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Marco De Marinis

Il teatro dell’altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea


Firenze, La casa Usher, 2011, pp. 231, euro 25,00
ISBN 978-88-95065-47-2

Maestri del Novecento teatrale

Il 2 marzo 2012, al Teatro della Pergola di Firenze, è stato presentato il volume di Marco De Marinis, Il teatro dell'altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea, Firenze, La casa Usher, 2011, 231 pp., euro 25,00. ISBN: 978-88-95065-47-2. Pubblichiamo qui l’intervento di Stefano Mazzoni:            

              

Il teatro dell’altro è un libro, ricco di tensione ermeneutica, che indaga tre maestri del Novecento teatrale: Artaud, Grotowski, Barba. L’Introduzione perimetra la griglia di riferimento: le complementari prospettive interculturalismo-transculturalismo; l’esperienza dell’alterità, ossia dell’incontro-confronto con l’altro, intesa a ragione quale chiave di volta nella lunga durata in Occidente della relazione teatrale attore-spettatore; il novecentesco moto teatrale tra Est ed Ovest e la tradizione del cosiddetto “teatro eurasiano”; nonché, infine, la riforma della ricezione sperimentata dalla civiltà teatrale del XX secolo e riconducibile a due principali alternativi modelli: lo spettatore partecipante e lo spettatore testimone. In breve: un ben congegnato “preludio” alle tre parti che costituiscono il volume. 

 

La prima di esse (Antropologia teatrale: un riesame) analizza La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale scritto da Eugenio Barba su sollecitazione di Fabrizio Cruciani ed edito nel 1993. Piace sottolineare, anzitutto, la ricostruzione filologica compiuta da Marco De Marinis in questa laica anatomia della Canoa. Penso, in particolare, all’individuazione del «nucleo originario» (p. 38) del trattato nel testo intitolato Antropologia teatrale (pubblicato da Feltrinelli nel 1981 nel volumetto La corsa dei contrari). Vis filologica, dicevo, che mostra al lettore, contestualizzandoli, le trasformazioni e gli sviluppi dell’iter teorico barbiano dal 1980 al 1993: e.g., dall’iniziale orientedipendenza sino al tentativo di riequilibrante de-orientalizzazione incardinato sul recupero delle teoresi e delle prassi dei grandi maestri europei della scena novecentesca: «tutto il mio apprendistato teatrale si è svolto nella regione costituita dal moto fra Est e Ovest, che ora chiamo teatro eurasiano», asserisce Barba nella Canoa.

 

Con saldo senso della storia De Marinis indaga la lezione del fondatore-leader dell’enclave Odin Teatret. Si vedano, per es., le belle pagine su energia, partitura, corpo-mente e sottopartitura dell’attore. Inoltre, lo studioso vaglia con rigore le obiezioni mosse da più parti alle teorizzazioni antropologico-teatrali del più importante allievo di Grotowski. Su ciò giova insistere. A ben vedere, La canoa di carta si configura come una proposta forte e ambiziosa: un’organica «nuova teatrologia» (p. 42) formulata da un maestro della scena contemporanea e destinata a un’udienza allargata di attori, spettatori, storici del teatro. Tuttavia dubbi epistemologici restano. Siamo in presenza di una «antropologia teatrale tout court» o, invece, di un’«antropologia del teatro eurasiano»? (p. 58). Ha spessore scientifico la comparazione delle ricorrenze e delle analogie dei processi creativi dell’«attore in quanto tale»? (La canoa, p. 73). Davvero, insomma, la nozione di identità professionale dell’attore d’ogni luogo e d’ogni tempo, d’ogni cultura e d’ogni mentalità, consente un approccio storico-comparativo rigoroso? De Marinis mette in guardia su rischi concretissimi quali l’omogeneizzazione delle fonti praticata dall’antropologia teatrale e la possibile manipolazione performativa:

 

«Guardando da tanti anni Barba mentre lavora con attori, […] mi sono chiesto spesso se si può parlare in questi casi di effettive situazioni di laboratorio, sperimentali nel senso stretto del termine, cioè di condizioni scientificamente corrette per l’osservazione comparativa dei fenomeni attorici e dei principi transculturali che, secondo l’antropologia teatrale, stanno alla loro base. Ogni volta che mi pongo questa domanda […] non riesco a dissipare delle perplessità (p. 63, corsivo mio)».

