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Sarah Quigley

Sinfonia Leningrado


Vicenza, Neri Pozza Editore, 2012, pp. 384, 17 euro
ISBN 978-88-545-0590-2
                                 

Più che un “romanzo saggistico” – genere ibrido che ben poche penne hanno saputo gestire – una fiction ben documentata. È questo, probabilmente, il modo più corretto per inquadrare The Conductor, scritto lo scorso anno dalla neozelandese Sarah Quigley e pubblicato ora da Neri Pozza Editore con il titolo Sinfonia Leningrado (molto agile e scorrevole, soprattutto nei fitti dialoghi, la traduzione di Chiara Brovelli). La Quigley – classe 1967 – non è d’altronde una musicologa, ma una romanziera e poetessa di successo oltreoceano, e di buona fama pure in Germania, che con quest’ultima fatica letteraria potrebbe conquistarsi un piccolo posto al sole presso i lettori italiani. L’intreccio di pubblico e privato, di storie d’amore attraverso i percorsi della Storia, paga quasi sempre, sulla carta stampata come sul grande o piccolo schermo: e le quasi quattrocento pagine di Sinfonia Leningrado scorrono in modo abbastanza avvincente per il lettore interessato alla mera dimensione narrativa, né delude quel pubblico incuriosito a verificare come la scrittrice abbia dipanato la materia storico-musicale che ne forma l’ossatura.

 

Come appare evidente sin dal titolo, il libro racconta infatti una di quelle «ore stellari nella storia dell’umanità» – per usare la fortunata espressione di Stefan Zweig – dove un avvenimento si trasforma in momento epocale che resterà ai posteri: il tentativo, nella Leningrado del 1942 intrappolata dal gelo e sotto la morsa dell’attacco nazista, di risollevare il morale della città assediata con la Settima Sinfonia di Šostakovič, passata appunto alla storia come Sinfonia Leningrado. Eseguita per la prima volta nel marzo di quell’anno a Kuibyshev, lontano dalle granate nemiche, e diventata subito un manifesto in musica della resistenza russa, la Leningrado doveva – per il Soviet Supremo – approdare nella città cui la sinfonia era dedicata, costasse quel che costasse. Il libro racconta appunto il tentativo titanico di ricostituire un’orchestra (quella della radio cittadina: la Filarmonica leningradese era dismessa da quando il suo direttore musicale, l’“artista del popolo” Evgenij Mravinskij, vista la mala parata aveva abbandonato la città); di assemblare i pochi strumentisti rimasti su piazza stremati dalla fame e dal freddo e, comunque, divisi tra doveri musicali e incombenze militari; di far suonare violinisti e violoncellisti con le mani distrutte dal gelo, o flautisti e oboisti senza più fiato nei polmoni; di rendere giustizia a una partitura dall’organico imponente con un numero limitato di musicisti a disposizione.

 

Il libro si ferma subito prima che la bacchetta si alzi: un bel modo – abilmente ellittico dopo una narrazione capillare e a tratti ridondante, proprio come certa musica di Šostakovič – di calare il sipario quando questo si dischiude, e di ricordarci che la grandezza dell’avvenimento fu nel fatto in sé, non nel risultato artistico. Nel frattempo la narrazione ha pedinato, in un arco che va dalla primavera del ’41 all’estate del ’42, le esistenze – prima parallele, poi intrecciate – dei suoi tre protagonisti: lo stesso Šostakovič, che tuttavia, uscendo di scena sul più bello per motivi di verità storica (la sinfonia fu terminata lontano da Leningrado), finisce con l’apparire il personaggio meno risolto, sebbene le pagine che lo vedono intento alla composizione e incurante degli allarmi aerei siano molto suggestive; Karl Eliasberg, direttore fino a quel momento di rincalzo e vissuto all’ombra del mito di Šostakovič, cui spetterà di rimettere in piedi l’orchestra decimata; un violinista – personaggio di fantasia – giovane vedovo e padre amoroso di una violoncellista in erba, preziosa figura di raccordo tra il compositore e il direttore.

 

Eliasberg, sul finire del romanzo, scoprirà l’amore; Nikolaj – il violinista – ritroverà la figlia che credeva morta sotto le bombe; Šostakovič continuerà ad aleggiare come un’icona (ma il libro elude il tema del suo conflitto tra coscienza artistica individuale e direttive estetiche del Partito). Nel frattempo sotto gli occhi del lettore sono passati, ora in primo piano ora di sfuggita, Venjamin Fleishman, tragico appuntamento mancato nella storia della musica russa (morì in guerra senza avere ultimato il suo Violino di Rothschild tratto da Cechov, opera strepitosa secondo Šostakovič, rappresentata postuma molti anni dopo); quella singolare commistione di finezza intellettuale e rozzezza di modi che fu Ivan Sollertinskij, insegnante di conservatorio e grande promotore culturale; il pittore paraplegico Boris Kustodiev. Prokofiev – il grande assente del romanzo – è soltanto nominato, e sempre in termini poco lusinghieri; né manca una stoccata, per interposto Šostakovič, al nostro Toscanini.

 

Le figure più memorabili, però, sono quelle femminili, che la neozelandese Quigley pennella con la rarefatta intensità che, negli anni Venti del secolo scorso, caratterizzava le creature muliebri della sua conterranea Katherine Mansfield. È il caso tanto d’un personaggio inventato come la piccola Sonja – divisa tra il culto della mamma morta, l’amore per il papà e quello per il violoncello – quanto d’un personaggio storico come Nina Bronnikova, danzatrice che gli sfregi della guerra allontaneranno per sempre dal balletto: «Alla luce fioca il suo viso gli apparve più pallido che mai, e le occhiaie scure le davano un aspetto ancora più fragile. Aveva il polso fasciato, la giacca nera piena di buchi, la gamba menomata molto, molto magra. Era adorabile. Era perfetta».

 

Al di là della trama, e forse anche delle intenzioni dell’autrice, Sinfonia Leningrado è comunque una riflessione abbastanza eloquente sul ruolo d’intermediario svolto dall’interprete musicale: la vexata quaestio se il direttore e il solista esprimano emozioni, oppure semplicemente debbano trasmetterle, resta aperta, ma il libro fa riflettere sulla portata creatrice che spetta all’esecutore. Semmai c’è una dichiarazione d’impotenza proprio da parte dei compositori: «L’opera non fa vincere la guerra», dice Fleishman in una delle battute-chiave del romanzo. Ma ciò che resta è soprattutto il risveglio di memoria storica che Sinfonia Leningrado insuffla ai lettori: che forse, riposto il volume in libreria, avranno l’impulso di saperne di più su Karl Eliasberg. E magari vorranno ascoltare la sua incisione della Leningrado (registrata oltre vent’anni dopo quella mitica esecuzione dei tempi dell’assedio); o, meglio ancora, il suo disco del Doppio concerto di Brahms realizzato insieme a Oistrakh e Knusevitskij.

 

 

di Paolo Patrizi


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