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il castello di elsinore, a. XXV, n. 66, 2012
semestrale di teatro

pp. 116, euro 18
ISSN 0394-9389

 

Il secondo numero del 2012 si apre con un saggio di Roberto Alonge che propone una lettura lontana dal tradizionale del Prometeo incatenato di Eschilo. Infatti il protagonista non è presentato come benefattore dell’umanità contro il potere tirannico di Zeus, bensì nella sua realtà duplice e subdolamente ambigua. La tragedia è dunque e soprattutto rottura di colleganza solidale nella comunità degli dei anziché metafora di un discorso politico moderno libertario. L’azione fraudolenta di Prometeo interferisce così con il quadro complessivo di ridefinizione ordinata del cosmo che ha come oggetto protagonista Zeus.

 

Anna Scannapieco e Piermario Vescovo ripercorrono la fortuna editoriale e spettacolare della Moschetta di Ruzante, dalla messinscena di Renato Simoni (Villa Corsini di Roma, 1942), alla prima rappresentazione moderna del testo originale con il lavoro congiunto di Ludovico Zorzi e di Gianfranco De Bosio, tappa miliare nella vita editoriale della commedia (Teatro Universitario di Padova, 1950). L’eccellente recente edizione critica di Luca D’Onghia offre un testo liberato dalle incrostazioni delle edizioni che dagli anni Sessanta hanno accompagnato la sua fortuna; accanto alle ricostruite interpolazioni o riscritture del testo, viene proposta una conclusione completamente differente da quella vista finora in scena.

 

Franco Perrelli torna a parlare della presenza di August Strindberg sui palcoscenici italiani e prende in esame gli allestimenti dei principali registi nella prima decade del XXI secolo. Dalla disperata ironia de Il padre (2005) riletto da Massimo Castri che lo media da Ibsen, egli passa a considerare La danza macabra nella versione intimista di Marco Bernardi (2006) ed in quella catastrofista e sontuosa di Gabriele Lavia (2010); per concludere con La Signorina Julie in chiave antropologica (regia di Sergio Maifredi, 2006),  metafisica (regia di Carmelo Rifici, 2006), a finale aperto (regia di Armando Pugliese, 2006) o in versione dark-rock con Julie in figura sacrificale (regia di Walter Malosti, 2011).

 

Protagonista della sezione centrale della rivista è la ricca offerta drammaturgica anglosassone, ispirata all’attualità politico-sociale e messa in scena con ritmo davvero stupefacente (circa trecento lavori nuovi in un anno nel primo decennio del nuovo millennio). Ciò si spiega non solo con la tradizione autoriale del teatro inglese del Novecento, ma anche col sostegno al settore culturale del governo laburista. Sulla scena fringe si è andata affermando la voce irriverente o perturbante di una nuova generazione di autori (Sarah Kane, Mark Ravenhill e Martin Crimp) in grado di raccogliere il testimone dei più anziani ed affermati Harold Pinter, Michael Frayn, Alan Bennett, Alan Ayckbourn e Tom Stoppard. Il saggio di Paolo Bertinetti illustra i due maggiori ambiti in cui si è collocata gran parte della letteratura drammatica dell’ultimo decennio. Da un lato gli autori hanno sviluppato il tema del terrorismo, della guerra in Iraq (Roy Williams), della crisi economica americana e delle sue ripercussioni sull’economia britannica (David Hare, Caryl Churchill); dall’altro hanno indagato la realtà violenta delle periferie urbane ed i conflitti fra minoranze etniche (Tanika Gupta).

 

In particolare, Daniela Salusso focalizza l’attenzione sul teatro ibridato di drammaturghi britannici neri o asiatici come Roy Williams, Tanika Gupta e Kwame Kwei-Armah. Sebbene i loro testi contro la diffusa cultura della violenza raccontino prevalentemente di pregiudizi razziali e di percorsi personali fallimentari, questi autori rifiutano facili categorizzazioni, poiché la loro identità duale li rende al contempo integrati ed estranei al contesto politico e sociale di riferimento.

 

Nella sezione Materiali, Fernando Maramai si concentra sugli anni 1909-1914 della produzione di Aldo Palazzeschi nel ruolo di precursore-inventore della drammaturgia futurista. Arrivato alla poesia attraverso il teatro, egli fu il primo a far uso della forma dialogica fulminea in chiave grottesca; e come si evince dal carteggio con Filippo Tommaso Marinetti, molto del teatro sintetico gli è debitore per la sua volontà di dar vita ad un dramma nuovo ed originale nel quale il riso sia esorcismo del tragico.

 

Nello spazio conclusivo dedicato agli spettacoli, Roberto Alonge riflette sul passaggio dal testo al palcoscenico ne Il ritorno dalla villeggiatura di Carlo Goldoni. Il saggio mette a confronto la scena III,2 nelle edizioni firmate Giorgio Strehler (Comédie Française, 1978), Mario Missiroli (Teatro Stabile di Torino, 1981) e Massimo Castri (Teatro Stabile dell’Umbria, 1997). Se il primo privilegia il gioco illustrativo in chiave caricaturale dei personaggi di Filippo e di Fulgenzio; caustico e derisorio, Missiroli guarda come attraverso un telescopio rovesciato il piccolo e meschino universo goldoniano nell’espressione della ragione economica borghese. Castri infine – unico ad allestire la trilogia compiutamente – inserisce la figura di un servitore come contraltare sociale ed incrudelisce il personaggio di Filippo: bon vivant con la salvietta al collo come nell’edizione di Strehler, ma avido egoista e avaro, in perenne stato di ubriachezza.

 

 

di Michela Zaccaria


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