianco e Nero, a. LXXIII, n.572, gennaio-aprile 2012
Rivista quadrimestrale del Centro Sperimentale di Cinematografia - edizioni del CSC

a. LXXIII, n.572, gennaio-aprile 2012, € 18,00

Il fascicolo 572 di «Bianco e Nero» è dedicato al cinema degli anni Settanta, come chiarisce il titolo Passato prossimo. Cinema e media in Italia negli anni Settanta. Dopo il capitolo introduttivo dei curatori del numero – Claudio Bisoni, Paolo Noto e Guglielmo Pescatore – apre “la prima stanza” Guglielmo Pescatore, con il saggio dal titolo La cultura mediale tra consumo e partecipazione. Partendo dai dati di un’indagine della Doxa del 1977 sul consumo cinematografico degli italiani, Pescatore affronta l’argomento del rapporto tra cinema e mass media negli anni Settanta: un periodo nel quale, proprio mentre la questione della massa diveniva fondamentale, i film studies prendevano le distanze dall’approccio sociologico o mediologico (si pensi alla semiologia di Christina Metz o alle teorie del dispositivo di Jean-Louis Baudry e del gruppo dei “Cinéthique” ad esempio), tracciando quindi una netta separazione tra cinema e teoria dei mezzi di comunicazione di massa. Negli anni Settanta, nell’ambito di studi e ricerche, conobbero un forte sviluppo «temi come il funzionamento dei mezzi di comunicazione di massa, la loro capacità di influenzare il pubblico, la possibilità di partecipazione che offrono ai consumatori»; parallelamente, la riflessione sui mass media fu stimolata dall’affermazione, nella seconda metà del decennio, di prodotti mediali con un forte impatto soprattutto sul pubblico giovanile.  Si tratta di forme seriali come gli anime – i cartoni animati giapponesi – e le serie Tv di importazione: «prodotti che contribuiscono a modificare in profondità le abitudini di ascolto». Quanto ai fumetti, in questo campo si assiste alla «diffusione dell’universo Marvel Comics» anche in Italia; ciò comporta nuove modalità narrative e dunque di fruizione da parte de pubblico: «viene abbandonata, come nei cartoon, la logica dell’episodio autonomo, in favore di forme di continuità narrativa complessa [...]. Fumetti, cartoni, serie Tv […] hanno in comune una caratteristica: quella di fondarsi a prima vista su un consumo individuale e addirittura solitario, “ma solo apparentemente, perché la macchina garantisce all’individuo la possibilità d’essere un terminale dell’immaginario tecnologico”. [Proprio] questo aspetto […] marca in modo evidente la distanza tra queste forme testuali e il cinema». Quest’ultimo, rispetto ai decenni precedenti, cambia nella misura in cui si affermano «pratiche sempre più parcellizzate e frammentate» e d’altro canto categorie come il genere e l’autore «hanno smesso di funzionare in termini unificanti». «Generi di profondità» come il western all’italiana, il poliziottesco e la commedia erotica «testimoniano di come la frammentazione del consumo cinematografico e non solo [...] sia strettamente collegata alla crisi definitiva di quella capacità di mediazione e unificazione sociale che per un ventennio  circa […] aveva caratterizzato il cinema popolare italiano. E anzi l’impossibilità di una riconciliazione, in nome del popolo, della legge o dello Stato, diventa il tema soggiacente alle declinazioni di genere che abbiamo esaminato». L’autore conclude la sua riflessione chiosando che «aspetti caratterizzanti della nostra cultura mediale, come sincretismo e partecipazione […] trovano in quegli anni [Settanta] un antecedente significativo», ma rispetto a simili processi di mutazione il cinema occupa un ruolo marginale, limitandosi a coglierne inconsapevolmente alcuni aspetti nella produzione di genere.

In realtà i cambiamenti più significativi nel periodo di riferimento riguardano più l’uso dei media, cioè le nuove forme di fruizione, che la loro capacità di rappresentazione.

