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Georges Banu

Les voyages du comédien


Paris, Gallimard, 2012, pp. 194, euro 17,90
ISBN 978-2-07013883-8

 

Il lavoro dell’attore si esprime sotto il segno di un individualismo dalle diverse declinazioni e quello dell’acteur insoumis è il primo modello di una serie di caratterizzazioni interpretative, elaborate dal critico e storico del teatro Georges Banu, autore prolifico di cui si conoscono in Italia almeno Mémoires du théâtre (1987) e Peter Brook (1991). Il libro non è un trattato, ma una memoria viva dedicata all’arte dell’attore del secondo Novecento. «La fonction de l’acteur est esplicite, mais son exercice reste énigmatique, imprévisible, fuyant. Pour en parler il n’y a pas de projet généraliste qui tienne» (p. 7).

Elusa la sistematicità dell’indagine, si propone un «modèle mental» che orienti la ricerca sul soggetto nello spazio e nel tempo. È la categoria dell’acteur insoumis quella determinante e posta in rapporto alle altre e diverse in cui si articola il saggio. Insoumis è l’attore indisciplinato, indocile o ribelle, la cui creatività non s’esprime in esclusiva complicità e collaborazione col regista-leader. La sua centralità originale lo imporrà come acteur-poète.

 

Il primo capitolo serve all’autore per circoscrivere, anche per via negativa, i caratteri tipici del suo attore prediletto e stabilire graduatorie non per merito o valore, ma per profondità d’impressione sulla memoria che diventa criterio di scelta e giudizio del critico militante e dello storico, portatore «d’un vécu de spectateur pensif aussi bien qu’engagé […]. Ce livre entend se placer à ce carrefour propre à l’acteur européen déchiré traditionellement entre les impératifs préalables – le texte, le personnage – et l’autonomie de son indentité propre, d’artiste et de sujet» (p. 8).

Ulteriore distinzione fra gli interpreti emerge osservandoli nel loro scambio col regista. Così, l’attore séduit crea in armonia con un direttore a cui riconosce carisma e autorevolezza. L’attore insoumis resiste invece al suo regista, «cultive une relation autre, de tension et confrontation». Sul piano più propriamente tecnico ed espressivo, l’attore viene ora vagliato secondo la tendenza alla «composition» del personaggio o alla «confession» della propria realtà più intima. Quindi si avanzano anche criteri e/o parametri di individuazione e classificazione più oggettivi, quali l’indice biographique, il degré d’appropriation o il coéfficient d’insoumission. Però l’autore ha già ammesso come preminente «la trace  deposée sur le spectateur» da parte di «ces insoumis d’exception [qui] deposent sur nos mémoires les sceaux indélebiles de leur révolte» (p. 19).

 

L’evento memorabile deriva inoltre dall’impronta, acustica, ritmica ed energetica, lasciata dalla prestazione attorale (pp. 23-25). Anche nell’uso della lingua, l’acteur insoumis si distingue, per cui esempi di trasgressione linguistica si incontrano in attori quali Serge Merlin, Jutta Lampe, Madeleine Marion, Marcel Bozonnet, André Wilms e Bruno Ganz. In negativo, vi sono attori che entrano in scena senza l’aura o il fulgore delle stars, come Philippe Clévenot, Gérard Desarthe, Valérie Dréville, Yoshi Oida, Sotigui Kouyaté, tutti comunque segnati dallo sforzo di vivere lo spazio scenico e di recitare, senza la garanzia d’una vocazione innata e perciò gratuita. Per ciascuno si manifesta un’oscillazione perenne: «Écartelé, il se trouve au croisement du déliberé et de l’inné. Cela le rend unique, mais sans la sauvegarde de cet équilibre précaire il peut basculer d’un côté ou de l’autre» (p. 27). Risiede in questo il marchio dell’attore europeo, opposto a quello orientale. E proprio la ricerca estesa al mondo orientale denuncia il moto di fascination e d’éloignement per cui Banu è passato, prima di tornare alle origini nelle quali potersi meglio ritrovare.

