Più che un “romanzo saggistico” –
genere ibrido che ben poche penne hanno saputo gestire – una fiction ben documentata. È questo,
probabilmente, il modo più corretto per inquadrare The Conductor, scritto lo scorso anno dalla neozelandese Sarah Quigley e pubblicato ora da Neri Pozza Editore con il titolo Sinfonia Leningrado (molto agile e scorrevole, soprattutto nei fitti
dialoghi, la traduzione di Chiara Brovelli). La Quigley – classe 1967 – non
è daltronde una musicologa, ma una romanziera e poetessa di successo
oltreoceano, e di buona fama pure in Germania, che con questultima fatica
letteraria potrebbe conquistarsi un piccolo posto al sole presso i lettori
italiani. Lintreccio di pubblico e privato, di storie damore attraverso i
percorsi della Storia, paga quasi sempre, sulla carta stampata come sul grande
o piccolo schermo: e le quasi quattrocento pagine di Sinfonia Leningrado
scorrono in modo abbastanza avvincente per il lettore interessato alla mera
dimensione narrativa, né delude quel pubblico incuriosito a verificare come la
scrittrice abbia dipanato la materia storico-musicale che ne forma lossatura.
Come appare evidente sin dal
titolo, il libro racconta infatti una di quelle «ore stellari nella storia
dellumanità» – per usare la fortunata espressione di Stefan Zweig – dove un
avvenimento si trasforma in momento epocale che resterà ai posteri: il
tentativo, nella Leningrado del 1942 intrappolata dal gelo e sotto la morsa
dellattacco nazista, di risollevare il morale della città assediata con la Settima Sinfonia di Šostakovič,
passata appunto alla storia come Sinfonia
Leningrado. Eseguita per la prima
volta nel marzo di quellanno a Kuibyshev, lontano dalle granate nemiche, e
diventata subito un manifesto in musica della resistenza russa, la Leningrado doveva – per il Soviet
Supremo – approdare nella città cui la sinfonia era dedicata, costasse quel che
costasse. Il libro racconta appunto il tentativo titanico di ricostituire
unorchestra (quella della radio cittadina: la Filarmonica leningradese era
dismessa da quando il suo direttore musicale, l“artista del popolo” Evgenij Mravinskij, vista la mala
parata aveva abbandonato la città); di assemblare i pochi strumentisti rimasti
su piazza stremati dalla fame e dal freddo e, comunque, divisi tra doveri
musicali e incombenze militari; di far suonare violinisti e violoncellisti con
le mani distrutte dal gelo, o flautisti e oboisti senza più fiato nei polmoni;
di rendere giustizia a una partitura dallorganico imponente con un numero limitato
di musicisti a disposizione.
Il libro si ferma subito prima
che la bacchetta si alzi: un bel modo – abilmente ellittico dopo una narrazione
capillare e a tratti ridondante, proprio come certa musica di Šostakovič – di calare
il sipario quando questo si dischiude, e di ricordarci che la grandezza
dellavvenimento fu nel fatto in sé, non nel risultato artistico. Nel frattempo
la narrazione ha pedinato, in un arco che va dalla primavera del 41 allestate
del 42, le esistenze – prima parallele, poi intrecciate – dei suoi tre
protagonisti: lo stesso Šostakovič, che tuttavia, uscendo di scena sul più
bello per motivi di verità storica (la sinfonia fu terminata lontano da
Leningrado), finisce con lapparire il personaggio meno risolto, sebbene le
pagine che lo vedono intento alla composizione e incurante degli allarmi aerei
siano molto suggestive; Karl Eliasberg,
direttore fino a quel momento di rincalzo e vissuto allombra del mito di Šostakovič,
cui spetterà di rimettere in piedi lorchestra decimata; un violinista –
personaggio di fantasia – giovane vedovo e padre amoroso di una violoncellista
in erba, preziosa figura di raccordo tra il compositore e il direttore.
Eliasberg, sul finire del
romanzo, scoprirà lamore; Nikolaj – il violinista – ritroverà la figlia che
credeva morta sotto le bombe; Šostakovič continuerà ad aleggiare come unicona
(ma il libro elude il tema del suo conflitto tra coscienza artistica
individuale e direttive estetiche del Partito). Nel frattempo sotto gli occhi
del lettore sono passati, ora in primo piano ora di sfuggita, Venjamin Fleishman, tragico appuntamento
mancato nella storia della musica russa (morì in guerra senza avere ultimato il
suo Violino di Rothschild tratto da
Cechov, opera strepitosa secondo Šostakovič, rappresentata postuma molti anni
dopo); quella singolare commistione di finezza intellettuale e rozzezza di modi
che fu Ivan Sollertinskij, insegnante di conservatorio e grande promotore
culturale; il pittore paraplegico Boris
Kustodiev. Prokofiev – il grande assente del romanzo – è soltanto nominato, e
sempre in termini poco lusinghieri; né manca una stoccata, per interposto Šostakovič,
al nostro Toscanini.
Le figure più memorabili, però, sono
quelle femminili, che la neozelandese Quigley pennella con la rarefatta
intensità che, negli anni Venti del secolo scorso, caratterizzava le creature
muliebri della sua conterranea Katherine Mansfield. È il caso tanto dun
personaggio inventato come la piccola Sonja – divisa tra il culto della mamma
morta, lamore per il papà e quello per il violoncello – quanto dun
personaggio storico come Nina Bronnikova, danzatrice che gli sfregi
della guerra allontaneranno per sempre dal balletto: «Alla luce fioca il suo
viso gli apparve più pallido che mai, e le occhiaie scure le davano un aspetto
ancora più fragile. Aveva il polso fasciato, la giacca nera piena di buchi, la
gamba menomata molto, molto magra. Era adorabile. Era perfetta».
Al di là della trama, e forse
anche delle intenzioni dellautrice, Sinfonia
Leningrado è comunque una riflessione
abbastanza eloquente sul ruolo dintermediario svolto dallinterprete musicale:
la vexata quaestio se il direttore e il solista esprimano emozioni, oppure
semplicemente debbano trasmetterle, resta aperta, ma il libro fa riflettere
sulla portata creatrice che spetta allesecutore. Semmai cè una dichiarazione
dimpotenza proprio da parte dei compositori: «Lopera non fa vincere la
guerra», dice Fleishman in una delle battute-chiave del romanzo. Ma ciò che
resta è soprattutto il risveglio di memoria storica che Sinfonia Leningrado insuffla
ai lettori: che forse, riposto il volume in libreria, avranno limpulso di
saperne di più su Karl Eliasberg. E magari vorranno ascoltare la sua incisione
della Leningrado (registrata oltre
ventanni dopo quella mitica esecuzione dei tempi dellassedio); o, meglio
ancora, il suo disco del Doppio concerto
di Brahms realizzato insieme a Oistrakh
e Knusevitskij.
di Paolo Patrizi
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