“La prima stanza” prosegue con il saggio che Sandro Bernardi dedica a due film di Marco Bellocchio, Matti da slegare e La macchina cinema: due opere ibride, a metà strada tra finzione e documentario, che propongono un’idea di autore diversa tanto da quella del cinema classico che da quella del cinema documentario.

Nel 1973 Bellocchio risponde alla proposta della Provincia di Parma «di realizzare un film sulla follia e sulle prime iniziative di riforma dei manicomi che avrebbe poi condotto alla famosa legge Basaglia (1978). Col concorso di Silvano Agosti, Stefano Rulli e Sandro Petraglia, il regista pervenne alla realizzazione di Matti da slegare, in due diverse versioni: una di 200’ ca., che conta tre storie, e un’altra più breve (135’), «più poetica e trasgressiva». Quest’ultima si frammenta in molteplici storie, componendo una sorta di mosaico frammentario e disordinato,  in cui lo spettatore perde il filo e il tempo va avanti e indietro, caoticamente. Nato come documentario sulla follia e la realtà dei manicomi, il film «diventa un’opera diversa e più complessa, un’apertura sull’incertezza anche nel campo stilistico». Nella fattispecie: «si moltiplicano i punti di vista e con essi i soggetti del discorso; il film non ha un narratore, o commentatore, come accade nel documentario classico, ma ne ha parecchi, e fra di loro questi sono discordanti […] saltano le forme di ripresa e di montaggio classico»; vi sono frequenti ellissi e tagli che lasciano il discorso e il senso in sospeso; l’uso del flashforward; ecc. Spesso le figure non si risolvono in personaggi, sfuggono e può accadere di trovare «i discorsi giusti nelle persone inadatte e viceversa […]. Poco a poco il punto di vista del committente (“la follia non esiste”) si ribalta e la cinepresa comincia a scoprire una follia generalizzata». Bellocchio va oltre il portato innovatore del documentario anni Settanta, caratterizzato dal rifiuto della voce over: «lo spettatore non solo ascolta tutte le voci possibili e contrastanti, ma non capisce quasi mai dove si trova e a che punto si trova. Ha informazioni parziali e tronche». Prova ne è la mancanza di establishing shot. «Matti da slegare quindi abbandona il principio della centralità dello spettatore […] come abbandona la linearità temporale». Si tratta in ultima analisi di «un film poetico-sperimentale più che un documentario» e l’incoerenza del narratore che manifesta è quella del mondo. Il discorso stilistico destrutturato che quel film mette in atto prosegue nel successivo La macchina cinema, dello stesso Bellocchio: cinque puntate realizzate per la Rai, dalle quali emerge una «geografia del cinema come dispositivo», (de)composta da «ritratti di autori doloranti e dolorosi», videoartisti e truffatori: «La macchina cinema, non mostra il cinema; fa la stessa cosa che fa il cinema, cattura, spietatamente i sogni e le lacrime di tante vite», senza giudicare, semplicemente mostra.

