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Ariel, a. I, n. 2 n.s., luglio-dicembre 2011
Semestrale di drammaturgia dell’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo

pp. 189, euro 22
ISSN 1125-3967

 

Nel secondo numero del 2011 «Ariel» propone un confronto tra Pirandello e Sartre e, attraverso una serie di saggi sul lavoro di quest’ultimo, cerca di delinearne il profilo a partire dai suoi debiti nei confronti del siciliano.

 

Il saggio di Franca Angelini che apre il fascicolo funge da introduzione al problema, offrendo un utile inquadramento storico: una rapida carrellata dalla fine dell’Ottocento al primo dopoguerra sulla funzione della scrittura, sul suo ruolo per l’esistenzialismo, al contempo di rifugio dalla perdita d’identità che colpisce l’uomo in quell’intervallo cronologico, e di strumento in fondo autoreferenziale, votato a un paradossale silenzio. Un percorso che da Pirandello a Sartre vede coinvolto, oltre al Gadda della Cognizione del dolore, naturalmente Franz Kafka, capace di disseminare i suoi scritti di briciole d’esistenzialismo, particolarmente quando affronta il problema del rapporto col doppio paterno, con cui lotta fino a identificarsi e quindi annullarsi in esso. Passando poi al faccia a faccia diretto tra lo scrittore siciliano e l’autore di Huis Clos, la studiosa si sofferma sui caratteri che accomunano e dividono la loro idea di teatro. Per entrambi esso è il luogo in cui far rivivere il mito come strumento d’aggregazione sociale, ma Sartre rifiuta l’astrazione in cui spesso si risolve la drammaturgia di Pirandello e, evidentemente pensando alla contemporanea iniziativa del Théâtre National Populaire di Jean Vilar, sostiene piuttosto l’importanza dell’impegno politico.

 

Gabriella Farina analizza la pièce più nota di Jean-Paul Sartre, A porte chiuse (Huis Clos), ricercando in essa i punti cardine della filosofia sartriana e della sua idea di «teatro di situazioni». Qui la costrizione dei tre personaggi in uno spazio chiuso, riproduzione dell’inferno, esaspera il rapporto dell’uomo con l’altro, in un gioco di sguardi che limita la libertà di ognuno e lo costringe a esistere indipendentemente dalla propria volontà, lo obbliga a vivere in quanto osservato. Ciò che forse non emerge abbastanza dal breve studio di Gabriella Farina, e che avrebbe invece bisogno di essere approfondito, è il significato profondamente politico di quest’opera del 1944: «Dobbiamo o perderci insieme o cavarcela insieme. Scegliete», dice non a caso Garcin.

 

L’alienazione dell’essere umano nel mondo, espressione dell’assurdo, è il l’argomento che collega a Pirandello e Sartre anche Albert Camus. Partendo dal Caligola per arrivare a I giusti, Federica Castelli riscopre la combinazione tra filosofia e teatro che percorre tutta l’opera di Camus: laddove nella prima pièce l’imperatore comprende l’assurdo che permea l’esistenza, nei Giusti quella consapevolezza trova nella rivolta la propria consacrazione e l’umanità scopre l’amore come solidarietà. Tuttavia il difficile destino dell’uomo è quello di veder rientrare la vita dalla finestra dopo averla cacciata dalla porta: perché la rivoluzione, che necessariamente segue alla rivolta, altro non è che una ricaduta nella storia dopo la conquista dell’astrazione da essa.

 

Il saggio di Ubaldo Soddu propone una riflessione sull’immobilismo della società contemporanea (soprattutto teatrale, ma non solo), a partire da una breve analisi dei Sequestrati di Altona di Sartre, mentre Maricla Boggio ricerca nei personaggi del teatro dell’autore francese i riflessi della sua biografia, oltre che del suo pensiero filosofico. Compete invece a Orio Caldiron la presentazione di Elio Petri, regista politicamente respinto (da alcuni perché troppo moderato, da altri perché troppo estremista) di un testo politicamente delicato come Le mani sporche di Sartre, direto nel 1978 per la televisione.

 

Chiude la sezione degli studi Squarzina mette in scena Sartre: ‘Il diavolo e il buon Dio’ di Elio Testoni, un’analisi del sudato successo dello spettacolo del 1962. L’autore pone a confronto gli esiti della prima rappresentazione francese del testo nel 1951 (con Pierre Brasseur e Jean Vilar, per la regia di Louis Jouvet), con le reazioni di critica e pubblico italiani alla messinscena di Luigi Squarzina. Molti furono i detrattori e i sostenitori: i primi che a pochi mesi dall’abolizione della censura non seppero rassegnarsi a vedere rappresentato in teatro un testo «blasfemo» e anticlericale, e i secondi felici di poter accogliere in Italia un dramma che, esasperando le posizioni esistenzialiste dell’autore, si qualificò subito quale emblema della conquistata libertà d’espressione.

 

Seguono le trascrizioni di tre opere di Jean-Paul Sartre: le prime due parti del testo teatrale L’ingranaggio, con un’introduzione di Giorgio Strehler (autore anche di una regia del lavoro sartriano nel 1953), e i due saggi Per un teatro di situazioni e Forgiare miti, tradotti da Dina Saponaro e Lucia Torsello).

 

Chiude il fascicolo il testo drammatico di Piero Bevilacqua, A Milano non c’è il mare.

 

 

di Lorenzo Galletti


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