Il volume di Alessandro Pontremoli si propone come una riflessione consuntiva e aggiornata sulle varie problematiche della danza quattrocentesca in Europa e in Italia fra teoria e prassi, partendo dalla ricostruzione della sua trasmissione e scandagliandone le molteplici trasformazioni allinterno della mutevole e complessa società umanistica, in relazione ai processi di memorizzazione, alle reti di produzione e alla ricostruzione delle relazioni dei soggetti interessati, creatori e fruitori del fenomeno coreutico nellambito delle corti del periodo.
Una prima sezione del lavoro è dedicata allanalisi della teorica coreutica quattrocentesca. I tre trattati italiani di danza di Domenico da Piacenza (De arte saltandi et choreas ducendi), Guglielmo Ebreo da Pesaro (De pratica seu arte tripudii) e Antonio Cornazano (Libro dellarte del danzare) vengono qui ampiamente presentati nella loro struttura e nel loro contenuto, attraverso unindagine comparativa tesa a metterne in luce similitudini e differenze; il raffronto dei tre manoscritti si sposta poi sullindividuazione delle finalità immediate, in direzione della legittimazione della danza come arte “etica” degna di essere insegnata sia a livello teorico che pratico, e sulle più complesse ricadute culturali e sociali, allinterno dellarticolato sistema teorico-filosofico-pedagogico umanistico che tende alla creazione di un modello italiano di comportamento sociale, in cui la definizione “identitaria” del gentiluomo e della gentildonna della corte rinascimentale risulta centralizzante. La discrepanza tra trattatistica di danza e materialità coreica viene poi affrontata come elemento effettivo della frattura tra teoria e prassi rappresentativa, tipica del passaggio dal Trecento al Quattrocento, che porta di fatto a individuare la danza quattrocentesca come un elemento costitutivo e significativo del microcosmo della corte e che trova il suo spazio dazione allinterno di una prassi spettacolare ancora tipicamente tardo-medievale, rappresentata dal torneo, dal banchetto, dai rituali cittadini e dalluso dello spazio urbano esterno e interno.
A completamento del quadro sulla teorica coreutica quattrocentesca, lautore si sofferma sullapprofondimento delle connotazioni scientifiche ed esoteriche che gli autori stessi dei trattati attribuiscono alla danza, in particolare Guglielmo Ebreo da Pesaro: una disciplina che si presenta come arte e scienza, summa delle riflessioni neoplatoniche e dellermetismo numerologico, in cui si mescolano in maniera equilibrata elementi naturali e fattori accidentali e che comincia a vedere nellartificio lelemento essenziale per la sua resa compiuta e la sua valenza “dilettevole”. Una radicale trasformazione che porta al superamento dellarte coreica definita “naturale”, come voleva Domenico da Piacenza, per approdare ad una connotazione più “artificiosa”, propugnata da Guglielmo Ebreo, in cui le doti virtuosistiche del ballerino e la sua abilità nel danzare contribuiscono a creare «grazia e armonia» e a suscitare la lode degli osservatori, sempre a patto che non si ecceda in movimenti e posture considerate “innaturali”.
Una seconda sezione dei saggi proposti nel volume indaga più da vicino la prassi coreica, considerata come elemento fondamentale di comunicazione e di appartenenza sociale, e linserimento di essa allinterno della codificazione spettacolare umanistica. Si parte dalla considerazione del rapporto inscindibile tra danza e cultura vestimentaria, elementi che nel Quattrocento fanno riferimento a un medesimo sistema cognitivo teso a influenzare e codificare i comportamenti sia del singolo sia del suo gruppo sociale di appartenenza; tanto le leggi suntuarie che i trattati di danza del periodo, infatti, mirano a istituzionalizzare gli strumenti per la comunicazione dello stato e della condizione del soggetto o dei gruppi sociali coinvolti, nella necessità di rendere esteticamente percepibile lordine gerarchico della società. Dopo tali premesse, lautore analizza la danza di corte «alla prova della prassi», focalizzando la sua trattazione sui principi teorici dellespressione del corpo del danzatore in relazione allutenza cui si riferisce e sviscerando le varie componenti espressive e drammatiche concesse al ballerino aristocratico dilettante, con particolare riferimento alla figura femminile; lopposizione è con potenzialità ammesse per il professionista e per lesecutore appartenente alle classi sociali inferiori, secondo la dialettica classicista che vede contrapposti lotium e il negotium e che concede al nobile la frequentazione di passatempi, come la danza, che rientrano nellordine naturale della vita delluomo se non esercitati come mestieri ma come sollievo e diletto dellanimo e del corpo. Si passa poi allesposizione delle diverse accezioni di danza sociale e ballo spettacolare, sempre in riferimento alla trattazione offerta dai tre maestri di danza nei loro manoscritti i quali, seguendo una precisa struttura, presentano una seconda parte volta alla codificazione di un repertorio di coreografie e di musiche tradizionalmente assegnato alla sfera del divertimento della classe nobile ma, in realtà, chiaramente riferito a situazioni di ambito rappresentativo o spettacolare, come le danze cosiddette espressive (Sobria, Mercanzia, Gelosia) e quelle pantomimiche (moresche, momarie, intermedi, etc). Il volume si conclude con due interessanti riflessioni, la prima sullonomastica coreografica allinterno del trattato di Domenico da Piacenza, in particolare lesempio emblematico del Ballo Verēepe, la seconda sulle componenti pastorali e mitologiche allinterno della danza quattrocentesca, a dimostrazione di come larte coreutica, nellambito della cultura rappresentativa quattrocentesca, non si esima dai paradigmi canonici della produzione drammatica coeva relativi al mito dellamore e al ritorno delletà delloro, chiavi interpretative metaforiche delle vicende storiche contemporanee.
di Caterina Pagnini
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