Culture proto-convergenti: l’esperienza dei cineclub è il saggio in cui Claudio Bisoni prende in esame la stagione d’oro dei cineclub italiani, che va dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Ottanta. Un fenomeno, quello dei cineclub italiani, inscindibile dal complesso di pratiche culturali che gli ruotava attorno, tra festival anti istituzionali, convegni, riviste e altre pubblicazioni a carattere locale. «Dai primi anni Settanta spazi come la Cappella Underground a Trieste, il Filmstory a Genova, e soprattutto il Filmstudio a Roma (dal 1967: il primo dei cineclub stabili privati) diventano i contenitori privilegiati in cui si raccolgono le energie disperse sul territorio. La passione per il cinema trova il suo luogo più proprio». In realtà, rileva Bisoni, «nei cineclub si intrecciano cinefilie diverse»: se una prima direttrice può essere individuata nel «tentativo di riscatto del cinema classico in una prospettiva fortemente engagée sul piano politico-culturale», ve ne sono almeno altre due; quella di una cinefilia «più pura e residuale», nella quale al contrario l’impegno politico non gioca alcun ruolo e quella più aperta alla contaminazione con altri media, che circola anche in altri contesti, come la televisione e i festival. «Tra gli anni Sessanta e Settanta» - chiosa l’autore - «va in crisi il modello di trasmissione culturale di “Cinema Nuovo”. Un modello che si basava su un canone ristretto di capolavori immortali[…]. Al contrario, il lavoro di programmazione dei club richiede […] un catalogo da cui attingere estremamente ampio». In pratica si passa «da un principio di rarefazione a uno di abbondanza: dalla logica del canone alla logica dell’archivio». La cinefilia in questo modo mette in discussione «un’idea di storia del cinema fatta solo per grandi opere e/o autori». Se «i club sono un esempio di cultura partecipativa e convergente ante litteram», la nascita della cinefilia italiana avviene però sulla scorta di un «mutamento del consumo cinematografico», caratterizzato dall’affermarsi di un pubblico giovanile cross-mediale e informato, da un'identità del consumo «mobile e variabile», da una maggiore facilità di accesso ai beni culturali e da un’idea di partecipazione costituita non già da una massa generica, bensì da un’insieme di «più sotto-comunità ristrette di utenti». «Sincretismo e partecipazione sono due linee dominanti nelle evoluzioni culturali dalla seconda parte degli anni Sessanta in poi» e i cineclub ne sono un valido esempio. Bisoni formula l’ipotesi che «le aggregazioni cinefile legate ai cineclub degli anni Settanta […] possano essere lette come un segno di modificazione del concetto tradizionale di comunità […], lo sganciamento da una dimensione di partecipazione più ampia e organica». Sarà questo «uno dei tratti caratterizzanti le odierne logiche di aggregazione identitaria intorno a oggetti e passioni culturali». Se è innegabile che senza la cinefilia «difficilmente i film studies italiani si sarebbero istituzionalizzati dalla seconda metà degli anni Settanta», d’altro canto la figura del cinefilo è sempre più assimilabile a quella di un “tossico asociale”, poiché come quest’ultimo in continuo transito: «dall’utente consumatore solitario al setting tecnico-sociale e ritorno»; «tra atteggiamenti solitari e dinamica comunitaria», in «continuo passaggio da una condizione di attività a una di passività». Parafrasando Metz, Bisoni conclude affermando che il cinema è «una finta macchina socializzante […], non è la massa: è l’individualismo fatto massa».

Nel suo saggio Il basco di Fantozzi. Cultura materiale e commedia italiana, Stefano Baschiera, alla luce degli studi dell’ultimo decennio di Daniel Miller, Alfred Gell e Bruno Latour - che nell’ultimo decennio hanno proposto «un nuovo approccio antropologico al consumismo e allo studio degli oggetti», nella direzione di un superamento della dicotomia soggetto/oggetto - applica questa «teoria degli oggetti» alla commedia italiana degli anni Settanta, nella fattispecie a quella della coppia Luciano Salce-Paolo Villaggio. Alla base di questa concezione degli oggetti c’è l’idea che «le cose che ci circondano […] non distruggono il nostro “essere” ma contribuiscono invece a creare cosa siamo. […] si può facilmente osservare come il genere comico sottolinei spesso l’influenza degli oggetti nelle nostre vite, in particolare quando le cose non funzionano come dovrebbero». Gli oggetti «visti come parte integrante del processo di costruzione dell’identità» sono dunque la specola attraverso la quale l’autore analizza film come Fantozzi (Luciano Salce, 1975), Il secondo tragico Fantozzi (Luciano Salce, 1976) e Il… Belpaese (Luciano Salce, 1977). In essi «la cultura materiale» diviene «il vero centro dello sviluppo comico/narrativo e della creazione del protagonista». Non soltanto perché gli oggetti contribuiscono a creare la maschera comica del personaggio (si pensi al basco che identifica inequivocabilmente Fantozzi), ma anche perché spesso gli abiti «invece di contribuire a integrare il personaggio alle aspettative dello spazio sociale di riferimento […] costituiscono e determinano ulteriormente l’identità del personaggio fantozziano a discapito della situazione circostante». In Il… Belpaese il mondo materiale non solo crea l’identità dei protagonisti del film, ma quella dell’intero Paese, «consegnando agli oggetti un ruolo centrale nella narrazione filmica e nelle nostre vite». In questo senso «I film della coppia Salce-Villaggio […] sono rappresentativi di un cambio di tendenza della commedia verso il mondo dei consumi»; un cambiamento che l’autore registra proprio a partire dagli anni Settanta.