 

Perplessità che affinano l’analisi facendole compiere un salto di qualità. Dunque: cos’è l’antropologia teatrale? «Una scienza, una pedagogia attorica o, piuttosto, un’estetica»? (pp. 85-86). È economica l’ipotesi che il livello pre-espressivo, motore dell’antropologia teatrale dell’ISTA e della Canoa, possa considerarsi, sul piano storico, il «fulcro, o nucleo generatore, dell’intero fatto teatrale»? (p. 83). Si leggano in proposito le riserve espresse dallo studioso. E si pensi alla teoria teatrale formulata da Jean-Marie Pradier illustrata nella parte finale del Saggio su “La canoa di carta”. La sostanza di quanto sin qui registrato confluisce nelle Conclusioni provvisorie e parziali (pp. 96-97):

 

«a me sembra che la Canoa e l’antropologia teatrale rischino di produrre un’eccessiva sproporzione […] tra la loro idea debole, o debolissima, di scienza, e il carattere forte, o fortissimo, delle loro ambizioni teoriche. In altri termini, il pericolo è che, alzando sempre di più il tiro delle ipotesi (come avviene, in questo libro, con la teoria totalizzante del pre-espressivo) e contemporaneamente abbassando sempre di più i criteri della loro dimostrabilità/verificabilità […], l’antropologia teatrale finisca, come scienza analitica, per avvolgersi nel circolo vizioso di affermazioni che, quanto più ambiscono alla credibilità e ad assumere un carattere onniesplicativo, tantomeno accettano di sottoporsi all’onere della verifica, se non della dimostrazione […]. Ma che altro rappresenta un insieme di affermazioni forti sull’Arte, che si sottrae all’onere della verifica e del controllo, se non un'estetica o, più precisamente, una poetica? Che altro è una teoria del teatro, che rivendica l’efficacia pratica come suo unico criterio di verifica e di controllo, se non una pedagogia teatrale?»

 

Non si può che consentire e aggiungere, con March Bloch, che lo storico non ha il diritto di presentare una affermazione se non a condizione che possa essere verificata. Sappiamo d’altronde che il mestiere di storico non conosce certezze. Il nostro è un punto di vista tra i tanti, situati come siamo sulla labile soglia interpretativa individuale oblio/memoria, passato/presente. E il passato, si sa, resta per lo storico a-centrica terra straniera.

 

*

 

La seconda parte del Teatro dell’altro (Fra rito e teatro: due esperienze chiave del Novecento teatrale) mette una lente d’ingrandimento dapprima sull’Artaud del paese dei Tarahumara, e poi sulla ricerca sul rituale compiuta da Grotowski. Artaud «fu un profeta», si afferma in Per un teatro povero.

 

De Marinis prende le mosse da una questione apparentemente secondaria (il buon Dio, si sa, sta nei dettagli), riconducendo, con saggia cautela, la visionaria chiusa all’insegna del supplizio del fuoco che si legge nella versione definitiva della prefazione a Il teatro e il suo doppio alla sua fonte più probabile: dico la cerimonia indiana del peyotl dominata dalle fiamme di un gran rogo. L’ipotesi è economica ancorata com’è all’esperienza decisiva compiuta da Artaud fra l’agosto e l’ottobre del 1936 nella messicana Sierra Madre del Norte e dunque ai riti incandescenti del fungo allucinogeno in grado di ricondurre «l’io alle sue vere sorgenti» (così Artaud). «Sono qui come spettatore, – asseriva costui nel luglio del ’36 – e dirò perfino come discepolo. Sono venuto in Messico per imparare qualcosa, e voglio riportarne degli insegnamenti in Europa. […] Non è la cultura dell’Europa che sono venuto a cercare qui, ma la cultura e la civiltà messicane originali». Per Artaud fu il Messico «il vero Oriente» (p. 108) ove perseguire l’autentica cultura e il «vero teatro» del corpo-mente; il solo, come egli afferma ne Il teatro e gli dèi, che «può mostrarci la realtà». Anche per tale “via” messicana si spiega il periodo del Secondo Teatro della Crudeltà degli anni Quaranta.

 

La spedizione antropologica nella Sierra Tarahumara fu dunque un viaggio reale, non un frutto dell’immaginazione, come pure è stato ipotizzato. Al riguardo le pagine di De Marinis paiono risolutive appese come sono a una conoscenza profonda dell’opera artaudiana e capaci perciò di produrre verifiche puntuali e congetture plausibili agganciate a un orizzonte culturale specifico.