 

Tante e tali premesse guidano ai restanti capitoli, quasi complementi dell’intero panorama attorale contemporaneo. In esso, si può riconoscere l’acteur européen, animato dalla sfida verso un ideale acquisito e rimesso costantemente in discussione. Nella dinamica europea è lodevole la peculiarità che «consiste à dégager des lignes de force sans pour autant les ériger en table des lois ou répertoire des signes» (p. 40). Per l’acteur étranger, il paragone s’applica rispetto a una patria cangiante, per cui si toccano le problematiche delle distribuzioni multietniche e della lingua madre, quale sfondo creativo condizionante scarti e invenzioni d’ogni interpretazione. Rischi e vantaggi di accostamenti e meticciati a scopo artistico sono esaminati nell’estetica e nella pratica di alcuni artisti, da Peter Brook e Ariane Mnouchkine a Luc Bondy e Omar Porras; da Strehler e Vitez a Barba. Personalità, quella dell’italiano apolide di Holstebro, molto citata dal saggista. In L’acteur unique ou le double du metteur en scène, si analizzano i risultati e la fisionomia di grandi attori maturati in seno a grandi compagnie dirette da sommi registi. La loro interdipendenza nel successo è totale: «L’acteur unique personnalise une identité double, une attente conjointe, une perspective commune» (p. 85).

 

Si indicano casi singolari di collaborazione in cui l’eccezionalità dell’attore va a sommarsi in sinergia col progetto collettivo guidato da un regista (p. 94). Lo sguardo attento al comportamento e alla concretezza scenica, coglie certe modalità di presenza fisica come messaggi polemici e così, in L’acteur de dos et de face: deux postures polémiques, riconosce nel voltaschiena di Edoardo De Filippo il segno inequivocabile d’una postura polemicamente significativa (p. 101). In riscontro, coglie l’emergenza della «frontalité chorale» (p. 106). Nella casistica, Carmelo Bene ha un posto di rilievo, per l’esemplarità del suo teatro vocale «frontale», che secondo il critico realizzerebbe l’incarnazione dell’insoumission con un potere «non seulement politique mais également héroïque de la frontalité monologale» (p. 110). L’acteur et le corps travesti è esauriente nell’esame dei casi frequentati e delle relative latenze e i diversi significati conseguiti o ipotizzati. Dal nu del corpo umano essenziale, al suo contrario in travesti, si toccano gli estremi dell’epurazione e della mistificazione.

 

Il regno del manierismo è attraversato con l’impiego ostentato dell’artificio, di cui Banu riscontra l’uso più recente nelle personalità di Vitez, Wilson e Strehler, in sodalizio con gli attori Redjep Mitrovitsa (in Hernani), Isabelle Huppert (in Orlando) e Valentina Cortese (nel Giardino dei ciliegi). Sulla superficie piatta della scena, «le corps s’affirme comme graphisme […]. Corps construit, jamais corps reproduit. Corps insoumis à l’égard du réel et ses contraintes» (pp. 130-131). Di fronte poi alla vecchiaia (Le vieil acteur ou le temps sauvegardé), la riflessione delinea la figura dell’acteur-poète, nel quale è peculiare la coesistenza di senso della morte e presenza memoriale tra finzione e autobiografia. Simile al vero poeta, «il s’affranchit du rôle sans l’anéantir» (p. 163), per ricollegarsi a una definizione iniziale: «Celui-ci fournit, par son jeu, le propre d’une œuvre vivante qui acquiert ici les données d’une œuvre d’art, éternelle et subjective» (p. 20). Ryszard Cieslak chiude la galleria con un ritratto solitario, emblematico d’una storia e di un’epoca: «Cieslak est l’acteur dans lequel s’incarna plus qu’un personnage, une esthétique, celle de Grotowski» (p. 167).

 

Il saggio, scritto in prima persona, testimonia infine d’una giovanile stagione, di attrazione e impegno per la recitazione, finita per palese difetto di doti nel protagonista. In Postface. Pourquoi je ne suis pas devenu acteur, Banu ricorda infatti l’esperienza e ne trae una sorta di testamento, in un esercizio impressionistico ricco di analogie e metafore, a sua volta vicenda critica e poetica offerta a sé e ai lettori. L’attore mancato ha forse conseguito la sua migliore funzione creativa, nel suo compito di spettatore stupito e in dialogo perenne con la scena: «Je suis fait autant de l’étoffe des spectacles que j’ai vus que des échanges que j’ai eus» (p. 184).

 

 

di Gianni Poli


La copertina

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