Il 10 novembre 2011, a Bologna, nel Salone Marescotti, a conclusione di un laboratorio (durato dal 4 al 10 novembre) tenuto dal maestro Umewaka Naohiko agli studenti dellUniversità di Bologna, si è svolto il convegno Teatro nō: una tradizione contemporanea. Ad aprire lattività convegnistica è stata la messa in scena dello spettacolo Il ristorante italiano, scritto e diretto dal maestro Umewaka e interpretato dagli studenti del Dipartimento di Musica e Spettacolo dellAteneo bolognese.
Questo numero di «Prove di drammaturgia» raccoglie gli atti di quella Giornata di studio, nonché, nelle ultime pagine, il testo de Il ristorante italiano, corredato da alcune foto di scena dello spettacolo allestito il 10 novembre scorso. Firmati dallo stesso Umewaka (che debuttò come attore di teatro nō nel 1961, alletà di tre anni), i primi due contributi non sono altro che una riflessione sul mondo del nō da parte di un maestro di questa arte: secondo lui, che cita in proposito le parole del mitico artista di nō Zeami Motokiyo (1363-1443), il concetto principale che sta alla base di questo tipo di teatro, così ipnotico e commuovente e nello stesso tempo così poco vistoso o complicato, è quello di kyakurai (ritornare allorigine, alla semplicità). Nel suo trattato intitolato Kyakuraika, infatti, Zeami spiega proprio limportanza, da parte di un maestro di questa forma teatrale, di saper ritornare allestrema semplicità. Per saperci ritornare, però, è necessario apprendere «larte dellinteriorità». Solo così facendo, si può raggiungere il «mondo dello yūgen (bellezza profonda e misteriosa)».
Ripensando alla sua lunga carriera, Umewaka si rende conto del fatto che uno degli scopi più importanti da lui perseguiti per anni e anni è stato quello di riuscire ad attraversare il confine fra il mondo esteriore e il mondo interiore. In quanto artista, in pratica, ha sempre cercato di riprodurre su un palcoscenico (ovvero in un luogo che rappresenta, per sua stessa natura, un confine fra mondo esteriore e interiore) emozioni da lui realmente provate in passato, in occasione di determinate esperienze. Per esempio – spiega –, se vogliamo riprodurre lemozione che abbiamo provato, durante una passeggiata in montagna, di fronte a una cascata, il risultato ideale da raggiungere sarebbe quello dimbattersi nuovamente in essa; riattivando quindi in noi le stesse sensazioni visive, uditive, olfattive e tattili che, quel determinato giorno, ci hanno fatto acquisire la cognizione della cascata: ovviamente, questo tipo di esercizio andrebbe svolto in un luogo privo di stimoli esterni, come una stanza della propria casa, meglio se al buio e in silenzio. Una volta che saremo riusciti a riprodurre dentro di noi la stessa emozione provata quando realmente abbiamo visto la cascata, e perciò a trasformare la nostra immaginazione in esperienza, questo stato danimo durerà al massimo qualche decina di secondi: «per applicare questo metodo alla rappresentazione teatrale, che può durare unora o più, io scelgo in genere – conclude Umewaka – di distribuire lungo il fluire dellazione una decina di momenti di riproduzione dellemozione […], ognuno mantenuto per circa quindici secondi».
Nei loro contributi, Matteo Casari (che è, fra laltro, il curatore di questo progetto incentrato sul Teatro nō) e Bonaventura Ruperti tracciano invece una storia di questa forma teatrale, la cui epoca aurea va dal 1333 (data di nascita di Kanami Kiyotsugu, padre di Zeami) al 1530, data di morte dellattore Konparu Zenpō. È questa la stagione cui vanno fatti risalire quei classici che costituiscono la maggior parte del florilegio di capolavori tuttora rappresentati, che sono allincirca 250. Il nō comincia però a fissarsi in un modello stabile e ad assumere una forma riconoscibile solo nel periodo Tokugawa (1603-1868), quando viene fissato un repertorio, pressoché stabile, di testi per la messinscena e le compagnie vengono ridotte a cinque scuole. A questo periodo, in cui il Giappone si chiude completamente in se stesso, ne segue poi un altro (il periodo Meiji, 1868-1912) che sancisce la fine del lungo medioevo nipponico dei samurai e linizio di unepoca, durante la quale il nō rischia di scomparire, caratterizzata da una vorace ingestione di tutto quanto provenga dallOccidente. Proprio in questa fase, si diffonde il motto, che ben sintona con lo spirito sincretico tipico della cultura nipponica, wakon yōsai (spirito giapponese, tecnica occidentale), coniato apposta – scrive Casari – «per traghettare lindiscriminata occidentalizzazione verso una modernizzazione più rispettosa delle istanze culturali autoctone»: ed ecco infatti nascere, soprattutto negli anni Ottanta del Novecento, lo shinsaku nō (il nuovo nō), etichetta sotto la quale vengono raggruppate tutte le sperimentazioni attuate intorno al nō inteso nella sua forma più canonica e istituzionalizzata. Nō e nuovo nō sono due generi totalmente differenti oppure non sono che diverse declinazioni di ununica arte? Questa la domanda intorno alla quale gravita il contributo di Casari, che, per darsi una risposta, fa ricorso al pensiero di Nishida Kitarō (1870-1945), il più rappresentativo – e interculturale – filosofo giapponese del XX secolo, che ha postulato il principio della continuità di discontinuità (hirenzoku no renzoku). Secondo Nishida, è impossibile cogliere lio come ente autonomo e individuale e solo il confronto con altri “io” permette di tracciarne i limiti che lo distinguono: oggi, perciò, dobbiamo necessariamente considerare il nostro io di ieri come un tu e oggettivarlo come un non-io. Da ciò deriva che, dentro di noi, cè un non-io e ciò che ci costituisce è ununità contraddittoria, una “continuità di discontinuità”. Per arrivare alla domanda di partenza, dunque, il nuovo nō non può esistere come entità autonoma ed è definibile solo se rapportato col nō, o meglio con i fukkyoku (vale a dire con gli odierni riallestimenti di antichi drammi nō): fukkyoku e shinsaku nō, io e non-io, tradizione e vita, continuità e discontinuità, non fanno altro che mantenere in vita lo stesso organismo, che è talmente solido e codificato da non avere affatto paura – anzi, al contrario, da sentire il bisogno – di affrontare il rischio del dinamismo e del mutamento.