 

La memoria di quella partecipe, indelebile ricognizione “sul campo” – il paesaggio della Sierra, l’incontro diffidente con i Tarahumara, le cerimonie di costoro, l’iniziatico-terapeutico rito del peyotl purificatore – fu rielaborata da Artaud in una messe stratificata di scritti riconducibile ad almeno tre diverse fasi che qui schematizzo:  a) 1936-’37, prima versione, “a caldo” (La danza del Peyotl: «fuochi di legna salivano da ogni parte verso il cielo. In basso erano già incominciate le danze […]. Lassù, sulle pendici dell’enorme montagna che scendeva a scaglioni verso il villaggio, era stato tracciato un cerchio di terra. E già le donne […] pestavano il Peyotl con una sorta di scrupolosa brutalità»); b) 1943-’44, seconda versione, in chiave estatica mistico-cristiana (Il rito del Peyotl: «e mi sembrò di rivedere nell’Infinito e come in sogno il modo in cui Dio ha suscitato la Vita»); e, infine, c) 1945-’48, terza versione, fase della teoria degli envoûtements, dell’abiura del Cristo e dell’adesione a un «materialismo assoluto» (Il vescovo di Rodez: «ora, io, signor Artaud, non ho niente a che fare con Dio, e non ammetto si fondi una religione sulle mie vertebre o sul mio cervello. […] La chiesa cattolica romana sia maledetta con Voi, Lucifero, Gesù Cristo e lo spirito iniquo di vergine che fomentò il sudore spirito santo». E ancora, in una lettera a Henri Parisot: «sono andato sulle alture messicane solo per sbarazzarmi di Gesù Cristo, così come un giorno conto di andare nel Tibet per svuotarmi di dio e del suo spirito santo»).

    

Un lavoro più che decennale interpretabile, secondo lo studioso, in una duplice complementare prospettiva: da un lato, come un “referto” costellato d’echi delle tragiche vicende biografiche di Antonin (si pensi ai molteplici internamenti manicomiali e al periodo degli elettrochoc nella clinica di Rodez). Dall’altro, invece, come un incompiuto resoconto di un viaggio fatale: una «sorta di rivelazione a puntate, nettamente scandita» (p. 121), un interiore svelamento differito nel tempo. Un grumo di ricordi e visioni che pulsò nella mente di uno sfortunato uomo d’eccezione sino agli ultimi suoi giorni vissuti, tra Ivry e Parigi, nel segno, doloroso ed estremo, dell’attore-uomo che non recita ma – cito dalla nota lettera a Paule Thévenin del 24 febbraio 1948 – agisce «un teatro di sangue».  

 

*

 

Da Artaud a Grotowski. De Marinis pone sotto il segno del rito/rituale l’intero percorso artistico e scientifico del pragmatico maestro polacco. Quest’ultimo, è noto, studiò recitazione alla Scuola superiore statale del Teatro di Cracovia negli anni bui della repressione stalinista in Polonia. Fu regista di spettacoli e smise di crearli. Conferì autonomo valore alle prove. Si dedicò al parateatro (o teatro della partecipazione), al teatro delle fonti e all’arte come veicolo. Si concentrò sull’arte dell’attore e riformulò il ruolo dello spettatore oscillando tra lo spettatore partecipante e lo spettatore testimone capace, come egli dice, di «non dimenticare, non dimenticare a nessun costo». Si autodefinì teacher of Performer e tracciò, prendo in prestito parole di Ferdinando Taviani, «la via di uno “yoga” libero da ipoteche dottrinarie e metafisiche», utilizzando contesto, culture e tecniche teatrali.

 

Un tessuto ricco di pensiero esperienze attività che sarebbe fuorviante, fa bene De Marinis a ribadirlo, cristallizzare in diverse fasi paratattiche (per intendersi: dal teatro degli spettacoli, alias arte come presentazione, all’arte come veicolo). Riconducibile com’è, piuttosto e meglio, quel tessuto prezioso, a una ricerca metodica e unitaria. Sostanziata dall’attenzione conferita al rituale, dal lavoro dell’individuo su sé stesso e da una performativa concretezza. «Il rituale è performance, un’azione compiuta, un atto. […] Il Performer è uno stato dell’essere», affermava Grotowski nel 1987. Si prenda poi Dalla compagnia teatrale all’arte come veicolo (1993-1995):

 

«Dal punto di vista degli elementi tecnici, nell’arte come veicolo tutto è quasi come nelle performing arts; lavoriamo sul canto, sugli impulsi, sulle forme del movimento, appaiono anche motivi testuali. E tutto riducendosi allo stretto necessario, fino a creare una struttura altrettanto precisa e finita come nello spettacolo […], la differenza sta nella sede del montaggio. Nello spettacolo la sede del montaggio è nello spettatore; nell’arte come veicolo la sede del montaggio è negli attuanti, negli artisti che agiscono».

