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Prove di drammaturgia, a. XVII, n. 1, febbraio 2012


a. XVII, n. 1, febbraio 2012, pp. 39, euro 7,00
ISSN 1592-6680

 

Il 10 novembre 2011, a Bologna, nel Salone Marescotti, a conclusione di un laboratorio (durato dal 4 al 10 novembre) tenuto dal maestro Umewaka Naohiko agli studenti dell’Università di Bologna, si è svolto il convegno Teatro nō: una tradizione contemporanea. Ad aprire l’attività convegnistica è stata la messa in scena dello spettacolo Il ristorante italiano, scritto e diretto dal maestro Umewaka e interpretato dagli studenti del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Ateneo bolognese.

 

Questo numero di «Prove di drammaturgia» raccoglie gli atti di quella Giornata di studio, nonché, nelle ultime pagine, il testo de Il ristorante italiano, corredato da alcune foto di scena dello spettacolo allestito il 10 novembre scorso. Firmati dallo stesso Umewaka (che debuttò come attore di teatro nel 1961, all’età di tre anni), i primi due contributi non sono altro che una riflessione sul mondo del da parte di un maestro di questa arte: secondo lui, che cita in proposito le parole del mitico artista di Zeami Motokiyo (1363-1443), il concetto principale che sta alla base di questo tipo di teatro, così ipnotico e commuovente e nello stesso tempo così poco vistoso o complicato, è quello di kyakurai (ritornare all’origine, alla semplicità). Nel suo trattato intitolato Kyakuraika, infatti, Zeami spiega proprio l’importanza, da parte di un maestro di questa forma teatrale, di saper ritornare all’estrema semplicità. Per saperci ritornare, però, è necessario apprendere «l’arte dell’interiorità». Solo così facendo, si può raggiungere il «mondo dello yūgen (bellezza profonda e misteriosa)».  

 

Ripensando alla sua lunga carriera, Umewaka si rende conto del fatto che uno degli scopi più importanti da lui perseguiti per anni e anni è stato quello di riuscire ad attraversare il confine fra il mondo esteriore e il mondo interiore. In quanto artista, in pratica, ha sempre cercato di riprodurre su un palcoscenico (ovvero in un luogo che rappresenta, per sua stessa natura, un confine fra mondo esteriore e interiore) emozioni da lui realmente provate in passato, in occasione di determinate esperienze. Per esempio – spiega –, se vogliamo riprodurre l’emozione che abbiamo provato, durante una passeggiata in montagna, di fronte a una cascata, il risultato ideale da raggiungere sarebbe quello d’imbattersi nuovamente in essa; riattivando quindi in noi le stesse sensazioni visive, uditive, olfattive e tattili che, quel determinato giorno, ci hanno fatto acquisire la cognizione della cascata: ovviamente, questo tipo di esercizio andrebbe svolto in un luogo privo di stimoli esterni, come una stanza della propria casa, meglio se al buio e in silenzio. Una volta che saremo riusciti a riprodurre dentro di noi la stessa emozione provata quando realmente abbiamo visto la cascata, e perciò a trasformare la nostra immaginazione in esperienza, questo stato d’animo durerà al massimo qualche decina di secondi: «per applicare questo metodo alla rappresentazione teatrale, che può durare un’ora o più, io scelgo in genere – conclude Umewaka – di distribuire lungo il fluire dell’azione una decina di momenti di riproduzione dell’emozione […], ognuno mantenuto per circa quindici secondi».

 

Nei loro contributi, Matteo Casari (che è, fra l’altro, il curatore di questo progetto incentrato sul Teatro ) e Bonaventura Ruperti tracciano invece una storia di questa forma teatrale, la cui epoca aurea va dal 1333 (data di nascita di Kan’ami Kiyotsugu, padre di Zeami) al 1530, data di morte dell’attore Konparu Zenpō. È questa la stagione cui vanno fatti risalire quei classici che costituiscono la maggior parte del florilegio di capolavori tuttora rappresentati, che sono all’incirca 250. Il comincia però a fissarsi in un modello stabile e ad assumere una forma riconoscibile solo nel periodo Tokugawa (1603-1868), quando viene fissato un repertorio, pressoché stabile, di testi per la messinscena e le compagnie vengono ridotte a cinque scuole. A questo periodo, in cui il Giappone si chiude completamente in se stesso, ne segue poi un altro (il periodo Meiji, 1868-1912) che sancisce la fine del lungo medioevo nipponico dei samurai e l’inizio di un’epoca, durante la quale il rischia di scomparire, caratterizzata da una vorace ingestione di tutto quanto provenga dall’Occidente. Proprio in questa fase, si diffonde il motto, che ben s’intona con lo spirito sincretico tipico della cultura nipponica, wakon yōsai (spirito giapponese, tecnica occidentale), coniato apposta – scrive Casari – «per traghettare l’indiscriminata occidentalizzazione verso una modernizzazione più rispettosa delle istanze culturali autoctone»: ed ecco infatti nascere, soprattutto negli anni Ottanta del Novecento, lo shinsaku nō (il nuovo ), etichetta sotto la quale vengono raggruppate tutte le sperimentazioni attuate intorno al inteso nella sua forma più canonica e istituzionalizzata. e nuovo sono due generi totalmente differenti oppure non sono che diverse declinazioni di un’unica arte? Questa la domanda intorno alla quale gravita il contributo di Casari, che, per darsi una risposta, fa ricorso al pensiero di Nishida Kitarō (1870-1945), il più rappresentativo – e interculturale – filosofo giapponese del XX secolo, che ha postulato il principio della continuità di discontinuità (hirenzoku no renzoku). Secondo Nishida, è impossibile cogliere l’io come ente autonomo e individuale e solo il confronto con altri “io” permette di tracciarne i limiti che lo distinguono: oggi, perciò, dobbiamo necessariamente considerare il nostro io di ieri come un tu e oggettivarlo come un non-io. Da ciò deriva che, dentro di noi, c’è un non-io e ciò che ci costituisce è un’unità contraddittoria, una “continuità di discontinuità”. Per arrivare alla domanda di partenza, dunque, il nuovo non può esistere come entità autonoma ed è definibile solo se rapportato col , o meglio con i fukkyoku (vale a dire con gli odierni riallestimenti di antichi drammi ): fukkyoku e shinsaku nō, io e non-io, tradizione e vita, continuità e discontinuità, non fanno altro che mantenere in vita lo stesso organismo, che è talmente solido e codificato da non avere affatto paura – anzi, al contrario, da sentire il bisogno – di affrontare il rischio del dinamismo e del mutamento.