Francesco Di Chiara in Transeuropa. Transnazionalità e identità europea nelle coproduzioni e nel giallo italiano, affronta la sfera della transnazionalità, un fenomeno apparentemente in declino nel corso degli anni Settanta, quando «sia la pratica delle coproduzioni sia il cinema di genere europeo» conoscono una netta contrazione. L’autore mette invece in evidenza come nel decennio di riferimento «si cristallizzino delle pratiche produttive, un’estetica e un modello d’identità sovranazionale che hanno costituito una base da cui ripartire nel contesto degli anni Duemila». Di Chiara si sofferma in particolare sul cosiddetto “giallo italiano”, «un genere transnazionale per definizione, quasi sempre realizzato in coproduzione e spesso imperniato sulla mobilità dei suoi protagonisti». Nei confronti del pubblico nordamericano, rileva ancora l’autore «i prodotti di genere europei tendono […] a enfatizzare  la propria matrice culturale europea e a creare una sorta di identità comune a beneficio dello sguardo dello spettatore nordamericano. Un processo particolarmente evidente nel caso del giallo italiano, uno dei generi degli anni Settanta maggiormente rivolti all’esportazione». Di Chiara si sofferma quindi sul rapporto tra Europa occidentale e orientale, attraverso il caso emblematico de La corta notte delle bambole di vetro (Aldo Lado, 1971), una coproduzione tra Italia, Germania Ovest e Jugoslavia, un giallo appunto, nel quale eccezionalmente trova spazio anche quell’Est europeo solitamente rimosso, «seppure in modo contraddittorio e ambiguo».

La prima stanza prosegue con il contributo di Giovanna Maina e Federico Zecca, che con Le grandi manovre. Gli anni Settanta preparano il porno, individuano nel decennio di riferimento il periodo nel corso del quale, dopo la progressiva erotizzazione della cultura italiana avvenuta nel corso degli anni Sessanta, «la sessualizzazione della mediasfera è stata spinta fino alle sue più estreme (e deteriori?) conseguenze, ovvero fino allo sfondamento della rappresentazione verso i territori dell’hardcore». Gli autori tentano quindi una ricostruzione della progressiva «liberalizzazione mediatica della pornografia», «all’interno del sistema dei media durante gli anni Settanta italiani», partendo dal contesto culturale dell’editoria, già “hardizzata” un po’ prima del cinema “di casa nostra”. Tra il 1972 e il 1975 il mercato della porno-editoria italiana è infatti in costante crescita, nonostante la struttura «poco più che artigianale» delle realtà editoriali del settore. Alla fine degli anni Settanta «la pornografia compie il suo ingresso anche al cinema, beneficiando di un nuovo circuito di sale (ri)convertite ad hoc», i cinema “a luci rosse”. «È possibile segmentare l’evoluzione del cinema hardcore italiano degli anni Settanta in almeno due periodi precipui: un periodo che definiremo “para-pornografico”, caratterizzato primariamente dalla pratica delle versioni hard da esportazione, che si estende dal 1973 (indicativamente) al 1977; e un periodo che chiameremo “proto-pornografico” , ancora caratterizzato dalla subordinazione dell’hardcore al (s)exploitation, che si estende dal 1978 al 1980-1981 (momento in cui la pornografia filmica sembra raggiungere una sua individualità, emancipandosi da qualunque pre-investimento di genere)». È sulla prima di queste due stagioni che si sofferma il saggio, riferendosi alla pratica di introdurre in pellicole di produzione nazionale «inserti porno finalizzati a eccedere i confini della simulazione sessuale di carattere erotico, e a rendere visibile (e concreto) quanto in origine lasciato fuori scena». La liberalizzazione della pornografia sia nell’editoria che nel cinema, alla fine degli anni Settanta, fu certo conseguenza anche dell’«atteggiamento di relativa tolleranza e parziale depenalizzazione» assunto da alcune istituzioni e dall’apertura delle già menzionate “sale a luci rosse”, che cominciano a diffondersi dal 1978.

