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«Segnocinema», anno XXXII, n. 175, maggio-giugno 2012


pp. 80, € 6,50
ISSN 0393-3865
                                 

La copertina dedicata al film Marilyn (Simon Curtis, 2011) prosegue la felice prassi della rivista di dedicare la front page del numero a un film del quale non parla, gettando così uno sguardo, quello del lettore, sul futuro prossimo cinematografico. Il fascicolo 175 si apre con la sezione “Saggi e interventi”, composta da un interessante trittico di riflessioni critiche.  Nel primo articolo, Star Williams, Roberto Pugliese ripercorre le principali tappe della carriera professionale di John Towner Williams, classe 1932, prolifico compositore di colonne sonore cinematografiche. Un percorso artistico, quello di Williams, in cui gioca un ruolo fondamentale il sodalizio artistico di lunga data con Steven Spielberg (iniziato con le musiche scritte per Sugarland Express nel 1974), confermato nel 2011 da due partiture Le avventure di Tintin e War Horse che, tecnicamente molto dissimili, danno conto della «dicotomia creativa che si agita da mezzo secolo in questo compositore, non solo all’interno della filmografia spielberghiana ma in tutto l’arco della sua attività: e che ne ha fatto da un lato il musicista più rappresentativo del sound americano postkennediano, sino a trasformare i Main Title di Star Wars in una credibile e valida alternativa all’Inno Nazionale, e dall’altro un artista continuamente attraversato da pulsioni e tentazioni fortissimamente europee, si direbbe “viennesi”, intendendo per Vienna quella delle avanguardie storiche, berghiane schönberghiane e weberniane, sino alla lezione di Darmstadt e delle spinte più intransigenti della post-dodecafonia […]».

Secondo intervento del trittico saggistico, “Uomini d’onore” in scena propone l’intervista a Paolo e Vittorio Taviani sulla loro ultima fatica. Sollecitati dalle domande di Marco Luceri, i due autori parlano con generosità di Cesare deve morire (2012), il film girato nel carcere di Rebibbia e interpretato dai detenuti, con il quale hanno vinto il 62° Festival di Berlino: dalla scelta del testo (Il Giulio Cesare di Shakespeare), all’uso del dialetto – o meglio, dei dialetti – nella sceneggiatura, dall’ambientazione che fa del carcere «un gigantesco e anomalo palcoscenico», al ruolo della musica e al dialogo tra bianco e nero e colore che caratterizza la fotografia del film.

Proprio da quest’ultima riflessione “cromatica” sembra prendere le mosse l’articolo che chiude il trittico di “Saggi e interventi”: in Saper vedere in bianco e nero, parafrasando il titolo di un celebre testo cinematografico, Paolo Cherchi Usai riflette sul perché e come il bianco e nero non sia «mai morto del tutto»: dal cinema delle origini a quello digitale, fino al ragguardevole exploit di The Artist (Michel Hazanavicius, 2011), esso ha perlopiù costituito una scelta consapevole, seppur mossa da intenzioni diverse: chi lo ha scelto come simbolo di astrazione, chi come cifra realista, chi ancora come marchio del cinema d’essai, chi come vezzo artistico, chi infine ha optato per forme ibride d’incontro col colore, di volta in volta diverse ma tutte feconde di implicazioni semantiche.

Il “SegnoSpeciale” di questo numero (Chi ha paura del cinema in cattedra?), a cura di Flavio De Bernardinis, è dedicato a un tema particolarmente spinoso, come recita il sottotitolo: Insegnare in Italia la materia cinematografica. Soffermandosi sulla situazione italiana, De Bernardinis in testa, una nutrita schiera di docenti di cinema si pronuncia coraggiosamente sul tema, esprimendo non soltanto “auspici e perplessità”: Gianni Canova (Immagini che lavorano), Roy Menarini (Allonsanfan de l’Italie), Andrea Bellavita (Insengare il cinema? In second screen), Enrico Terrone (Ore nove lezione di cinema), Andrea Minuz (Da qui all’eternità), Nicola Dusi (Comunicare il cinema), Marcello Walter Bruno (Insegnocinema), Paola Valentini (School Of Cinema), Cristina Jandelli (Insegnare il cinema?) e Luca Bandirali (L’avvelenata), alla luce delle rispettive esperienze “in cattedra”, rispondono alla “brutale” domanda «a che cosa serve sapere di cinema?». Ne emerge un quadro lucido e onesto dello status quo, a volte deludente, altre più ottimista, comunque sempre appassionato, che ci pare lecito condensare nelle parole di Andrea Bellavita, il quale a chi gli chiede perché abbia scelto questo mestiere, da un po’ di tempo a questa parte – ci confida – risponde laconico: «perché mi piace il cinema e mi fa piacere insegnare». Ci permettiamo di chiosare che –per fortuna – «Non di solo pane vivrà l'uomo». Conclude “Segnospeciale” la divertente «Galleria ironica (ma non troppo) di profili del professore di cinema», che Adriano D’Aloia “disegna” in dodici sagome, tratte da vari teacher movie, i film che hanno per protagonista un professore.

Chiude il ricco fascicolo la consueta e ampia serie di rubriche.





di Elisa Uffreduzzi


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