 

Ancora, lascio nuovamente la parola a Grotowski: «si può dire “arte come veicolo”, ma anche “oggettività del rituale” oppure “arti rituali”». E quindi, nei programmi delle lezioni di antropologia teatrale del 1997-’98 per il Collège de France a Parigi:

 

«Plusieures grands ethnologues et anthropologues ont étudié le phénomène du rituel, mais je cherche à étudier ce phénomène avec les outils liés aux arts dramatiques. Je cherche à l’analyser du point de vue pratique sur la base de la méthodologie du jeu de l’acteur et du travail du metteur en scène». 

 

Si pensi inoltre al corso tenuto da Grotowski nel 1982 a La Sapienza di Roma e documentato da un ponderoso dattiloscritto. Una «miniera preziosa, e ancora troppo poco esplorata» (p. 154), cui De Marinis dedica proficua attenzione sottolineando tra l’altro il passaggio grotowskiano «dallo schema diacronico-genealogico “dal rituale al teatro”» a quello «sincronico-strutturale “rituale vs teatro”» (p. 159); intendendo qui per rituale, si è visto, un’azione compiuta, organica  e organizzata.

 

*

 

La terza parte del volume s’intitola Teatro e alterità: prospettive pluridisciplinari. In essa si parla dei modi di rapportarsi con l’altro, modalità in bilico tra ripulsa e desiderio. Si pone l’accento sulla possibilità che il teatro, inteso come «doppio della cultura», possa costituire una palestra per accettare l’«altro in quanto tale» (p. 170). Si pone l’accento altresì sulle rivoluzioni teatrali novecentesche ideate da quei registi-pedagoghi che intesero tragittare il teatro del tempo loro dall’intrattenimento-evasione all’etica e alla sfera conoscitiva e formativa. Si analizzano con acume esperienze teatrali contemporanee maturate nell’ambito del disagio, della diversità e dell’emarginazione e si riflette sul lavoro dell’individuo su sé stesso, auspicando un duplice passaggio: dall’«uso pedagogico del teatro […] alla pedagogia teatrale» e dall’«uso terapeutico del teatro […] alla terapia teatrale» (p. 180). Si torna poi al «nome magico» di Grotowski (così Peter Brook) e al «segreto del Novecento teatrale» (p. 183).

 

Il teatro (meglio, quel teatro appeso tra corpo anima e pedagogia sperimentato negli Studi d’inizio secolo e nei “santuari” dei piccoli teatri-laboratorio del secondo Novecento detestati, aggiungo, dal grande Kantor) può «salvare o aiutare a salvare (salvarsi)?» (p. 184). Può migliorare la vita? De Marinis indaga la questione concentrandosi sulla ricerca grotowskiana. Ricordata, con Richard Schechner, la capacità di Grotowski di cambiare le tante persone da lui incontrate nel corso della propria esistenza, interpreta con finezza la svolta decisiva impressa dal maestro polacco all’arte e alla vita di un artista quale fu Ryszard Cieślak. Il «Principe degli attori», per usare un espressione di Grotowski. Un attore «trasformato», certo; straordinariamente maturato «sul piano umano e artistico» (p. 188), è vero. Si pensi all’estatico martire del Principe costante. Ma, osserva De Marinis, non per questo Cieślak si sentì poi realizzato. Al contrario, prosegue lo studioso, forse egli fu “bruciato” irrimediabilmente da quell’evento. E fu traumatizzato dalla decisione di Grotowski di non fare più spettacoli, tant’è che dopo quel trauma visse un’esistenza infelice, travagliata e persino autodistruttiva.