Giacomo Manzoli in Tradizione letteraria e modernità televisiva: ricezione e fandom del «Sandokan» di Sollima, rispolvera il caso televisivo dello sceneggiato Rai tratto dai romanzi di Salgari: sei puntate trasmesse tra il 6 gennaio e l’8 febbraio 1976, che raggiungendo circa ventisette milioni di telespettatori, rappresentarono il più grande successo della Tv italiana dalla nascita (1954). L’articolo analizza quindi lo sceneggiato dal punto di vista della ricezione popolare e della critica, leggendovi i sintomi di «un mutamento sostanziale nei gusti di un pubblico popolare». Lo sceneggiato girato da Sergio Sollima attivò «uno dei principali fenomeni di merchandising e di fandom televisivi»: si parla in proposito di «Sandokan-mania». Tuttavia non mancarono anche i detrattori della serie, fra i quali spicca Mario Soldati, che dalle pagine de «Il Mondo» lo criticò aspramente. A poco valsero le critiche: Sandokan incontrò una popolarità sempre maggiore, dando luogo a veri e propri fenomeni di «culto di massa» nei confronti dei suoi divi, dal protagonista Kabir Bedi a Carole André, Adolfo Celi e Philippe Leroy. La potenzialità commerciale del «brand Sandokan» venne immediatamente sfruttata: mentre Rizzoli pubblicizza sui rotocalchi la propria collana di romanzi di Salgari, la colonna sonora di Guido e Maurizio De Angelis schizza al primo posto della hit parade, la Panini vende quindici milioni di bustine di figurine e una vera e propria battaglia editoriale aumenta in modo esponenziale la vendita dei volumi di Salgari, accompagnandola con la pubblicazione di testi più specificamente legati allo sceneggiato. E poi naturalmente giochi, giocattoli e perfino l’abbigliamento, che nelle collezioni di moda 1976/77 degli stilisti più in voga risulta fortemente influenzato dal telefilm. Sandokan, conclude Manzoli, «è uno sceneggiato di avventure di stampo tradizionale, che giustamente utilizza i libri di Salgari come un puro catalogo di personaggi e situazioni per adattarli e modificarli in funzione del proprio contesto di riferimento. Il ritmo del racconto è in gran parte ancora legato alla concezione della narrativa televisiva dell’epoca, pertanto soggetto a rallentamenti impensabili e con una netta distinzione tra momenti d’azione (con conseguenti accelerazioni) e momenti riflessivi e recitativi». C’è di più: secondo una linea interpretativa ampiamente diffusa «lo sceneggiato non faceva che affidare l’efficacia della propria presa narrativa (identificazione) sulla trasposizione mitica di figure esistenti». Esso parlava al pubblico «di modernità, scenari diversi e meno angusti, alternative possibili, per quanto evasive», in un momento in cui «la televisione […] era letteralmente prigioniera di un palinsesto che sarebbe esploso di lì a poco e che nulla aveva a che vedere con il ritratto che la stampa implicitamente fornisce di un società in totale fermento».

