La copertina
dedicata al film Marilyn (Simon
Curtis, 2011) prosegue la felice prassi della rivista di dedicare la front page del numero a un film del
quale non parla, gettando così uno sguardo, quello del lettore, sul futuro
prossimo cinematografico. Il fascicolo 175 si apre con la sezione “Saggi e
interventi”, composta da un interessante trittico di riflessioni critiche. Nel primo articolo, Star Williams, Roberto Pugliese ripercorre le principali tappe
della carriera professionale di John
Towner Williams, classe 1932, prolifico compositore di colonne sonore
cinematografiche. Un percorso artistico, quello di Williams, in cui gioca un
ruolo fondamentale il sodalizio artistico di lunga data con Steven Spielberg (iniziato con le
musiche scritte per Sugarland Express
nel 1974), confermato nel 2011 da due partiture Le avventure di Tintin e War
Horse che, tecnicamente molto dissimili, danno conto della «dicotomia
creativa che si agita da mezzo secolo in questo compositore, non solo
allinterno della filmografia spielberghiana ma in tutto larco della sua
attività: e che ne ha fatto da un lato il musicista più rappresentativo del sound americano postkennediano, sino a
trasformare i Main Title di Star Wars
in una credibile e valida alternativa allInno Nazionale, e dallaltro un
artista continuamente attraversato da pulsioni e tentazioni fortissimamente
europee, si direbbe “viennesi”, intendendo per Vienna quella delle avanguardie
storiche, berghiane schönberghiane e weberniane, sino alla lezione di Darmstadt
e delle spinte più intransigenti della post-dodecafonia […]».
Secondo
intervento del trittico saggistico, “Uomini
donore” in scena propone lintervista a Paolo e Vittorio Taviani sulla loro ultima fatica. Sollecitati
dalle domande di Marco Luceri, i due autori parlano con generosità di Cesare deve morire (2012), il film
girato nel carcere di Rebibbia e interpretato dai detenuti, con il quale hanno
vinto il 62° Festival di Berlino: dalla scelta del testo (Il Giulio Cesare di Shakespeare), alluso
del dialetto – o meglio, dei dialetti – nella sceneggiatura, dallambientazione
che fa del carcere «un gigantesco e anomalo palcoscenico», al ruolo della
musica e al dialogo tra bianco e nero e colore che caratterizza la fotografia
del film.
Proprio da
questultima riflessione “cromatica” sembra prendere le mosse larticolo che
chiude il trittico di “Saggi e interventi”: in Saper vedere in bianco e nero, parafrasando il titolo di un celebre
testo cinematografico, Paolo Cherchi Usai riflette sul perché e come il bianco
e nero non sia «mai morto del tutto»: dal cinema delle origini a quello
digitale, fino al ragguardevole exploit di The
Artist (Michel Hazanavicius, 2011), esso ha perlopiù costituito una scelta
consapevole, seppur mossa da intenzioni diverse: chi lo ha scelto come simbolo
di astrazione, chi come cifra realista, chi ancora come marchio del cinema dessai, chi come vezzo artistico, chi
infine ha optato per forme ibride dincontro col colore, di volta in volta
diverse ma tutte feconde di implicazioni semantiche.
Il “SegnoSpeciale”
di questo numero (Chi ha paura del cinema
in cattedra?), a cura di Flavio De Bernardinis, è dedicato a un tema
particolarmente spinoso, come recita il sottotitolo: Insegnare in Italia la materia cinematografica. Soffermandosi sulla
situazione italiana, De Bernardinis in testa, una nutrita schiera di docenti di
cinema si pronuncia coraggiosamente sul tema, esprimendo non soltanto “auspici
e perplessità”: Gianni Canova (Immagini
che lavorano), Roy Menarini (Allonsanfan
de lItalie), Andrea Bellavita (Insengare
il cinema? In second screen), Enrico Terrone (Ore nove lezione di cinema), Andrea Minuz (Da qui alleternità), Nicola Dusi (Comunicare il cinema), Marcello Walter Bruno (Insegnocinema), Paola Valentini (School Of Cinema), Cristina Jandelli (Insegnare il cinema?) e Luca Bandirali (Lavvelenata), alla luce delle rispettive esperienze “in cattedra”,
rispondono alla “brutale” domanda «a che cosa
serve sapere di cinema?». Ne emerge un quadro lucido e onesto dello status quo, a volte deludente, altre più
ottimista, comunque sempre appassionato, che ci pare lecito condensare nelle
parole di Andrea Bellavita, il quale a chi gli chiede perché abbia scelto
questo mestiere, da un po di tempo a questa parte – ci confida – risponde
laconico: «perché mi piace il cinema e mi fa piacere insegnare». Ci permettiamo
di chiosare che –per fortuna – «Non di solo pane vivrà l'uomo». Conclude “Segnospeciale”
la divertente «Galleria ironica (ma non troppo) di profili del professore di
cinema», che Adriano DAloia “disegna” in dodici sagome, tratte da vari teacher movie, i film che hanno per
protagonista un professore.
Chiude il ricco fascicolo la consueta e ampia serie di rubriche.
di Elisa Uffreduzzi
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