 

Si arriva quindi a mettere un’ulteriore lente d’ingrandimento sul novecentesco «teatro-non-teatro concepito come lavoro su sé stessi, come veicolo»; inteso o come armonica disciplina interiore, oppure quale modalità di «coscienza-conoscenza» (p. 189) in cui il lavoro individuale diviene veicolo di esperienza. A queste due filiere pertengono sia le grandi sperimentazioni «di trascendimento del teatro-spettacolo», da Stanislavskij a Grotowski (e oltre); sia «i grandi metodi di lavoro su sé stessi di ambito extrateatrale» (p. 190). Si pensi al metodo di Gurdjeff. È in questa duplice officina del corpo-mente che si rintraccia, secondo il nostro studioso, il “segreto” del Novecento teatrale. Segreto che trova nello sperimentare grotowskiano la ricerca «più rigorosa e profonda» (p. 190). E, si badi, già dalla prima metà dagli anni Sessanta è individuabile in quella sperimentazione la doppia prospettiva aspetto specificamente teatrale/«presupposti extra-artistici» (p. 192). Il che conferma l’inefficacia delle periodizzazioni troppo rigide dell’itinerario del maestro polacco. De Marinis, inoltre, chiosa puntualmente le già citate riflessioni di Ferdinando Taviani sulla «doppia visuale» e sullo «yoga» grotowskiano, sottolineando che Taviani propone un’«immagine del lavoro su di sé, nell’arte come veicolo, lontana da ogni facile remunerazione, da ogni utilitarismo egoistico, da ogni ottimismo ingenuo (o interessato)» (p. 197). È questa, forse, la sostanza della postrema ricerca di Grotowski.

 

Chiude il volume il capitolo Contro la distanza: verso nuovi paradigmi per l’esperienza teatrale: una sorta di viatico metodologico. L’attenzione è rivolta in primis a due modelli alternativi di lunga durata di esperienza estetica o, se si preferisce, di fruizione teatrale: A) quello occidentale, di stampo platonico-aristotelico, fondato in larga misura sul «vedere-udire e dunque sulla distanza e sul logos dell’interpretazione-comprensione» (p. 202). B) Quello “asiatico” incardinato invece sul gustare e sulla partecipazione sinestesica e cinestetica (si pensi, con Schechner, al “teatro rasico”). Da una parte, dunque, opera nello spettatore il cervello superiore o primo cervello: vista e udito, logos e distanza, comprensione-interpretazione. Dall’altra, invece, si attiva in costui il cosiddetto secondo cervello: il cervello addominale o sistema nervoso enterico che produce sostanze psicoattive e induce una partecipazione fisica polisensoriale diretta. Mettendo a frutto le acquisizione delle neuroscienze e ragionando le teorizzazioni di Turner e Schechner, De Marinis osserva che la ricezione estetica occidentale non solo rimuove o sottoutilizza la corporeità (cervello addominale incluso), ma anche il cervello superiore, poco utilizzando l’emisfero destro. E conclude: «i nostri paradigmi teorici, il nostro modo di studiare i fenomeni artistici tengono ancora troppo poco conto dei loro fondamenti biologici e genetici, restano ancora, nonostante tutto, troppo idealistici» (p. 205). È vero. Valga da esempio l’anacronistica pregiudiziale testocentrica, tornata alla ribalta in questi anni, che sottovaluta sia l’intelligenza motoria, sia l’intrinseca pluralità artistico-produttiva del teatro e dello spettacolo.

 

De Marinis si sofferma quindi sulla già citata etnoscenologia di Pradier calibrata sull’«evoluzionismo sincronico» (p. 209); riflette sui «nuovi paradigmi» dell’esperienza estetica teatrale novecentesca; torna sulla prediletta figura di Grotowski, vero e proprio filo d’Arianna del volume; per poi approdare, infine, al lavoro “aperto” di Thomas Richards e Mario Biagini al Workcenter di Pontedera. Si legga specialmente la densa finale Postilla 2010 (pp. 221-227).

 

Il resoconto qui delineato è parziale. Non potrebbe essere altrimenti. Al lettore il piacere di scoprire un libro equilibrato, che si distingue anche per la nitida prosa. Un libro destinato a rimanere un punto di riferimento essenziale per decifrare la storia delle enclaves teatrali del secolo breve e delle sue parabole. Il che nulla toglie all’importanza sul piano storico di quel teatro di tradizione – ma penso anche alla teatralissima opera lirica – che, più modestamente, ha giocato le proprie carte novecentesche per tentare di conquistare e riconquistare con i propri spettacoli ogni tipo di pubblico.

di Stefano Mazzoni


La copertina

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