Come è strutturato un classico nō, così come è stato creato da Kanami e da suo figlio Zeami? Quanti tipi di nō esistono? E quali sono? Come va intesa e realizzata linterpretazione di un attore specializzato in questa forma di teatro? Sono tutte domande a cui risponde Claudia Iazzetta nel suo contributo, dove spiega che il nō viene recitato da soli uomini, che presenta sul palco due ruoli, lo shite (“colui che agisce”, ovvero il protagonista assoluto della storia) e il waki (che rimane per tutto il tempo ai margini della scena ed ha la «laconica abilità» di stimolare lo shite a palesarsi), e che esistono cinque tipi di nō (quelli di divinità, di guerrieri, di donne, di lunatici e di demoni). Spiega, infine, come ciò che scardina il nō dai binari della sua epoca, rendendolo universale, sia il concetto di imitazione (monomane): lattore non deve interpretare il personaggio, ma deve diventare il personaggio e, per farlo, deve annullare se stesso e coglierne lessenza. Deve arrivare ad un tale punto di identificazione da non percepire più lo sforzo dellimitazione: «mente e corpo – scrive la Iazzetta – acquistano pari dignità, e il recitare diventa una sospensione della coscienza in cui si compiono movimenti autonomi». Lo spettatore può comprendere davvero un nō solo se sarà riuscito a evadere dalla gabbia della percezione sensoriale: nello Shikadō (Il libro della via che conduce al fiore), un trattato del 1420, Zeami sostiene che «lintenditore guarda il nō con la mente, chi non è un intenditore lo guarda con gli occhi».
Giovanni Azzaroni analizza quindi la messa in scena, curata dal maestro Umewaka Manzaburō III nel 1995, del dramma Sumidagawa, scritto da Motomasa (figlio di Zeami), che parla di una madre che lascia la propria casa per andare a cercare il figlio e, alla fine, lo ritrova morto. Interprete della madre, Umewaka si muove sul palcoscenico con ampi movimenti circolari, danzando sulle note di un flauto (fue bashira), tipiche del nō perché lo velano di una bellezza malinconica e arcana. Nella seconda parte dello spettacolo, alla madre (che tiene in mano un ramo di bambù, simbolo della sua follia) si manifesta il fantasma del figlio, che altro non è se non una proiezione dei suoi desideri. «Il teatro nō – ha dichiarato Ezra Pound – è affollato di spiriti, che mostrano sorprendenti caratteristiche psicologiche, analoghe a quelle studiate dallo spiritismo occidentale. In virtù di esse il nō può assurgere a valori universali».
Nel suo contributo, Lydia Origlia si sofferma invece sulla figura di Yukio Mishima (1925-1970), noto autore di nō moderni. Quanto a Diego Pellecchia, infine, descrive laccoglienza tributata, nel 1954, in occasione del XIII Festival Internazionale Biennale di Venezia, ai sei spettacoli di teatro nō messi in scena da un gruppo di attori delle scuole Kanze e Kita: è la prima volta, nella sua storia secolare, che questa antica forma darte scenica approda in Occidente. Il successo di botteghino fu inaspettatamente enorme, ma – dato che siamo nel paese dei partiti presi – la critica si spaccò in due. E i giornali di matrice democristiana esibirono delle recensioni tutte positive (anche se molti critici mostrarono di non aver capito niente dello spirito del nō), mentre i quotidiani del partito socialista e comunista stroncarono gli spettacoli ritenendoli aristocratici, intellettualistici, veicoli di spiritualità, e troppo lontani dallestetica realista allora in voga. Lunico commento intelligente fu quello di Giovanni Calendoli, che, sulle pagine della «Fiera Letteraria», scrisse: la «cultura del nostro vecchio mondo ha oggi più che mai bisogno di ritornare alla verità, alla sincerità, al rispetto delle varie civiltà. Vè una incomprensione che è feconda ed operante, più di ogni falsa comprensione».
Chiude la rivista il testo de Il ristorante italiano di Umewaka Naohiko, bellissimo dramma nō moderno e autobiografico, dove il protagonista è infatti un maestro di teatro nō, che si rende conto di aver cominciato a confondere il confine fra il teatro e la vita, a vivere senza riuscire a distinguere la finzione dalla non-finzione. La storia mette in discussione tutto; il passato riaffiora continuamente nel presente, e gli spettri si muovono in mezzo ai vivi. Anche qui, come in ogni nō che si rispetti, la vicenda ruota intorno allapparizione di un fantasma. Come disse Paul Claudel, «il dramma è qualche cosa che avviene, il nō è qualcuno che viene». Interpretato da studenti del Dipartimento di Musica e Spettacolo dellUniversità di Bologna, lo spettacolo viene definito da Angela Grasso una vera e propria «canoa che si muove tra antichità e innovazione, tra Oriente e Occidente».
di Giulia Tellini
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