 

Come è strutturato un classico , così come è stato creato da Kan’ami e da suo figlio Zeami? Quanti tipi di esistono? E quali sono? Come va intesa e realizzata l’interpretazione di un attore specializzato in questa forma di teatro? Sono tutte domande a cui risponde Claudia Iazzetta nel suo contributo, dove spiega che il viene recitato da soli uomini, che presenta sul palco due ruoli, lo shite (“colui che agisce”, ovvero il protagonista assoluto della storia) e il waki (che rimane per tutto il tempo ai margini della scena ed ha la «laconica abilità» di stimolare lo shite a palesarsi), e che esistono cinque tipi di (quelli di divinità, di guerrieri, di donne, di lunatici e di demoni). Spiega, infine, come ciò che scardina il dai binari della sua epoca, rendendolo universale, sia il concetto di imitazione (monomane): l’attore non deve interpretare il personaggio, ma deve diventare il personaggio e, per farlo, deve annullare se stesso e coglierne l’essenza. Deve arrivare ad un tale punto di identificazione da non percepire più lo sforzo dell’imitazione: «mente e corpo – scrive la Iazzetta – acquistano pari dignità, e il recitare diventa una sospensione della coscienza in cui si compiono movimenti autonomi». Lo spettatore può comprendere davvero un solo se sarà riuscito a evadere dalla gabbia della percezione sensoriale: nello Shikadō (Il libro della via che conduce al fiore), un trattato del 1420, Zeami sostiene che «l’intenditore guarda il con la mente, chi non è un intenditore lo guarda con gli occhi».

 

Giovanni Azzaroni analizza quindi la messa in scena, curata dal maestro Umewaka Manzaburō III nel 1995, del dramma Sumidagawa, scritto da Motomasa (figlio di Zeami), che parla di una madre che lascia la propria casa per andare a cercare il figlio e, alla fine, lo ritrova morto. Interprete della madre, Umewaka si muove sul palcoscenico con ampi movimenti circolari, danzando sulle note di un flauto (fue bashira), tipiche del perché lo velano di una bellezza malinconica e arcana. Nella seconda parte dello spettacolo, alla madre (che tiene in mano un ramo di bambù, simbolo della sua follia) si manifesta il fantasma del figlio, che altro non è se non una proiezione dei suoi desideri. «Il teatro – ha dichiarato Ezra Pound – è affollato di spiriti, che mostrano sorprendenti caratteristiche psicologiche, analoghe a quelle studiate dallo spiritismo occidentale. In virtù di esse il può assurgere a valori universali».

 

Nel suo contributo, Lydia Origlia si sofferma invece sulla figura di Yukio Mishima (1925-1970), noto autore di moderni. Quanto a Diego Pellecchia, infine, descrive l’accoglienza tributata, nel 1954, in occasione del XIII Festival Internazionale Biennale di Venezia, ai sei spettacoli di teatro messi in scena da un gruppo di attori delle scuole Kanze e Kita: è la prima volta, nella sua storia secolare, che questa antica forma d’arte scenica approda in Occidente. Il successo di botteghino fu inaspettatamente enorme, ma – dato che siamo nel paese dei partiti presi – la critica si spaccò in due. E i giornali di matrice democristiana esibirono delle recensioni tutte positive (anche se molti critici mostrarono di non aver capito niente dello spirito del ), mentre i quotidiani del partito socialista e comunista stroncarono gli spettacoli ritenendoli aristocratici, intellettualistici, veicoli di spiritualità, e troppo lontani dall’estetica realista allora in voga. L’unico commento intelligente fu quello di Giovanni Calendoli, che, sulle pagine della «Fiera Letteraria», scrisse: la «cultura del nostro vecchio mondo ha oggi più che mai bisogno di ritornare alla verità, alla sincerità, al rispetto delle varie civiltà. V’è una incomprensione che è feconda ed operante, più di ogni falsa comprensione».

 

Chiude la rivista il testo de Il ristorante italiano di Umewaka Naohiko, bellissimo dramma moderno e autobiografico, dove il protagonista è infatti un maestro di teatro , che si rende conto di aver cominciato a confondere il confine fra il teatro e la vita, a vivere senza riuscire a distinguere la finzione dalla non-finzione. La storia mette in discussione tutto; il passato riaffiora continuamente nel presente, e gli spettri si muovono in mezzo ai vivi. Anche qui, come in ogni che si rispetti, la vicenda ruota intorno all’apparizione di un fantasma. Come disse Paul Claudel, «il dramma è qualche cosa che avviene, il è qualcuno che viene». Interpretato da studenti del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna, lo spettacolo viene definito da Angela Grasso una vera e propria «canoa che si muove tra antichità e innovazione, tra Oriente e Occidente».


di Giulia Tellini


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