L’intervento di Laura Ester Sangalli è dedicato all’animazione seriale giapponese, che a metà anni Settanta fa il suo trionfale ingresso nella televisione italiana. La legge 103 del 1975 portò infatti alla fine del monopolio della televisione di Stato; ne derivò il proliferare delle emittenti private, che si trovarono a dover riempire rapidamente e in modo economico interi palinsesti: «la ricerca di programmi a costo contenuto, seriali e di rapida produzione, divenne, ovviamente, una priorità delle nuove televisioni, che trovarono nei film americani, nelle telenovelas sudamericane e nei cartoni animati giapponesi il bacino ideale da cui attingere. In particolare il cartone animato di matrice nipponica cominciò ad essere massicciamente importato nell’ordine di centinaia di serie nel giro di pochi anni». Rispetto ai cartoni animati americani e italiani, quelli giapponesi veicolavano consistenti innovazioni sia dal punto di vista delle tecniche di realizzazione che del racconto, puntando su grafica, regia e montaggio per sopperire al minor numero di disegni al secondo e optando per uno svolgimento narrativo secondo puntate non autoconclusive. Inoltre i cartoni animati nipponici mettevano in scena anche momenti drammatici, rappresentando dunque una forma narrativa destinata pur sempre a un pubblico giovane, ma più matura, andando ad inserirsi di fatto in un vuoto televisivo italiano: quello dell’intrattenimento per la fascia di età che comprende la tarda infanzia e la prima adolescenza. Il portato innovativo della nuova programmazione divise nettamente l’opinione pubblica, fra detrattori – che giudicavano i cartoni animati d’importazione giapponese diseducativi – e sostenitori, che alimentavano il mercato dei gadget e giocattoli che ruotava intorno al prodotto televisivo (dal 45 giri con la sigla del cartone animato, ai modellini dei personaggi, eccc.): veri e propri status symbol di appartenenza al gruppo dei fan della serie e al tempo stesso elemento di fidelizzazione a essa stessa. L’autrice sottolinea come l’avvento del cartone animato giapponese in Italia s’inserisca nella rivoluzione che portò dalla paleotelevisione alla neotelevisione e che «si legava indissolubilmente al progresso tecnologico, alla ridefinizione dei consumi e delle esperienze di visione, che imponevano a loro volta una rielaborazione dell’assetto dell’industria culturale nazionale».

Oggetto del saggio di Paolo Noto è il fenomeno della nascita delle radio in FM nel nostro Paese negli anni Settanta, quando «nella sostanziale assenza di un quadro normativo» migliaia di emittenti private a carattere locale si diffondono su tutto il territorio nazionale. In  Antenne che si vedono. Nascita della radio in FM e cultura partecipativa, l’autore sfata falsi miti come quello per cui, citando Peppino Ortoleva: «contrariamente a quanto molti pensano, o credono di ricordare, solo una minoranza di emittenti ebbe finalità e caratteristiche esplicitamente politiche» ed è dunque quantomeno discutibile «la persistente associazione mentale tra radio libere e radio “di movimento”». Se l’espressione «radio libera» veniva usata con parsimonia nei dibattiti dell’epoca, quella di “partecipazione” ricorreva spesso, quale «elemento nuovo e specifico della radio dei primi anni Settanta». Ne è un chiaro esempio la trasmissione Chiamate Roma 3131, durante la quale gli ascoltatori erano invitati a telefonare. «L’associazione tra radio, telefono e dimensione locale è […] il fatto veramente rivoluzionario, che permette di “passare da un modello di comunicazione unidirezionale a un modello di comunicazione circolare, tipico della dimensione partecipativa». Inoltre la radio a partire dagli anni Settanta si configura sempre più come uno «strumento di distribuzione, velocissimo e infinito», un mezzo da usare e da vedere, oltre che ascoltare. La visibilità della radio sulla quale insiste Noto è da intendersi in senso letterale: perché «le trasmissioni in modulazione di frequenza possono essere ricevute solo da apparecchi che “vedono” la fonte di emissione», perché visibili sono le antenne sui tetti e perché la prossimità con gli ascoltatori delle emittenti locali comporta la possibilità di parteciparne agli eventi e visitare gli studi. Più in generale la radio in Italia a partire dalla nascita delle emittenti private in FM acquisisce la «capacità di saturare canali sensoriali diversi da quello elettivo». Concludendo, l’autore invita ad accantonare «quel radicato pregiudizio che appiattisce ogni interpretazione degli anni Settanta esclusivamente sul versante politico-ideologico».

