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Ingmar Bergman

Introduction et choix de textes par Odette Aslan

Arles, Actes Sud-Papiers, 2012, pp. 80, euro 13,00
ISBN 978-2-330-00935-9
                                 

La conoscenza che il pubblico, italiano in particolare, ha dell’arte di Ingmar Bergman (1918-2007) molto dipende dalla presenza aggiornata e tempestiva della sua cinematografia. Il suo lavoro teatrale, meno posto in risalto, potrebbe apparire “minore” nella personalità del grande artista svedese. Il conciso volume di pensieri e scritti di Bergman, appena pubblicato in Francia, richiama l’attenzione su uno dei Maestri della messa in scena del Novecento, inserito – nella collana “Mettre en scène” – accanto ad altri degni comprimari, da Baty a Lupa; da Gémier, Mnouchkine e Vitez, a Strehler, Reinhardt e Mejerchol’d.

 

Accertata la scarsità delle fonti originali pubblicate da Bergman (e disponibili in francese), da cui attingere citazioni dirette significative (Laterna magica, Paris, 1987; Images, Paris, 1992), la raccolta viene presentata in alcuni succinti capitoli, nei quali i testi risultano un po’ artificiosamente collocati. È del resto la natura e la qualità del pensiero dell’artista; la sua insofferenza a esprimersi sui propri metodi di lavoro, a non conformarsi a categorie e sistemazioni teoriche. Anche il motto d’apertura, «Le Théâtre est ma passion», mortifica la profondità degli echi culturali e umani distintivi di quel pensiero, accomunandoli in generico empito istintivo. Da cogliere invece la stratificazione delle più brevi, sintetiche osservazioni, per riportarle alle vere feconde sorgenti ispiratrici e motrici della sua creatività. Così la scoperta e l’interesse iniziali, «Je possedais déjà mon théâtre de poupées […]. C’était un grand théâtre de poupées avec un grand répertoire. Nous faisons tout nous-mêmes: les poupées, les costumes, le décor et l’éclairage» (p. 17), danno indizi  dell’autonomia autodidatta. Affermando: «J’ai appris par expérience» (p. 22), sottintende successi e scacchi pagati con partecipazione assidua e responsabilità diretta a quanto accade sulle scene importanti che presto sarà chiamato a dirigere. «Tout artiste doit être un anarchiste, se remettre constamment en question, se juger, lui et son travail» (p. 24).

 

Olof Molander gli rivela la semplicità sconcertante dell’interpretazione di Strindberg: «Molander nous donne Strindberg, sans embellissements ni visions de metteur en scène, il se met à l’écoute du texte et s’en tient à lui» (p. 25). Ne seguiranno allestimenti dei capolavori in altrettanti eventi inimitabili, con La sonata degli spettri e Il Pellicano, fino a Il sogno, più volte ripreso. «Strindberg m’a accompagné tout au long de ma vie, me rebutant et m’attirant tour à tour [...]. Je le sentais comme un animal. Je sentais ses aggressions et ses aggressions étaient les miennes. Je connaissais la mélodie. Je ressentais ses sentiments» (p. 25).

 

A Parigi, Bergman scopre, con Molière e anche tramite Jouvet e Barrault, «l’étonnante brutalité des Français lorsqu’ils jouent la farce. Leur incroyable brutalité, leur puissance, leur tempo, leur humour noir, sauvage qui soudain devient absurde» (p. 29). Per l’attore e la recitazione, propone i propri criteri con la laconicità dell’evidenza e della necessità universale: «Telle doit être alors la base: d’abord, le sens de la pièce, puis savoir absolumment à chaque moment, à chaque second quoi penser, quoi sentir – les mouvements, la mélodie, le ton, le rythme» (p. 34). Irrinunciabile, per l’interprete, la tecnica, senza la quale resterebbe in balia di indizi esterni: «Je suis le vicarie, l’œil second, l’oreille en second du comédien. Je propose, j’enterpelle,  j’encourage ou je refuse» (p. 40). Proprio da regista, sembra concentrare l’attenzione sull’attore, restando incurante della scenotecnica e della scenografia. Eppure il senso dello spazio scenico gli appare in tutta rilevanza, quando a proposito del palcoscenico precisa: «Le point magique est propre à chaque théâtre, il se trouve sur chaque scène. Il faut le chercher et trouver l’endroit où l’acteur est le mieux et le plus efficacement placé» (p. 43); e le sue ambientazioni sfruttano l’intuizione, in sobrietà e semplicità. La ricerca complessiva s’orienta all’essenzialità del fenomeno (testimoniata da Mejerchol’d o da Vilar) nei suoi reagenti fondamentali: «Une représentation théâtrale surgit si trois éléments sont là: la parole, le comédien, le spectateur. On n’a besoin de rien d’autre pour que le miracle se produise» (p. 31). Riduzione all’osso e affinamento infinito, appaiono le vie di quell’arte rigorosa e immensa.

 

L’Introduzione di Odette Aslan sottolinea l’intraprendenza dell’autodidatta. Si adegua all’ambito teatrale francese, più sprovveduto sul personaggio (di cui dispone di bibliografia minima) che non quello italiano; accompagna l’autore nelle tappe del precoce folgorante itinerario artistico, dalle realizzazioni amatoriali alla direzione dei maggiori teatri svedesi, a Helsingborg (1944), a Goteborg (1946), a Malmö (1952) e al Reale di Stoccolma (periodi 1961-1976 e 1985-2002). Il suo repertorio compone un grandioso panorama della drammaturgia mondiale d’ogni epoca. Si ribadiscono la versatilità e l’eclettismo, nonché le doti dello scrittore drammatico. «Il y a toujours sur la scène bergmanienne un intense plaisir à jouer. Un sens du spectacle forain qui se manifeste à l’envi dans ses mises en scène de Shakespeare [...]. Il ose l’erotisme, la paillardise, l’ambiguité sexuelle [...]. Il a par ailleurs une vocation d’écrivain» (p. 11). La Teatrografia è inserita nei riferimenti biografici e la Bibliografia, selettiva, risulta persino carente. Estratti dal Diario delle prove per Woyzeck di Büchner (1969), nella redazione mediata da Henrik Sjögren, concludono i documenti d’autore.


di Gianni Poli


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