Chiude “la prima stanza” Catherine O’Rawe con il saggio «Un passato che non passa»: La prima linea e il ritorno degli anni Settanta, nel quale l’autrice prende in esame la fioritura di film sugli anni di piombo in Italia negli ultimi dieci anni, soffermandosi in particolare su La prima linea (Renato De Maria, 2009), un film che «recupera gli eventi storici del periodo che descrive attraverso un uso complesso del materiale d’archivio». Tratto dal libro autobiografico di Sergio Segio (uno dei leader del movimento Prima linea), Miccia corta, il film si svolge attraverso una complicata serie di flashback, mescolando immagini di fiction e filmati di repertorio di manifestazioni e stragi terroristiche. L’uso di immagini di archivio è da intendersi come teso all’«astrazione [degli eventi storici] come “fotogrammi”». Spesso nel film i personaggi assistono ad essi attraverso la televisione; è questo un espediente narrativo cui hanno attinto vari film sugli anni di piombo: si tratta di «una scelta narrativa che enfatizza la natura già mediatizzata di quegli eventi e che rimanda anche ai temi della temporalità e della memoria». De Maria ha poi chiarito che «l’uso del “lavoro di documentazione” è funzionale a evitare l’“identificazione” con i protagonisti del film», per una ricostruzione neutrale dei fatti, parimenti all’impiego della voce narrante, che ha invece suscitato la reazione delle associazioni delle vittime. «La possibilità di riempire quel buco storiografico e la restituzione della storia maledetta degli anni Settanta alla memoria collettiva possono darsi, almeno così pare, solo attraverso il ricorso all’archivio, sintomo e cura insieme per la “maledizione” degli anni Settanta». L’uso delle immagini di repertorio in La prima linea per l’autrice è il segno «del trauma invisibile del terrorismo, un trauma che può essere rappresentato e “curato” solo attraverso quelle immagini stesse».

Unico intervento della sezione “mappe”, che chiude questo numero di «Bianco e Nero», è Il mockumentary: quando le estetiche documentarie diventano stile cinematografico, di Cristina Formenti, dedicato a quelle pellicole che «si propongono allo spettatore come documentari per tutto l’arco della propria durata, ma che in realtà raccontano vicende immaginarie, frutto della fantasia di uno sceneggiatore». L’autrice ne traccia un breve profilo storico: dal radiodramma War of the Worlds (La guerra dei mondi), realizzato nel 1939 da Orson Welles, a un più sistematico impiego di questa «modalità narrativa», «a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta». Il mockumentary, sottolinea Formenti, si delinea come «una forma di racconto trasversale a più media»: dalla radio al cinema, al web e al piccolo schermo; ma è anche una forma narrativa che attraversa più generi: horror, sentimentale, di fantascienza, biografico, ecc. Minimo comun denominatore di una congerie di pellicole tanto diverse sono due tratti salienti: «da un lato, la scelta di ricorrere alle estetiche documentarie per raccontare vicende immaginarie e, dall’altro, l’inserimento d’indizi volti a segnalarne la natura fittizia». Secondo l’autrice nel caso del mockumentary è più corretto parlare di “stile narrativo”, dal momento che si tratta di una pratica che sfugge sia alla definizione di sottogenere del documentario che a quella di genere cinematografico e che comprende una serie di prodotti eterogenei. Per stile è da intendersi «scarto, variazione, differenza rispetto un modello comune», secondo la definizione di Antoine Compagnon, dove il modello è in questo caso quello del cinema classico hollywoodiano, cui il mockumentary si contrappone. Oggi lo “stile mockumentary” s’inserisce nel quadro più ampio della sempre più insistente domanda di «racconti “reali” propria della società moderna», della quale è prova la «proliferazione di reality show e affini».





di Elisa Uffreduzzi


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